Il concetto di gravita’ indiziaria alla luce degli orientamenti giurisprudenziali piu’ recenti

            Negli ultimi tempi, parte della dottrina si è soffermata sulle possibili interferenze tra due norme del codice di procedura penale, in ordine alla valutazione dei c.d. “gravi indizi”.
 
(cfr.M.BONETTI, Il Foro Ambrosiano, 2006).
           
Si tratta in particolare dell’art.273 del Cpp (Condizioni generali di applicabilità delle misure cautelari), il quale prevede che nessun può essere sottoposto a dette misure se a suo carico non sussistano “gravi indizi di colpevolezza”, e dell’art.192 del Cpp, dedicato alla valutazione della prova nell’ambito del processo, il quale stabilisce che l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi, a meno che gli stessi non siano gravi, precisi e concordanti.
            La posizione della giurisprudenza a tal riguardo, si è da sempre attestata su posizioni non univoche ma, in ogni caso, tutte indirizzate ad evitare che i congegni propri della fase giudiziale possano essere utilizzati e ripetuti in fase cautelare, attesa la diversità funzionale del concetto indiziario nelle distinte fasi.
            Deve segnalarsi che la Corte Costituzionale, con ordinanza n.405 del 25 luglio 2005, aveva già preso posizione sulla questione escludendo in radice il “meccanismo di recupero” dell’art.500, comma 4, Cpp in fase cautelare, precisando che tale norma processuale è in realtà “tesa a rimuovere lo sbarramento all’utilizzabilità dibattimentale di determinate dichiarazioni rese fuori dal contraddittorio delle parti, non potendo invece incidere sulla sussistenza degli indizi, che è invece necessariamente da corroborarsi…”.
            Anche la giurisprudenza europea aveva del resto portato il suo valido contributo all’argomento in discorso, prevedendo che “la privazione cautelare della libertà può darsi quando sussiste un ragionevole sospetto della commissione di un reato, basato su fatti ed informazioni obiettive, ma nella fase delle indagini il quantum probatorio non deve essere necessariamente quello richiesto per una pronuncia di condanna”, arrivando persino ad aggiungere che “se la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza legittima la restrizione cautelare, non è per ciò sufficiente a mantenerla nel trascorrere del tempo, occorrendo l’aggiunta di ulteriori ragioni che si rivelino pertinenti e sufficienti, tali da giustificare la legittimità del protrarsi delle misure”.
 
(cfr.Corte Europea, 26.9.2002, Grisez c.Belgio; 9.1.2001, Kawaka c.Polonia; 19.10.2000, Wloch c.Polonia; 6.4.2000, Labita c.Italia, 22.10.1997, Erdagoz c. Turchia).
           
Come noto, nell’ambito del dettato di cui all’articolo 192, comma 2 del Cpp, in merito al principio del c.d. “libero convincimento del giudice”, l’indizio viene interpretato come un fatto certo dal quale, per ragionamento logico fondato su regole di “comune esperienza”, si giunge alla prova di un fatto incerto (c.d. sillogismo giudiziario).
            Affinché detto indizio possa assumere peraltro validità probatoria, deve necessariamente possedere tre peculiarità di legittimità: deve essere “grave”, cioè consistente e resistente alle possibili obiezioni e dunque, attendibile e convincente; “preciso”, cioè specifico e non generico, insuscettibile di diverse interpretazioni e non equivoco e, infine, “concordante”, quale risultante della valutazione della complessità degli elementi probatori, tra loro collegati e accordabili con la medesima ipotesi ricostruttiva del fatto da provare.
            Parte della giurisprudenza ritiene che anche un solo indizio possa ritenersi sufficiente per fondare il convincimento del giudice, qualora lo stesso risulti “particolarmente pregnante”, e cioè non adatto ad offrirsi a differenti o alternative interpretazioni rispetto a quella del fatto ignoto da provare.
 
(cfr.Cass.pen.sez.VI, 17 febbraio 2005, Maniscalco, in tema di singolo episodio criminoso da cui potersi dedurre la probabilità circa la sussistenza di associazione a delinquere; Cass.pen.sez.I, 1 luglio 2002, Rapotez, per cui occorre la “convergenza verso il medesimo risultato”; Cass.pen.sez.IV, 29 marzo 1996, Capozzi, secondo la quale ”gravità e precisione devono comunque coesistere”; Cass.pen.sez.VI, 26 giugno 1992, Di Iorgi, per la quale “Il fatto deve comunque essere indiscutibile; Cass.pen.sez.VI, 13 dicembre 1991, Grillo; contra, Cass.pen.sez.I, 8 marzo 2000, Di Tella, secondo la quale la prova indiziaria “deve essere costituita da più indizi e non da uno solo di essi”).
 
                In tal senso la giurisprudenza della S.C. ha inteso riferirsi – in via esemplificativa – alle ipotesi del c.d. “alibi falso”, che a differenza dell’alibi fallito può essere valutato quale unico sufficiente indizio, “purchè sia considerato nella sua intrinseca strutturazione in rapporto alla situazione processuale concreta e sia valutato in correlazione con gli altri elementi indiziari acquisiti”; alle situazioni afferenti la valutazione del “movente”, da intendersi come ragione storica del commesso reato; ovvero al “ruolo di vertice” ricoperto da taluno nell’ambito di un associazione criminosa; alle risultanze positive del “guanto di paraffina” (oggi peraltro non più utilizzato) o dei rilievi dattiloscopici; alle intercettazioni telefoniche o ambientali dalle quali si ricavino precise accuse o chiamate in correità, ecc..
 
(cfr.Cass.pen.Sez.un., 4 febbraio 1992, Ballan; Cass.pen.sez.fer., 24 agosto 1995, Donno e a.; Cass.pen.sez.VI, 25 settembre 2005; Cass.pen.sez.I, 9 luglio 1990, Morra, in assenza di ragioni tali da poter ricondurre il delitto a diversa origine; Cass.pen.sez.fer., 27 luglio 1991, Romano; Cass.pen.sez.VI, 11 luglio 2005, Pischetola; Cass.pen.sez.I, 15 novembre 1993, Ghiani).
 
            Naturalmente i c.d. comportamenti non collaborativi, come la contumacia e la latitanza, non potranno assumere alcuna valenza indiziaria, così come non potranno assumere valore alcuno in tal senso i c.d. “indizi mediati”.
 
(cfr. Cass.pen.sez.V, 22 dicembre 1998, Sica; Cass.pen.sez.II, 27 aprile 1995, Pisano; Cass.pen.sez.fer, 3 settembre 1991, Tartaglia).
 
            In ordine invece alla determinazione degli indizi c.d. “a discarico”, valgono per la giurisprudenza canoni interpretativi meno rigidi. Si è così puntualizzato che il vaglio di legittimità ex art.606, comma 1, lett.e) del Cpp, non riguardi in particolare l’apprezzamento dei requisiti propri degli indizi, ma piuttosto “il controllo logico e giuridico della struttura della motivazione, secondo la regola che impone di verificare, prima, il grado di inferenza probatoria dei singoli indizi e, poi, la loro confluenza in una medesima direzione dimostrativa”.
 
(cfr. Cass.pen.sez.I, 13 marzo 1992, Di Leonardo; Cass.pen.sez.I, 4 febbraio 2004, Moscatiello).
 
            Per ciò che concerne la valutazione dell’indizio in ambito cautelare, il concetto sposato dall’art.273 del Cpp fa riferimento agli “elementi probatori legittimanti una misura cautelare personale, comprendente anche le prove c.d. dirette, le quali al pari di quelle indirette, devono essere tali da fare apparire probabile la responsabilità dell’indagato”.
            Si tratta in buona sostanza, non tanto di prove logiche o indirette, ma piuttosto di elementi probatori “in formazione”, perché non ancora censiti in sede dibattimentale nel contraddittorio delle parti, attesa la diversità di natura del relativo giudizio – che è di probabilità e non di certezza – pretesa per l’attuazione in concreto delle misure cautelari.
            Tali elementi peraltro, vengono ritenuti dalla giurisprudenza sufficienti per potere presumere, data la loro resistenza, che tramite la prosecuzione delle indagini potranno adeguatamente sostenere un giudizio di responsabilità, sulla base di una “qualificata probabilità di colpevolezza”.
            Non deve perciò ottenersi in sede cautelare quel grado di “certezza della colpevolezza”, necessario per poter legittimamente addivenire ad un pronunciamento di condanna, essendo ritenuto bastevole un “consistente grado di probabilità dell’attribuibilità del reato all’indagato”, del tutto paragonabile ad una prognosi nel merito secondo il requisito fondamentale del fumus boni iuris in ambito civile. Si tratta dunque di una vera e propria “prova allo stato degli atti”.
 
(cfr.Cass.pen.sez.I, 21 maggio 1990, Bencini; Cass.pen.sez.II, 10 gennaio 2003, Sirani; Cass.pen.sez.II, 19 gennaio 2005, Paesano; Cass.pen.sez.VI, 7 ottobre 2004, X; Cass.pen.sez.VI, 28 aprile 1994, Mazzei; Cass.pen.sez.I, 4 maggio 2005, Lo Cricchio).
 
            Portando l’analisi nell’alveo della disposizione contenuta nell’art.192, comma 2, del Cpp, si è precisato in giurisprudenza che tale norma non può assolutamente ritenersi applicabile in ordine alla determinazione degli indizi cautelari, posto che il requisito della gravità opera autonomamente e “sostituisce e assorbe” anche quelli dell’univocità e della convergenza, richiesti invece per la fase cautelare.
            Diversamente opinando infatti, non si avrebbe differenza alcuna tra il sistema della prova e quello invece previsto per l’applicazione delle misure cautelari.
           
(cfr.Cass.pen.sez.IV, 28 ottobre 2005, X; Cass.pen.sez.I, 5 luglio 1990, De Rosa; Cass.pen.sez.III, 6 settembre 1994, Riggio).
 
            Il legislatore della riforma del 2001, ha inoltre inserito nel corpo dell’art.273 del Cpp un nuovo comma 1-bis, prevedendo tre elementi aggiuntivi di valutazione dei gravi indizi, peraltro applicati dalla recente giurisprudenza in maniera piuttosto libera e discrezionale.
            Si rileva così l’esigenza, in via principale, di evitare l’utilizzazione a qualsiasi titolo di quanto dichiarato dai c.d. “informatori”, a mente dell’art.203 Cpp.
            Poi si prevede nella stessa norma il richiamo alla regola di esclusione stabilita dall’art.195, comma 7 del Cpp, secondo cui non può essere utilizzata la testimonianza di chi si rifiuti o non sia in grado di indicare la persona o la fonte da cui abbia appreso la notizia dei fatti oggetto dell’esame.
            Tale limitazione peraltro, consente per la giurisprudenza di riconoscere lo status di gravi indizi anche alle “dichiarazioni di persone informate sui fatti, riferite dalla polizia giudiziaria, per le quali opererebbe invece in dibattimento il divieto di testimonianza de relato ex art.195, comma 4, Cpp, atteso l’alto grado di probabilità che quelle dichiarazioni divengano prove in sede dibattimentale, mediante l’escussione in qualità di testimone della persona che le ha rese”.
            Infine, viene precisato il riferimento alla necessità di autorizzazione alle intercettazioni di cui all’art.271 Cpp, con il rispetto di quanto statuito a tal proposito dagli artt.267 e 268, commi 1 e 3 stesso codice, a pena di inutilizzabilità dei relativi risultati.
            Anche per tale limitazione tuttavia, atteso il carattere tipicamente interinale della fase in cui interviene, si è puntualizzato in giurisprudenza che l’ordinanza cautelare potrà legittimamente fondarsi su intercettazioni telefoniche riassuntive o contenute in brogliacci, anziché debitamente trascritte, posto che “esorbita dalla previsione tassativa dell’art.271 del Cpp, la mancata trascrizione nella fase delle indagini preliminari, sanzionata invece per la mera fase dibattimentale dall’articolo 268, comma 7, del Cpp”.
            Si rammenti inoltre, come la concorde giurisprudenza abbia da tempo stabilito che la mancata trasmissione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni telefoniche non determina alcuna inutilizzabilità e, dunque, inefficacia della misura cautelare, considerato che gli atti da presentare al giudice ai sensi dell’art.291 Cpp, sono costituiti dagli elementi sui quali si fonda la richiesta di emissione del provvedimento coercitivo, cioè i risultati della prova, e non invece gli atti afferenti i mezzi di ricerca della stessa.
 
(cfr.Cass.pen.sez.VI, 2 luglio 2001, Tramonte; Cass.pen.sez.I, 28 gennaio 2003, Rizzitano; precisando che anteriormente alla riforma, si ritenevano in genere inutilizzabili le dichiarazioni de relato, solamente qualora fossero state assunte come “prove” e non anche quando fossero state presentate in fase cautelare; Cass.pen.sez.I, 1 aprile 2003, Cozzolino; Cass.pen.sez.VI, 28 marzo 2003, Federava; Cass.pen.sez.V, 21 ottobre 2003, F.; Cass.pen.sez.I, 14 marzo 2003, Campora).
 
 
            Alla base del provvedimento impositivo di misure cautelari, sono state individuate dalla giurisprudenza una pluralità di situazioni denotate da “idoneità indiziaria”, caratterizzate in genere da elementi probatori mietuti nella fase investigativa dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria in chiave accusatoria (onde poter sostenere tutto l’impianto accusatorio, anche nel successivo giudizio di merito) e non al solo fine di poter semplicemente supportare le relative istanze cautelari.
            Si segnalano in tal senso le prove assunte in sede di incidente probatorio, come ad esempio le relazioni peritali, anche prima che il perito sia stato escusso, ovvero l’esame speditivo narcotest nell’ambito dei reati concernenti gli stupefacenti, seppur non sia stata effettuata formale perizia sulle sostanze in sequestro.
            Ancora altrettanto idonei sono stati ritenuti, sotto il profilo documentale, gli atti e i documenti acquisiti dal p.m. ai sensi degli artt.117 e 371 Cpp, anche se scaturenti da indagini afferenti procedimenti penali diversi, nonché gli atti provenienti da autorità straniere, non trovando cittadinanza nel contesto cautelare quanto stabilito dall’art.238 del Cpp, il quale non pone al riguardo alcuna sanzione assoluta di inutilizzabilità.
            Nemmeno potranno ritenersi infranti gli articoli 238, comma 2-bis e 238 bis del Cpp, laddove il provvedimento cautelare trovi fondamento su elementi indiziari “desunti anche da sentenze non ancora irrevocabili”.
            Per ciò che concerne invece gli atti orali, sono state ritenute idonee sotto il profilo indiziario le dichiarazioni spontanee provenienti dall’imputato e rese contra se “dopo la scadenza del termine di durata delle indagini preliminari”, atteso che il divieto posto dall’art.407, co.3 del Cpp, si riferisce esclusivamente agli atti di indagine provenienti dal p.m..
            Analogamente, anche le dichiarazioni spontanee assunte ai sensi dell’art.350, comma 7 del Cpp in assenza del difensore, sono ritenute pacificamente utilizzabili in sede cautelare, dato che la sanzione di inutilizzabilità delle stesse assume rilievo per la sola fase del giudizio.
            Anche le dichiarazioni assunte dalla p.g. ai sensi dell’art.351 Cpp e le dichiarazioni provenienti dalla persona offesa o danneggiata dal reato, purchè siano attendibili, a prescindere dalla sussistenza o meno dei riscontri estrinseci, sono state ritenute legittime a fini cautelari.
            Ed ancora viene ritenuto legittimo il materiale informativo e conoscitivo raccolto dal p.m. in fase di indagini, “anche se reso da persone indicate nella richiesta di incidente probatorio”, posto che il divieto di cui all’art.430 bis del Cpp., “non opera in relazione alle propalazioni destinate ad incidere solo nella fase delle indagini preliminari”, e altrettanto legittime sono ritenute le affermazioni di colui che, in epoca successiva al loro rilascio, rifiuti di assoggettarsi all’esame nel corso dell’incidente probatorio, atteso che anche il precetto stabilito dall’art.526, comma 1-bis del Cpp, non trova attuazione nella fase delle indagini preliminari.
            Quanto all’attività ricognitiva, si ritiene “elemento di rilevante valore indiziario l’individuazione fotografica, in quanto idonea a lasciar desumere l’attribuzione del reato all’indagato”, anche se avulsa dalle modalità operative portate dall’art.231 del Cpp. in tema di formale ricognizione, nonché i fotogrammi captati da telecamere a circuito chiuso, oltre all’individuazione di persone espletata dalla p.g. di propria iniziativa, seppur non espressamente menzionata dall’art.348 Cpp, posto che l’indicazione prevista da tale norma “deve considerarsi esemplificativa”.
           
(cfr.Cass.pen.sez.I, 1 marzo 2003, Cerfeda, secondo cui possono utilizzarsi anche acquisizioni probatorie successive all’invio dell’avviso ex art.415 bis c.p.p., poiché “tale comunicazione non comporta limitazioni o decadenze rispetto al procedimento cautelare, che mantiene la sua autonomia”; Cass.pen.sez.I, 8 giugno 1995, Boccuni; Cass.pen.sez.VI, 30 settembre 2003, Troiani; Cass.pen.sez.II, 4 novembre 1998, Cerqua; Cass.pen.sez.I, 10 luglio 1997, Ibba e a.; Cass.pen.sez.I, 1 dicembre 2000, Rondinella e a.; Cass.pen.sez.I, 2 marzo 2001, Giannino; Cass.pen.sez.I, 10 gennaio 2005, Burzotta; Cass.pen.sez.I, 22 dicembre 2000, Troppa; Cass.pen.sez.III, 15 maggio 1996, Bombara; Cass.pen.sez.II, 28 gennaio 2004, Arena, che specifica come non possa sostenersi l’inutilizzabilità di tale patrimonio espositivo “per l’impossibilità di un suo sviluppo processuale derivante dalla sua utilizzabilità ai soli fini delle contestazioni, trattandosi pur sempre di una inutilizzabilità relativa tipica di qualsiasi prova dichiarativa assunta nel corso delle indagini preliminari, non di una inutilizzabilità genetica o patologica, tale da impedirne la riproduzione in giudizio”; Cass.pen.sez.III, 21 ottobre 2004, Lucciardello; Cass.pen.sez.I, 1 febbraio 1994, Mauriello; Cass.pen.sez.VI, 7 novembre 1997, Lupo; Cass.pen.sez.II, 28 novembre 2001, Campanaro; Cass.pen.sez.VI, 6 novembre 2003, Zorzi; Cass.pen.sez.II, 2 gennaio 2002, Valerio; Cass.pen.sez.I, 13 novembre 2002, Fiore; Cass.pen.sez.V, 24 settembre 2002, Biffi; Cass.pen.sez.II, 23 novembre 2004, Beizac; Cass.pen.sez.II, 14 maggio 1992, Bozzo; Cass.pen.sez.II, 8 aprile 1997, Chirico)
 
Esistono peraltro dei precisi limiti individuati dalla giurisprudenza, in ordine al possibile rischio di interpretazione indiscriminata del concetto di “sufficienza indiziaria” nella fase cautelare.
            Così sono state ritenute assolutamente inutilizzabili le dichiarazioni accusatorie non verbalizzate, assunte dalla polizia giudiziaria e trasferite in note informative sfornite di sottoscrizione da parte del dichiarante, atteso che esse “sono acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge e ricompresse nell’inutilizzabilità di cui all’art.191 Cpp”.
            Neanche le “dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di terzi, rese da indagati il cui interrogatorio, ovvero le cui dichiarazioni ai sensi dell’art.350 Cpp, siano stati assunti senza l’osservanza della garanzia di cui all’art.64, co.3, lett.c) Cpp”sono state ritenute utilizzabili, così come non sono affatto valutabili come gravi indizi di colpevolezza le prove “acquisite in un giudizio nullo”, ovvero le dichiarazioni rese “tardivamente”.
 
Cass.pen.sez.VI, 1 aprile 2003, Casaburro; Cass.pen.sez.III, 7 novembre 2001, Gullace; Cass.pen.sez.I, 3 febbraio 2005, Grasso; Cass.pen.sez.I, 15 ottobre 2003, Abruzzese).
 
 
            Tuttavia in sede di avvio della fase di cognizione, la giurisprudenza ha individuato alcune situazioni di “recupero” dei presupposti indiziari applicati in fase cautelare.
            La giurisprudenza più datata, aveva ritenuto che i decreti di rinvio a giudizio, di giudizio immediato e giudizio direttissimo, impedivano una “riconsiderazione” dei gravi indizi in difetto di nuove determinazioni.
            Ciò in quanto il decreto di rinvio a giudizio “implica la concreta prevedibilità di condanna dell’imputato, e cioè una situazione non dissimile da quella qualificata probabilità di colpevolezza che integra i gravi indizi, necessari per l’applicazione delle misure cautelari”, mentre gli altri due provvedimenti “sono fondati sull’evidenza della prova, sulla confessione o sull’arresto in flagranza, e contengono pertanto un accertamento positivo sulla qualifica probatoria di colpevolezza”.
            Sul punto tuttavia è intervenuta la Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 309 e 310 c.p.p., nella parte in cui non prevedono la possibilità di valutare la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza nell’ipotesi in cui sia stato emesso il decreto che dispone il giudizio a norma dell’art.429 del Cpp.
            Anche le Sezioni Unite della Cassazione hanno seguito tale logica interpretativa, stabilendo che il giudice del riesame può legittimamente considerare la gravità indiziaria anche in epoca successiva al rinvio a giudizio, atteso che non esiste “una convergenza biunivoca della funzione e del giudizio prognostico sottesi al decreto che dispone il giudizio, rispetto alla funzione e alla prognosi pertinenti al diverso profilo della gravità indiziaria…”.
            Si è così giunti nel tempo a considerare che anche il decreto di citazione a giudizio immediato, “siccome basato sulla valutazione operata dal solo pubblico ministero in ordine all’evidenza della prova, non può pregiudicare la diversa ed autonoma valutazione che il giudice de libertate sia chiamato ad operare circa la sussistenza o meno dei gravi indizi di colpevolezza”.
            Anche per ciò che concerne il vaglio della gravità indiziaria successivamente alla pronuncia di condanna, la consolidata giurisprudenza ha stabilito che la relativa preclusione può considerarsi sormontata laddove emergano o vengano esposti “nuovi e diversi elementi probatori, rispetto alle risultanze già vagliate”, ovvero nel caso in cui la sentenza di condanna “sia stata annullata, sia pure per sola incompetenza territoriale”.
            In conclusione, deve rilevarsi come il fulcro del concetto relativo ai “gravi indizi cautelari”, viene ravvisato nella capacità degli elementi a “legittimare la probabilità di un giudizio di colpevolezza, sia pure con gli ulteriori arricchimenti e approfondimenti che potranno venire nell’ulteriore corso del processo, ma con la netta conseguenza che l’assoluta insuscettibilità di utilizzazione dibattimentale rende impossibile formulare una prognosi in base a tali indizi”.
            L’interpretazione fornita dalla giurisprudenza dell’articolo 273 del Cpp, in correlazione agli articoli 3 e 27, co.2 Cost., che rappresentato il “fondamento del sistema cautelare”, ha dunque determinato una precisa assimilazione “nella sostanza, del valore dei gravi indizi di colpevolezza a quello della prova”.
            La cartina al tornasole di tutto ciò viene giustamente rappresentata dall’intervento effettuato dal legislatore del 2006 (legge 20 febbraio 2006, n.46), il quale ha introdotto un nuovo comma 1 bis nel corpo dell’articolo 405 del Cpp, il quale prevede appunto una specifica ipotesi di archiviazione del procedimento in caso di pronuncia, da parte della Corte di Cassazione, circa l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dell’inquisito, qualora non siano stati successivamente acquisiti ulteriori elementi a suo carico.
 
(cfr.Cass.pen.sez.un., 25 ottobre 1995, Liotta; Corte Cost., 15 marzo 1996, n.71, Cass.pen., 30 ottobre 2002, Vottari; Cass.pen.sez.IV, 13 giugno 2003, Meliani; Cass.pen.sez.I, 13 luglio 2004, Porcelli; Cass.pen.sez.IV, 6 maggio 1999, Barbaro; Cass.pen.sez.VI, 18 gennaio 1993, Modaferri; Cass.pen.sez.I, 4 maggio 2005, Lo Cricchio).
 

Avv. Buzzoni Alessandro

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