Indice
- La crisi del paradigma fedeltà e l’evoluzione scientifica della procreazione
- La fedeltà nel costrutto giuridico del matrimonio.
- Conclusioni
1. La crisi del paradigma fedeltà e l’evoluzione scientifica della procreazione
E’ inutile negarlo: il matrimonio canonico e l’influenza della Chiesa costituisce ancora una grosso monito, quanto meno in Occidente, all’evoluzione dei costumi sociali ed all’abbandono delle categorie morali a cui si lega la fedeltà, il rapporto coniugale, il rapporto tra coniugi, la parità dei sessi dentro e oltre la comunità familiare.
La fedeltà sembrerebbe restare in questa prospettiva ancora connessa alla presunzione di paternità. La donna è ancora proprietà necessaria ai fini riproduttivi: è il noto ius in corpore romano che di fatto ritroviamo anche negli scritti canonici (codex iuris canonici del 1917) in cui si afferma che con il consenso matrimoniale si accetta altresì il ius in corpus del marito sulla moglie, perpetuum et exclusivum, chiamata a prolis generationem[1]. Vale a dire che la moglie, nel prestare libero consenso al matrimonio, altresì “si dà e si ottiene diritto perpetuo ed esclusivo al corpo del coniuge per gli atti propri alla generazione. Perché siavi il consenso bisogna conoscere che il Matrimonio è società permanente per la procreazione”[2].
Va da sé che la visione della donna in tale contesto era connessa alla purezza della stirpe: affinché tale purezza fosse certa, la donna era proprietà del marito e punito e condannabile era ogni atto che sottraeva al coniuge tale certezza. In tal senso, la Chiesa gravemente biasimava la violazione della fedeltà, ledendo essa di fatto una costruzione familiare e della discendenza secondo la formula cattolica originale, volta all’unione carnale solo ai fini procreativi.
Dopotutto, è con i Patti Lateranensi del 1929[3] che lo Stato Italiano accetta di parificare il matrimonio religioso, nella sua interezza, al matrimonio civile[4]. Tale accordo, certamente più politico che religioso, restava altresì fermo il concetto secondo il quali alla fedeltà era connessa la certezza della paternità, cui focus argomentativo resta la certezza paterna divenendo il tema dei diritti della prole solo un fatto eventuale e certamente secondario. Tant’è che era determinante precisare se il figlio fosse nato fuori o in costanza di tempus matrimoniale.
E’ solo nel 1970 con la legge n. 898[5] introduttiva del divorzio che lo Stato Italiano si affranca da questa commistione significativa tra sacralità del vincolo e significato giuridico-civile del medesimo.
A dare poi un’ulteriore significativo strappo alla validità del binomio fedeltà/certezza della paternità è la nascita di Louise Brown[6], avvenuta il 25 luglio 1978, la prima bambina nata da fecondazione in vitro. Tale tecnica di fatto aveva definitivamente realizzato una scissione tra l’atto sessuale e il concepimento.
Da lì in poi, anche il radicato brocardo latino mater semper certa est[7], raggiunge la crisi ed ogni smentita fattuale: oggi assistiamo alla donazione dell’ovocita (donatrice biologica) impiantato su donna differente dalla donatrice (soggetto offertosi per la gestazione e il parto, fecondato anche da soggetto non necessariamente connesso sentimentalmente o legalmente alla donatrice o alla gestante (donatore di sperma, a volte anonimo), ed il cui nascituro potrebbe persino essere affidato ad ulteriore terzo soggetto (genitore sociale che ha finanziato il procedimento e che si occuperà della crescita della prole con ogni effetto di legge).
Alla luce di ciò la filiazione si scinde dal valore fedeltà coniugale e persino dalla perifrasi in costanza di matrimonio, atteso che il figlio oggi può essere concepito in costanza di coniugio ma da soggetti che non sono i coniugi che delegano a terzi, con tecniche scientifiche, la procreazione e/o la gestazione, con propri ovociti femminili e gameti maschili, o con ovociti della coniuge e gameti altrui, o con ovociti altrui e gameti del coniuge. Ne deriva la crisi concettuale dell’art. 231 c.c. i cui presupposti per la definizione di figlio legittimo come nato in costanza di matrimonio, con il suo successivo art. 232 c.c. che tende a coprire un lasso temporale anche successivo alla fine del rapporto di coniugio, vengono meno, restando la definizione di figlio legittimo ancorata solo all’automatico riconoscimento dei coniugi ancora legislativamente in atto, salvo disconoscimento che il coniuge può sempre richiedere spezzando la presunzione di legge.
Assistiamo dunque ad una vera e propria scissione tra fedeltà e procreazione, tra verità biologica e verità legale e l’incrinarsi del modello sacramentale che annoda strettamente il teologico al legale.
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2. La fedeltà nel costrutto giuridico del matrimonio
Ma a dare un ulteriore sferzata è la fine delle categorie che rendono accessibile ed ammissibile le richieste di separazione e divorzio solo in ipotesi tassative; le maglie si allargano a dismisura, vanificando quella strenua lotta alla persistenza dell’inscindibilità del vincolo; e giunge la fine dell’era della colpa, che trova traduzione in due rivoluzioni legislative, la legge sul divorzio del 01/12/1970 n. 898 già citata, e la Riforma del Diritto di Famiglia realizzata con la Legge n.151 del 1975[8] che pone un faro sul doppio binario del matrimonio canonico vs matrimonio civile.
Nel sistema previgente infatti, come abbiamo visto anche nelle precedenti esposizioni, resisteva la separazione per colpa, istituto che prevedeva la separazione per l’intervenuta violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio, e quindi solo per determinate cause, con contestuale riconducibilità delle violazione dei doveri discendenti dal matrimonio in capo ad uno dei coniugi che pertanto aveva la colpa del fallimento del coniugio. In questa concezione, resisteva fortemente, quale prima causa, l’adulterio; vi faceva eco l’abbandono del coniuge, per poi ricadere su categorie invero note anche al diritto canonico e si qui che sopravvivono tutt’oggi (sevizi, violenze, omessa residenza familiare, condanne penali).
La dichiarazione di colpa era una sorta di sanzione inflitta al coniuge responsabile del naufragare della familia. Non era possibile la separazione in assenza di colpa. Ciò perché con il codice del 1942 restava ancora ben radicata la concezione autoritaria e patriarcale della famiglia dove colpevole era il sottrarsi agli obblighi matrimoniali e solo il verificarsi di tali ipotesi consentiva la separazione dei coniugi. E’ solo con la Riforma che dalle aule di giustizia viene cacciata la colpa coniugale, sostituita da norme che presuppongono e pongono a fondamento l’uguaglianza, morale e giuridica, tra i coniugi.
Oggi non resistono ipotesi tassative per accedere alla separazione, e la disciplina attuale ricade nell’art. 151 c.c. dove così si legge: “La separazione può essere chiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole.”
Alla colpa segue il consenso: la reciproca e consensuale considerazione dell’impossibilità di proseguire la vita matrimoniale è ragione sufficiente per ottenere la separazione, amena da categorie morali e tassative nelle quali fare ricadere necessariamente la fine del matrimonio. Ciò nonostante, il secondo comma dell’art. 151 c.c. introduce la possibilità di richiedere l’addebito della separazione in capo all’altro coniuge quando è uno solo dei due ad aver determinato con i propri comportamenti il naufragare del progetto coniugale. Vale a dire che al criterio del consenso si affianca la tutela dell’impegno non perpetrato al mantenimento della società familiare all’interno di canoni di affetto, rispetto e sicurezza. La prospettiva, invero, vede l’introduzione di un altro focus valutativo, relativo non più solamente ai coniugi ma al benessere fisico e mentale della prole.
Nell’attuale riforma che entrerà in vigore a breve (c.d. Riforma Cartabia[9], istitutiva del Tribunale Unico della Famiglia) lo spazio concesso alla prole nella dialettica della fine della convivenza familiare si estende al massimo consentendo l’ingresso in giudizio anche della prole, portatrice sana di interessi personali, frustrati e spesso gravemente compromessi dalla subìta crisi coniugale, per il tramite della figura del Curatore Speciale del Minore.
Resta però inalterata una perifrasi, prevista nel citato art. 151 c.c., che oggi assurge ad elemento identificativo della crisi familiare: l’intollerabilità della prosecuzione della vita familiare. Il nuovo paradigma familiare, che abbraccia tanto i coniugi con i diritti/doveri coniugali, quanto la prole, è oggi la tollerabilità del vivere comune e la conseguente possibilità che ciò possa avvenire senza effetti negativi e devastanti. Nell’impossibilità di tale costruttiva convivenza trova sempre spazio l’interruzione del rapporto.
Cosa resta dunque dell’obbligo/dovere della fedeltà coniugale? Esso è definitivamente stralciato in fatto ancorché non in diritto? E’ ancora possibile il paradigma coniugale agostiniano che riteneva che “senza l’intenzione della fedeltà e l’accettazione della prole non vi può essere matrimonio”?
L’abolizione del citato art. 559 c.p. ha dato un significativo cambio di passo non solo con riferimento alla fedeltà e all’adulterio. Ma la sentenza della Corte Costituzionale che ne ha determinato l’illegittimità ha aperto un varco ad una nuova concezione della fedeltà, non più sbilanciata sulla moglie e connessa alla proprietà del suo corpo in funzione della certezza procreativa, ma parificata tra i coniugi.
Di fatto la sentenza della Corte Costituzionale del 19/12/1968 n. 126[10] oltre ad abrogare l’art. 559 c.p. ha stabilito che “un diverso trattamento tra l’adulterio della moglie e quello del marito, comporta riflessi sul comportamento dei coniugi all’interno della medesima unione familiare con conseguenze assai pericolose, potendo il marito contate su un differente trattamento sanzionatorio”. La diseguaglianza così posta in essere, oltre a minare fortemente le basi della comunità familiare nella sua essenza, determinava una disparità violativa dell’art. 3 Cost. in combinato disposto con l’art. 29 Cost.
Con la sentenza n. 126 del 1968 la Corte costituzionale ha quindi radicalmente modificato l’orientamento che era stato adottato con la precedente pronuncia n. 64 del 1961[11], così dichiarando l’illegittimità del primo e del secondo comma dell’articolo 559 c.p. in quanto concretizzanti una discriminazione non necessaria alla tutela dell’unità familiare protetta dall’art. 29 Cost. E nello specifico, la Corte con efficacia, afferma: “la discriminazione, lungi dall’essere utile, è di grave nocumento alla concordia ed alla unità della famiglia. La legge, non attribuendo rilevanza all’adulterio del marito e punendo invece quello della moglie, pone in stato di inferiorità quest’ultima, la quale viene lesa nella sua dignità, é costretta a sopportare l’infedeltà e l’ingiuria, e non ha alcuna tutela in sede penale”.
E’ il primo passo. Nel 1974 la Corte Costituzionale interverrà nuovamente sull’obbligo di fedeltà con preciso riferimento all’art. 156 c.c. comma 1, in combinato disposto con l’art. 3 della Carta Costituzione, e con la sentenza n. 99 del 1974[12] così si esprime: “L’art. 156, comma primo, cod. civ. e’ illegittimo nella parte in cui, disponendo che per i coniugi consensualmente separati perduri l’obbligo reciproco di fedeltà, non delimita quest’ultimo al dovere di astenersi da quei comportamenti che, per il concorso di determinate circostanze, siano idonei a costituire ingiuria grave all’altro coniuge. Infatti l’obbligo reciproco di fedeltà, enunciato per i coniugi non separati nell’art. 143 del codice civile, ha il suo ragionevole presupposto nell’obbligo di coabitazione sancito nello stesso articolo. Venendo meno quest’ultimo con la separazione consensuale dei coniugi, e conseguentemente a questa, venendo meno il diritto alle prestazioni sessuali dell’altro coniuge, l’obbligo di fedeltà assoluta desumibile dall’art. 156, comma primo, stesso codice anche in tali ipotesi, si traduce in eguale trattamento di situazioni giuridicamente differenziate e, per ciò stesso, in contrasto con l’art. 3 della Costituzione. L’obbligo di fedeltà tuttavia sussiste limitatamente al dovere del coniuge separato consensualmente di astenersi da atti di infedeltà che, in concorso di determinate circostanze, possono costituire ingiuria grave per l’altro coniuge, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 151 del codice civile”.
La sentenza del 1974, unitamente alla riforma del 1975, determineranno la nascita di un nuovo paradigma che sostituirà quello precedentemente esistente determinato dal binomio fedeltà/procreazione, con l’attuale binomio fedeltà/rispetto.
La dottrina ha cercato nuovi termini per esprimere il nuovo senso orientato della fedeltà, e si registra un mutamento lessicale da obbligo di fedeltà a dovere di fedeltà. Ma sebbene sussista questa sfumatura lessicale, volta a ridimensionare il senso del precetto coniugale, appare sempre più sussistere un demansionamento della fedeltà dalla categoria degli obblighi a quella delle scelte libere. Troviamo così in letteratura nuove perifrasi: “dedizione fisica e spirituale ovvero lealtà”[13] oppure “impegno a non tradire la fiducia reciproca” dove il termine impegno rappresenta una categoria morale assai più mite dell’obbligo o del dovere. Ciò ci riporta inevitabilmente ai recenti orientamenti sull’addebito della separazione e sulla valutazione dell’intollerabilità della convivenza. Recentissima la sentenza n. 8750/2022 Cass. Civ. che vale la pena richiamare[14].
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8929 del 12/04/2013[15], richiamata molteplici volte sino alla più recente giurisprudenza, afferma che la violazione dell’obbligo di fedeltà, con il conseguente addebito della separazione ai sensi dell’art. 151 c.c., è possibile quando la condotta dell’adultero comporti effettivamente offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge. Pertanto se ne desume che non si può parlare di adulterio solo perché il coniuge intrattiene con un estraneo una relazione di “scambio interpersonale” che non è idonea a destare il sospetto di infedeltà coniugale e a offendere la dignità e l’onore dell’altro coniuge (nel caso di specie la moglie aveva intrattenuto un fitto scambio epistolare via internet o via chat, ma poi concretizzatisi in un incontro intimo).
La sentenza contiene un cambio di orientamento rispetto alla precedente giurisprudenza della stessa Corte. Ed infatti, con altra pronuncia del 11/06/2008 n. 1557[16], la Cassazione aveva invece dichiarato che l’addebito richiede l’accertamento di un comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio indicati nell’art. 143 c.c., tra questi appunto l’obbligo della fedeltà, inteso nella pronuncia non solo come un reciproco astenersi da relazioni intime con soggetti estranei alla coppia, ma anche come impegno a preservare la reciproca fiducia. La Cassazione, in quell’occasione aveva accostato il concetto di fedeltà coniugale a quello di lealtà, la quale impone di sacrificare gli interessi e le scelte individuali di ciascun coniuge in conflitto con gli impegni e le prospettive della vita comune. La Corte aveva individuato un concetto di fedeltà più ampio, di cui fa parte la fedeltà affettiva, che comporta di sacrificare le proprie scelte personali in favore di quelle imposte dal legame di coppia.
Il caso esaminato riguardava la relazione di amicizia di un marito con una collega di lavoro, con la quale trascorreva molto tempo per motivi lavorativi e con la quale aveva pernottato una notte nella stessa camera di un albergo. Questa’ultima circostanza aveva ulteriormente indotto i giudici a ritenere provato il tradimento poiché la relazione di un coniuge con estranei rende addebitabile la separazione quando, in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell’ambiente in cui i coniugi vivono, generi plausibili sospetti di infedeltà e quindi, anche se non si sostanzia in un adulterio, comporta comunque offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge (cfr. anche Cass. Civ. n. 6834/1998 e Cass. Civ. n. 3511/1994).
In questo orientamento dunque assistiamo all’estensione a contrario del valore fedeltà, dove esso può dirsi violato anche in assenza di rapporti intimi, e quindi di una relazione sessuale, se però con le modalità di vicinanza e di riscontro “sociale” può ingenerare il sospetto del tradimento, ancorché non verificatosi, e così ledere l’onore e l’immagine dell’altro coniuge.
Pertanto, alla luce dell’evoluzione concettuale appena descritta, ai sensi dell’art. 143 c.c. in combinato disposto con l’art. 151 c.c., il Giudice è chiamato a fare una valutazione che lo solleva dal mero dato fattuale (relazione intima esistente o meno) ma impone una valutazione che si rivolga ai parametri della lealtà, del rispetto, della fiducia, sino alla totale esteriorizzazione dell’evento al di fuori delle mura domestiche, e dunque del rapporto di coppia, e riferita alle possibili lesioni dell’immagine nella realtà sociale condivisa dai coniugi.
E’ qui che l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza rende decisoria la violazione. Si presuppone infatti che, se il tradimento sia avvenuto nella piena riservatezza e dunque senza una reale lesione esteriore del coniuge, la coppia possa tentare e provare a ricostruire l’unione; di talché il tradimento in sé, e dunque la violazione della fedeltà ex art. 143 c.c. può non determinare e non essere ragione valida all’interruzione del rapporto di coniugio e certamente di addebito, se la ricostruzione della vita familiare è possibile, tentata, e realizzata. In tal caso, la violazione resta elemento interno ed intimo alla coppia, senza rilevanza processuale neppure in una successiva crisi ove non si dimostri il nesso di causalità, continuato nel tempo, tra quel primo episodio e l’improseguibilità della vita comune successiva.
Al contrario, quando il tradimento, per contenuti, modalità ed esteriorizzazione rende impossibile una serena ricostruzione familiare, determinando il deterioramento della vita di coppia, senza possibilità di ricostruzione alcuna dell’unione, per aver minato profondamente le categorie del rispetto e della fiducia, essa darà vita alla vera e propria improseguibilità per intollerabilità della vita comune. Ne consegue che, nella realtà che viviamo, la fedeltà è oggi valore condiviso all’interno della coppia con modalità proprie e non assumibile come parametro del buon o cattivo funzionamento del coniugio: si pensi a quelle coppie che reciprocamente e consensualmente si concedono una deroga in limine al dovere di fedeltà, accettando e condividendo il poliamore come scelta di vita. Di talché la fedeltà resta l’unione familiare, a prescindere dalle molteplici relazioni, anche stabili, extraconiugali.
3. Conclusioni
Abbiamo avviato questa trattazione citando la legge 76/2016 sulle unioni civili e l’assenza in essa della menzione al dovere di fedeltà (Vedi Il concetto di fedeltà tra diritto e società – Parte I).
Restituiamo la responsabilità della conclusione alla medesima legge.
Come accennato al principio, la legge 76/2016 è omissiva in molte parti. Tra queste, non è prevista separazione: semplicemente le coppie unite civilmente possono determinare la fine del loro rapporto senza passare dallo step della separazione. E’ sufficiente che una delle parti manifesti, anche disgiuntamente dall’altra, la volontà di interrompere l’unione e dunque di dare vita allo scioglimento della vita comune con conseguente annotazione nei registri civili.
Orbene, mancando la previsione della separazione, come step antecedente alla cessazione degli effetti civili dell’unione, non è neppure possibile pensare all’addebito. Da una parte, anche la predetta omissione è stata considerata come elemento differenziale alla più seria unione determinata dal matrimonio; dall’altra invece, in virtù dell’evidente stralcio al dovere di fedeltà, la scelta di non introdurre la separazione come momento intermedio alla fine dell’unione, appare come strumento per sottrarre una valutazione sulle responsabilità ed un’altra forma di erosione all’obbligo di fedeltà.
Questa circostanza ha fatto pensare ad una discriminazione in atto nei confronti delle coppie coniugate, soggette invece non solo alla fedeltà ma anche al rischio dell’addebito per la violazione della medesima. Una presunta discriminazione che certo avrà conseguenze.
Sembra invece che l’orientamento sia quello, anche attraverso il passo lungo delle unioni civili, di giungere ad una definiva abolizione della fedeltà come obbligo/dovere matrimoniale, a favore di una scelta di vita e valutazione personalissima all’interno della coppia, quale essa sia, coniugata o unita civilmente.
Appare orientarsi in tal senso anche quella giurisprudenza che non rinviene, nella violata fedeltà, la sussistenza dei requisiti per la contestazione del reato ex art. 579 codice penale in tema di violazione degli obblighi di assistenza morale e materiale tra coniugi e non solo, così ancora una volta erodendo la pregnanza delle violazione. Pare invece sopravvivere l’ipotesi di responsabilità civile nell’ambito della vita familiare, ancora mantenuta tanto in dottrina che in giurisprudenza, come danno non patrimoniale sofferto dal coniuge che ha subito il tradimento con modalità lesi del proprio onore e dignità.
Resta necessaria un’ulteriore citazione.
Le omissioni (volontarie?) della legge n. 76/2016, e la conseguente apparente discriminazione in danno delle coppie coniugate, sembra troverà presto un correlato intervento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).
Assai di recente, dopotutto, la Corte di Strasburgo è intervenuta in un caso contro l’Austria[17] ribadendo come debba ritenersi equiparato il sistema familiare delle famiglie eterosessuali ed omosessuali, ritenendo doversi dare atto dell’intervenuto mutamento del paradigma legale, morale e sociale, oggi da porsi in lettura orientata con l’Art. 8 Cedu e che pertanto, la differente valutazione dei doveri e della violazione dei doveri familiari, nell’una e nell’altra ipotesi, è essa stessa generatrice di violazione dei diritti umani, dell’uguaglianza degli uomini, e della tutela alla vita familiare.
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Note
[1] Codex iuris canonici 1917, paragrafo 1081: “Consensus matrimonialis est actus voluntatis quo utraque pars tardit et acceptat ius in corpus, perpetuum et exclusivum, in ordine ad actus per se aptos ad prolis generationem”; La prima versione fu promulgata nel 1917 da Benedetto XV ( Codice pio-benedettino) con la costituzione Providentissima mater, ed entrò in vigore il 19 maggio 1918. Dalla prima versione restavano esclusi sia il diritto della Chiesa Orientale sia il diritto pubblico concernente i rapporti tra Stato e Chiesa, che venivano regolati dai Concordati. La seconda versione è stata promulgata nel 1983 da Giovanni Paolo II ed è entrata in vigore il 27 novembre 1983 con la costituzione Sacrae disciplinae leges del 25 gennaio 1983. Il nuovo codice non è una semplice revisione del Codice pio-benedettino; si tratta, infatti, di una completa riforma delle norme, nata dalla necessità di tenere conto del nuovo spirito del Concilio Vaticano II; esso provvede inoltre a tutti i nuovi istituti che traggono origine dal dettato conciliare.
[2] Vedi nota 35.
[3] I Patti Lateranensi sono accordi sottoscritti tra l’allora Regno d’Italia e la Santa Sede in data 11 febbraio 1929 e composti da un trattato, una convenzione e un concordato. Sottoposti, nella parte del concordato, a revisione nel 1984, essi regolano ancora oggi i rapporti tra l’Italia e la Santa Sede. Ai Patti si devono l’istituzione della Città del Vaticano, come stato autonomo, sovrano ed indipendente, e la piena riapertura formale dei rapporti fra lo Stato italiano e la Santa Sede che nel 1870 avevano sofferto un’importante frattura e riallacciati solo nei decenni successivi fino alla loro definitiva pianificazione con la stipula di tali accordi. Sono tutt’oggi richiamati dall’articolo 7 della Carta Costituzionale Italiana entrata in vigore nel 1948.
[4] Cfr. P. Moneta, Matrimonio canonico in Digesto Civile, Anno 2014 Utet, Torino 1994; e P. Moneta, Matrimonio Concordatario, in Digesto Civile, Anno 2014, Utet Torino 1994.
[5] Legge 01 dicembre 1970 n. 898 rubricata Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra i coniugi, in G.U. Serie Generale n. 306 del 03/12/1970
[6] I suoi genitori, John Brown e Lesley Whiting, decisero di ricorrere alla fecondazione assistita (metodo sviluppato da Robert Geoffrey Edwards e Patrick Steptoe, dopo aver provato inutilmente a concepire per nove anni, a causa di un problema alle tube di Falloppio di Lesley. Sebbene i Brown sapessero che la procedura era sperimentale, i medici non dissero loro che fino a quel momento non era ancora nato nessun bambino attraverso quel metodo. Louise nacque alle 23:47 all’Oldham General Hospital (Inghilterra), attraverso un parto cesareo programmato. Alla nascita pesava 2,608 kg. Il parto fu ripreso su nastro e divenne un documento scientifico pregiatissimo. Oggi Louise ha anche una sorella, Natalie, anch’ella concepita in vitro, che è stata la prima “figlia della provetta” a mettere, a sua volta, al mondo un bimbo, nato nel 1999.
[7] Antecedentemente alla riforma del diritto di famiglia del 1975 l’art. 269 c.c. faceva riferimento alla “madre naturale” richiamando di fatto il brocardo latino mater semper certa est; il termine “naturale” è poi stato abrogato con la riforma e la norma al primo comma del tutto sostituita dalla nuova formulazione che prevede la giudiziale dichiarazione di paternità e maternità in tutti i casi previsti dalla legge (art. 250 e 253 c.c.); interessante sul punto la pronuncia della Corte di Cassazione del 30 settembre 2016 n. 19599 in seno alla quale si legge che l’enunciato dall’art. 269 c.c., comma 3, ha costituito per millenni un principio fondamentale (Mater semper certa est), idoneo a fotografare gli effetti, sul piano del diritto, della piena coincidenza in una sola donna di colei che partorisce e di colei che trasmette il patrimonio genetico. Questa coincidenza, tuttavia, nel tempo è divenuta non più imprescindibile, per via dell’evoluzione scientifico-tecnologica che ha reso possibile scindere la figura della donna che ha partorito da quella che ha trasmesso il patrimonio genetico grazie all’ovulo utilizzato per la fecondazione. Se è indiscutibile l’importanza della gravidanza per il particolarissimo rapporto che si instaura tra il feto e la madre, non si può negare l’importanza del contributo dato dalla donna che ha trasmesso il patrimonio genetico, decisivo per lo sviluppo e per l’intera vita del nato; ed ancora: la regola secondo cui è madre colei che ha partorito, giusta l’art. 269, comma 3, c.c., non costituisce un principio fondamentale di rango costituzionale, sicché è riconoscibile in Italia l’atto di nascita straniero, validamente formato, dal quale risulti che un bambino, nato da un progetto genitoriale di coppia, è figlio di due madri (una che l’ha partorito e l’altra che ha donato l’ovulo), non essendo opponibile un principio di ordine pubblico desumibile dalla suddetta regola. Cfr. in Riv. Familia, volume V, Anno 2016, Settembre- Ottobre 2016, p. 24 Pacini editore.
[8] Legge 19 maggio 1975 n. 151 rubricata Riforma del diritto di famiglia in G.U. Serie Generale n. 135 del 23/05/1975
[9] La riforma di fatto è contenuta in due leggi: Legge n. 134/2021, entrata in vigore il 19.10.2021, che prevede la “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari” e la Legge n. 206/2021, entrata in vigore il 24.12.2021, contenente la “Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata.” Si attendono i decreti attuativi per le parti non immediatamente in vigore al 22/06/2022.
[10] Corte costituzionale sentenza n. 126 del 19 dicembre 1968 GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE, Presidente: SANDULLI – Redattore: Camera di Consiglio del 21/11/1968; Decisione del 16/12/1968,Deposito del 19/12/1968; https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=1968&numero=126
[11] Corte Costituzionale sentenza n. 64 del 28/11/1961 GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE,Presidente: CAPPI , Redattore: Udienza Pubblica del 08/11/1961; Decisione del 28/11/1961, Deposito del 28/11/1961, https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=1961&numero=64
[12] Corte costituzionale sentenza 99 del 04/04/1974 GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE, Presidente: BONIFACIO, Redattore: Camera di Consiglio del 19/02/1974; Decisione del 04/04/1974, Deposito del 18/04/1974; https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:1974:99;
[13] Corte di cassazione n. 8862 del 01/06/2012, entrambe in Banche dati leggi di Italia.
[14] La Sesta Sezione Civile della Cassazione, Presidente Clotilde Parise, dopo aver richiamato una precedente pronuncia sul punto (Cass. n. 21657/2017) evidenzia come “la relazione di un coniuge con estranei rende addebitabile la separazione ai sensi dell’art. 151 c.c., quando, in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell’ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà e quindi, anche se non si sostanzi in un adulterio, comporti offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge“. Il principio, poc’anzi, affermato, è frutto di un orientamento consolidato, che ha ripetutamente tentato di cambiare il passo all’interpretazione sull’obbligo alla fedeltà coniugale, rinvenibile in pronunce di legittimità anche di decenni addietro: cfr. Cass. 1983 n. 7156; 1982 n. 5080; n. 3511/1994; n. 6834/1998, nonché nella n. 15557/2008, che enunciava il seguente principio di diritto: “L’obbligo della fedeltà deve essere inteso non soltanto come astensione da relazioni sessuali extraconiugali, ma quale impegno, ricadente su ciascun coniuge, di non tradire la fiducia reciproca, ovvero di non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra i coniugi, avvicinandosi la nozione di fedeltà coniugale a quella di lealtà“. Principio confermato qualche anno fa, allorquando la Cassazione, con la sentenza n. 9384/2018, tanto aveva affermato, proprio in relazione al c.d. tradimento virtuale: “La condotta del marito, intento alla ricerca di relazioni extraconiugali tramite internet, integra una violazione dell’obbligo di fedeltà ex art. 143 cod. civ., in quanto costituisce una circostanza oggettivamente idonea a compromettere la fiducia tra i coniugi e a provocare l’insorgere della crisi matrimoniale all’origine della separazione“.
[15] Corte di Cassazione, prima sezione civile, sentenza n. 8929 del 12/04/2013 in Riv. Famiglia e Diritto, volume VI, Anno 2013, p. 602
[16] Corte di Cassazione, prima sezione civile, sentenza n. 15557 del 11/06/2008 consultabile con commento anche su https://www.altalex.com/documents/massimario/2009/01/08/separazione-tra-coniugi-addebito-della-separazione-violazione-obbligo-di-fedelta
[17] Cfr. Schalh e Kopf c. Austria, sentenza del 24/06/2010 e successive
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