Abstract
Il discorso che segue si occupa della norma centrale in tema di proprietà contenuta nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ne descriverà sinteticamente il processo di formazione e il significato che ne dà la Corte di Strasburgo. Si procederà quindi ad una descrizione sintetica, ma il più possibile esaustiva, dei criteri utilizzati dalla Corte per descrivere il concetto di proprietà e apparirà chiaro quanto questo sia dilatato rispetto al diritto italiano.
1.1. La genesi dell’art.1 protocollo 1 CEDU : la “nozione autonoma” di proprietà e il margine di apprezzamento.
La norma cardine da cui bisogna partire per un esame delle problematiche afferenti al concetto di proprietà è l’articolo 1 Protocollo n.1 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo: “Toute personne physique ou morale a droit au respect de ses biens. Nul ne peut être privé de sa proprieté que pour cause d’utilité publique et dans les conditions prévues par la loi et les principes généraux du droit international.
Les dispositions précédentes ne portent pas atteinte au droit que possèdent les Etats de mettre en vigueur les lois qu’ils jugent nécessaire pour réglementer l’usage des biens conformément à l’intérêt général ou pour assurer le paiement des impôts ou d’autre contributions ou des amendes ».
Preliminarmente bisogna osservare come nell’ambito di tale articolo si distinguano tre norme: La prima, espressa nella prima frase del primo comma e riveste un carattere generale, enuncia il principio del rispetto della proprietà; la seconda, che figura nella seconda frase dello stesso comma, concerne la privazione della proprietà e la sottomette a determinate condizioni; la terza, espressa nel secondo comma, riconosce agli Stati contraenti il potere di regolamentare l’uso dei beni conformemente all’interesse generale.
La stessa collocazione della norma, nell’ambito di un protocollo aggiuntivo anziché nel corpo stesso della convenzione, dimostra emblematicamente quanta attenzione e quali perplessità vi siano state al momento dell’inserimento della disposizione.
Il diritto di proprietà, e la sua stessa portata dogmatica, assume in ogni ordinamento capitalistico un rilievo preponderante; il che comporta un’ovvia resistenza degli Stati verso norme sopranazionali che in qualche modo la disciplinino. Su questa norma si aprì un ampio dibattito influenzato da motivazioni di carattere politico ed ideologico. Vi era chi aveva dubbi sulla legittimità dell’inserimento di una norma sulla proprietà all’interno di una Convenzione che doveva aver riguardo esclusivamente alla tutela di diritti civili. Inoltre, l’affermarsi sulla scena internazionale, nei Paesi dell’est europeo, del c.d. “socialismo reale” poneva molte perplessità sull’opportunità di tale operazione.
Si giunse così all’elaborazione dell’articolo 1 che costituisce una formula di compromesso fra i contrastanti orientamenti; il riferimento alla proprietà, che in origine si sarebbe dovuto inserire al primo comma della norma, scompare per lasciar posto ad un’espressione più generica: “rispetto dei propri beni”.
La nozione di proprietà, risultante dall’interpretazione che la Corte di Strasburgo fa della prima frase del primo comma art.1 protocollo 1, sta progressivamente acquistando il ruolo di nozione autonoma, si sta infatti riducendo – le recenti sentenze della Corte Europea ne sono una conferma – il margine di apprezzamento lasciato agli Stati sulla portata del diritto di proprietà. Le nozioni autonome sono delle nozioni giuridiche che, separate dal diritto interno, devono interpretarsi nel contesto della Convenzione, alla luce del suo oggetto e del suo scopo; il diritto interno non è che un punto di partenza. Queste nozioni permettono agli organi di Strasburgo di determinare il campo di applicazione della Convenzione e di controllare la conformità alla Convenzione dell’interpretazione nazionale di certe nozioni di alto rilievo giuridico.
L’argomento delle nozioni autonome deve essere collegato a quello del margine di apprezzamento. Quest’ultimo si pone rispetto a quello delle nozioni autonome in un rapporto speculare. Infatti, tanto più cresce il margine di apprezzamento che la Corte riconosce in una determinata materia ad uno Stato, tanto più diminuisce lo spazio per l’elaborazione di una nozione autonoma in campo convenzionale per la stessa materia.
1.1.1. (segue) Il margine di apprezzamento
Gli organi di Strasburgo cercano di realizzare lo scopo della Convenzione, e cioè la tutela dei diritti umani, avendo cura di rispettare le diversità e le peculiarità che caratterizzano gli ordinamenti interni. Per fare ciò si riconosce agli Stati il c.d. “margine di apprezzamento”.
La dottrina del margine di apprezzamento statale corrisponde ad un atteggiamento che può essere qualificato di self-restraint da parte della Corte europea. I giudici di Strasburgo, posti di fronte ad una misura statale che sembra porsi in contrasto con la Convenzione, possono astenersi dal giudicare sulla base della constatazione che il sistema stesso della Cedu consente agli Stati di fare uso di un certo "margine di apprezzamento" in ordine alla portata delle deroghe e delle clausole di interferenza previste dalle Convenzione. In altri termini, il margine di apprezzamento è quello spazio in cui la Corte riconosce agli Stati libertà di azione e di manovra prima di dichiarare che la misura statale di deroga, di limitazione o di interferenza con una libertà garantita dalla CEDU configuri una concreta violazione della Convenzione stessa: si tratta quindi di un "confine" tra misure ammesse (in quanto interne al "margine di apprezzamento") e misure non ammesse (in quanto eccedenti tale margine e quindi costituenti violazioni della Convenzione); un confine necessariamente mobile.
Il margine di apprezzamento si colloca in un contesto in cui possono entrare in collisione da una parte gli obblighi assunti dagli Stati in virtù della loro adesione alla Cedu e dall’altra parte la sovranità degli Stati stessi. Il principale problema che si viene a creare è quello di conciliare un’interpretazione uniforme della Convenzione europea con un criterio di relatività che assicuri il rispetto delle diversità giuridiche, culturali e sociali dei paesi aderenti alla Cedu. In questo ambito si colloca anche la preoccupazione di una protezione dei diritti che potrebbe assumere un carattere disomogeneo o “a carattere variabile”. Si teme cioè che il riconoscimento del margine di apprezzamento possa determinare un problema di uniformità di applicazione della Convenzione stessa, con la conseguente creazione di differenze fra gli Stati. Infatti, a seconda della diversa intensità del margine di apprezzamento in ordine alla stessa materia, una stessa disposizione convenzionale potrebbe avere più o meno forza di penetrazione negli ordinamenti interni.
1.1.2 (segue) Alcuni esempi riguardanti la nozione di proprietà
Dopo quanto detto sul rapporto tra nozioni autonome e margine di apprezzamento lasciato agli Stati, risulta più agevole comprendere il significato dell’operare della Corte di Strasburgo in tema di diritto di proprietà.
Per esempio, la titolarità formale di un diritto di proprietà nell’ordinamento interno, sulla base di un ridotto margine di apprezzamento, viene ritenuta dalla Corte non vincolante per realizzare una maggiore uniformità di applicazione della Convenzione.
Nel caso Matos e Silva la Corte afferma « qu’il ne lui appartient pas de trancher la question de savoir s’il y a ou non droit de propriété au niveau interne. Elle rappelle cependant que la notion de "biens" (en anglais "possessions") de l’article 1 du Protocole n° 1 (P1-1) a une portée autonome.. Dans la présente affaire, les droits incontestés des requérantes pendant près d’un siècle sur les terrains litigieux et les profits qu’elles tirent de leur exploitation peuvent passer pour des "biens" aux fins de l’article 1 (P1-1) ».
Appare ora più chiaro come, attraverso l’interpretazione autonoma, la Corte impedisce che uno Stato si sottragga ai propri obblighi grazie alle definizioni giuridiche formali del proprio ordinamento interno. Per quanto riguarda i criteri che consentono alla Corte di definire il significato delle singole nozioni autonome, si è già detto come la giurisprudenza di Strasburgo faccia riferimento all’oggetto ed allo scopo del trattato, nonché ai principi che emergono dagli ordinamenti interni degli Stati contraenti. Il riferimento ai principi comuni degli Stati contraenti costituisce un importante criterio per indagare sul senso da attribuire alle “nozioni autonome” tra cui rientra il diritto di proprietà.
Il contenuto semantico dell’articolo 1 protoc.1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo non è immediatamente decifrabile. Del resto la Corte non poteva trovare all’interno dei diversi ordinamenti degli stati contraenti un “comune denominatore”. Se, infatti, è difficile cogliere l’unitarietà del diritto di proprietà anche all’interno dello stesso ordinamento, si pensi alla diversa intensità dei limiti posti all’esercizio dei poteri proprietari nei confronti dei diversi beni giuridici, impossibile sarebbe l’individuazione di un contenuto essenziale della proprietà tra diversi ordinamenti. Inoltre, all’interno delle Parti contraenti, vi sono Stati appartenenti a “famiglie” giuridiche diverse che, per semplificare, vengono ricondotte ad una bipartizione tra: famiglie di civil law e di common law.
Per tali ragioni si è fatta nel tempo strada la tesi che ritiene la nozione di proprietà contenuta nella Convenzione come avente una caratterizzazione più ampia rispetto agli ordinari schemi civilistici presenti nei singoli ordinamenti. Ciò avverrebbe anche in omaggio alla funzione di garanzia svolta dalla Convenzione europea. Nel concetto di proprietà, contenuto nell’articolo 1 protoc. 1, vi rientrerebbe la titolarità di qualunque diritto patrimoniale.
La speculare operatività delle nozioni autonome e del margine di apprezzamento, come si è detto, costituisce uno strumento dinamico con cui i giudici di Strasburgo cercano di realizzare il difficile equilibrio tra la realizzazione dello scopo della Convenzione e il rispetto della sovranità degli Stati.1.2.Il contenuto della prima parte del primo comma dell’art.1 del primo protocollo, così come elaborato dalla Corte di Strasburgo.
L’articolo 1 del primo protocollo ha nel tempo trovato applicazione rispetto a numerose fattispecie. Oltre ad ipotesi per così dire “tradizionali”, cioè relative alla proprietà in senso stretto di beni immobili e mobili, ai diritti reali e alla cosiddetta proprietà intellettuale, è stato utilizzato per la tutela di situazioni diverse come “l’avviamento commerciale”, la “clientela” di uno studio professionale. Ciò che accomuna le diverse ipotesi affrontate dalla Corte europea è il “valore patrimoniale” del diritto, o interesse, fatto valere dal ricorrente. Si assiste, quindi, nella giurisprudenza di Strasburgo, ad una dilatazione notevole del concetto di proprietà tutelabile ai sensi dell’art.1 primo protocollo: « La Cour rappelle que la notion de « biens » de l’article 1 du Protocole n° 1 a une portée autonome qui ne se limite certainement pas à la propriété de biens corporels : certains autres droits et intérêts constituant des actifs peuvent aussi passer pour des « droits de propriété » et donc pour des « biens » aux fins de cette disposition » ( Iatridis c. Grèce, 25 marzo 1999 ).Viene quindi meno, nell’impostazione della Corte, la distinzione tra un diritto e un semplice interesse patrimoniale.
Un limite alla tutela in sede CEDU è rappresentato dalla necessità che il “valore patrimoniale” sia già parte integrante del patrimonio del singolo. La Corte, infatti, ha costantemente affermato che « Le texte précité se borne à consacrer le droit de chacun au respect de "ses" biens; il ne vaut par conséquent que pour des biens actuels » (Van der Mussele c. Belgique, 23 novembre 1983). Anche se, in realtà, non sempre è facile distinguere tra beni attuali e semplici aspettative; come nel caso del mancato guadagno dei professionisti o nella perdita della clientela.
Da quanto detto finora è evidente come il campo di applicazione dell’articolo 1 protocollo 1 sia molto ampio, comprendendo qualunque provvedimento che interferisca con una situazione giuridica che abbia un contenuto patrimoniale. L’autonomia concettuale della proprietà in sede CEDU ha consentito alla Corte di estendere l’ambito di applicazione dell’articolo 1, permettendole di considerare irrilevante la circostanza che una certa situazione giuridica venga qualificata o meno come diritto di proprietà nell’ambito dell’ordinamento interno. Ciò però non significa che i giudici di Strasburgo prescindano del tutto dal diritto interno. In genere, infatti, la Corte preferisce trovare un riscontro in tal senso: « Aux yeux de la Cour, ces éléments prouvent que le requérant était titulaire d’un intérêt patrimonial reconnu en droit italien, bien que révocable dans certaines conditions, depuis l’acquisition de l’œuvre jusqu’au moment où le droit de préemption a été exercé et où une compensation lui a été versée, ce que le Conseil d’Etat a qualifié de mesure rentrant dans la catégorie des actes d’expropriation (paragraphe 51 ci-dessus). L’intérêt du requérant constituait dès lors un « bien », au sens de l’article 1 du Protocole n° 1 » (Beyeler c. Italia, 5/11 /2000). Anche se la Corte non si preoccupa di accertare se il ricorrente possa essere considerato, rispetto al diritto interno, il proprietario del bene:« Il n’appartient pas davantage à la Cour de se prononcer sur la question de savoir si le requérant devait être considéré ou non, au regard du droit italien, comme le propriétaire réel du tableau » (Beyeler c. Italia, 5/11 /2000)
1.2.1.(segue) l’ulteriore dilatazione del concetto di proprietà: “l’espérance légitime” e la tolleranza implicita delle autorità statali.
L’analisi circa l’ampia gamma di criteri che consentono di tutelare, presso la Corte dei diritti dell’uomo, l’interesse patrimoniale del singolo come diritto di proprietà, non può non affrontare il principio del’espérance légitime. Tale principio, più degli altri, testimonia la profonda diversità di approccio che vi è tra i giudici nazionali ed il giudice di Strasburgo.
In sostanza, la Corte ritiene sufficiente, perché vi sia un bene attuale ai sensi della Convenzione, che il singolo possa far valere una ragionevole aspettativa di veder realizzata la propria pretesa giuridica. La prima applicazione di questo principio si è avuta nel caso Pine Valley: « Jusqu’à son prononcé, les requérants avaient pour le moins l’espérance légitime de pouvoir réaliser leur plan d’aménagement; il faut y voir, aux fins de l’article 1 du Protocole no 1 (P1-1), un élément de la propriété en question.. ».
Il criterio della espérance légitime presenta, sotto un’altra prospettiva, qualche analogia con il principio di legittimo affidamento. Oltre alla ragionevole possibilità che la pretesa del singolo possa realizzarsi, il criterio in esame viene utilizzato dalla Corte per attribuire rilievo al comportamento complessivo delle autorità dello Stato di riferimento. Detto in altri termini, anche un bene che non sia considerato appartenente ad un soggetto secondo le norme dell’ordinamento interno può essere pertanto considerato “attuale” ai sensi della Convenzione, quando, con il loro comportamento, le autorità dello Stato abbiano indotto il privato a considerarsi in buona fede titolare di una determinata situazione giuridica.
In realtà, spesso la giurisprudenza di Strasburgo è andata oltre il criterio dell’espérance légitime, attribuendo rilievo decisivo al comportamento delle autorità statali, prescindendo del tutto dalla buona fede e dal rispetto da parte del privato della legislazione interna.
Per chiarire il funzionamento concreto di questo criterio, è utile richiamare il caso Beyeler.(Beyeler c. Italia, 5/11 /2000 ).
Si trattava dell’acquisto, nel 1977, di un quadro di Van Gogh, da pare di un famoso gallerista svizzero, Ernest Beyeler. L’acquisto non rispettava le formalità previste dalla legge italiana, la quale prevedeva, per le irregolarità presenti nel contratto, la nullità dello stesso. Ciononostante, Il gallerista si comportò successivamente, nei confronti delle autorità italiane, come il proprietario del quadro. Il caso scoppiò in occasione della vendita, nel 1988, del quadro da parte di Beyeler. Il Ministero dei beni culturali rifiutò di considerare valida la vendita, ritenendo che, a causa delle irregolarità originarie presenti nel contratto di acquisto, Beyeler non avesse mai acquistato un valido titolo di proprietà sul quadro. Pochi mesi dopo, il Ministero esercitò il proprio diritto di prelazione, in relazione al contratto di vendita avvenuto nel 1977 ed al prezzo ivi dichiarato. Tutti i ricorsi giurisdizionali esperiti dal Beyeler in Italia vennero respinti sulla base della nullità dell’originario contratto d’acquisto. La Corte Europea, a cui successivamente si rivolge il gallerista, accoglie invece il ricorso. I giudici di Strasburgo, dopo aver ricordato che la nozione di “bene”, ai sensi della Convenzione, sia “indépendante par rapport aux qualifications formelles du droit interne” hanno ritenuto che il ricorrente potesse essere ugualmente considerato titolare “d’un intérêt patrimonial reconnu en droit italien, bien que révocable dans certaines conditions..” e quindi il Beyeler era stato passivo di una misura “rentrante dans la categorie des actes d’expropriation”. Dalla lettura della sentenza, non risulta argomentata dalla Corte l’affermazione secondo cui l’acquirente del quadro dovesse considerarsi come titolare di un interesse riconosciuto dall’ordinamento italiano. Ciò che risulta da una considerazione complessiva dalla sentenza induce a ritenere che la Corte abbia attribuito un rilievo decisivo alla tolleranza mostrata dalle autorità italiane nei confronti di un soggetto, il Beyeler, rispetto al quale da tempo si conoscevano le irregolarità dell’atto d’acquisto. In particolare la Corte afferma che « près avoir été informées, en 1983, de l’élément manquant dans la déclaration faite en 1977, à savoir l’identité de l’acheteur final, les autorités italiennes ont attendu jusqu’en 1988 avant de s’intéresser sérieusement à la question de la propriété du tableau et de décider d’exercer le droit de préemption. Pendant ce laps de temps, les autorités ont eu une attitude tantôt ambiguë tantôt consentante à l’égard du requérant et elles l’ont souvent traité, de facto, comme l’ayant droit légitime de la vente de 1977 ».Detto altrimenti, viene riconosciuto in capo al privato un interesse da tutelare a causa dell’omissione di adeguate misure di reazione da parte delle competenti autorità dello Stato, ciò indipendentemente dalla buona fede e dal rispetto delle norme interne da parte del ricorrente.
L’operare della Corte potrebbe apparire, ad un osservatore legato al rigore concettuale degli ordinamenti interni di civil law, molto elastico. In realtà, come si è detto, la nozione di proprietà utilizzata dalla Corte europea è più ampia rispetto a quella del nostro ordinamento, in tal modo è spiegabile l’attività ermeneutica realizzata dalla Corte.
Inoltre, con la sua attività, la Corte di Strasburgo spinge, o meglio dovrebbe spingere, gli Stati a comportamenti più “virtuosi” riguardo al rispetto dei diritti sanciti nella Convenzione.
Dott. Salvatore Palmeri
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