Il condannato, che si trovi ininterrottamente detenuto al momento di presentazione dell’istanza e lamenti un pregiudizio pregresso derivante dalla propria condizione carceraria anteriore all’entrata in vigore del D.L. n. 92 del 2014, può richiedere al Magistrato di sorveglianza il rimedio risarcitorio di cui all’art. 35 ter ord. pen.

(Annullamento con rinvio)

(Riferimento normativo: l., 26 luglio 1975, art. 35-ter)

Il fatto

Il Tribunale di sorveglianza di Torino aveva dichiarato inammissibile per mancanza di specificità il reclamo proposto nell’interesse di un detenuto avverso l’ordinanza del Magistrato di sorveglianza di Novara del 15-16/2/2018 che, dal canto suo, dichiarava inammissibile l’istanza di riparazione L. 26 luglio 1975, n. 354, ex art. 35 ter, per un periodo di detenzione rispetto al quale l’istante affermava non conforme all’art. 3 CEDU.

In particolare, l’istanza era stata ritenuta inammissibile dal Magistrato di sorveglianza per i pregiudizi che si erano verificati prima del 28 giugno 2014; più nel dettaglio, ad avviso del giudice di merito, la disposizione introdotta dal D.L. n. 92 del 2014 non avrebbe applicazione retroattiva ai sensi dell’art. 11 preleggi, e, a eccezione di quanto indicato dall’art. 32 dell’indicato decreto-legge convertito dalla L. n. 117 del 2014, e dunque si applicherebbe ai pregiudizi patiti successivamente alla data anzidetta, trovando applicazione per i fatti pregressi la generale azione risarcitoria di cui all’art. 2043 c.c..

Osservava ancora il Magistrato di sorveglianza che il rimedio risultava esercitabile solo se il soggetto fosse stato detenuto o internato e se il pregiudizio si fosse verificato dopo il 28 giugno 2014 (data di entrata in vigore del D.L. n. 92 del 2014) mentre, per i pregiudizi risalenti ad epoca diversa e anteriore al giugno 2014, occorreva la condizione di detenzione dell’istante e la presentazione di domanda alla Corte EDU non ancora decisa.

Per il pregiudizio subito prima del 28 giugno 2014, osservava ancora il Magistrato di sorveglianza, l’istante non aveva specificato se avesse presentato domanda alla Corte EDU e, soprattutto, la data di essa presentazione imposta a pena di inammissibilità ex art. 2, comma 3, D.L. cit..

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso questa decisione proponeva ricorso per cassazione il detenuto e, con sentenza del 26/10/2018 n. 8006/2019, la Prima Sezione penale della Corte di Cassazione qualificava il ricorso come reclamo e lo trasmetteva al Tribunale di sorveglianza di Torino che, celebrata l’udienza, pronunciava l’ordinanza impugnata.

Ricorreva ancora una volta il detenuto, a mezzo del suo difensore il quale a sua volta chiedeva l’annullamento del provvedimento impugnato lamentando la violazione della L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 35 ter, perché, a suo avviso, applicare la detta disposizione, come pretenderebbe l’ordinanza impugnata che aveva ritenuto aspecifiche le doglianze in diritto sviluppate con il reclamo, ai soli pregiudizi subiti in epoca successiva all’entrata in vigore della legge che l’ha introdotta, violerebbe la stessa norma convenzionale, integrando una applicazione non conforme a Costituzione della disposizione stessa.

Del resto, ad avviso del ricorrente, le Sezioni Unite penali, nell’affermare la prescrizione decennale  della pretesa (Sez. U, n. 3775 del 21/12/2017, dep. 2018, Min. Giustizia in proc. Tuttolomondo), avrebbero riconosciuto l’efficacia retroattiva dell’art. 35 ter ord. pen., facendo applicazione del principio espresso dalle Sezioni Unite civili (Sez. U, n. 11018 del 08/05/2018).

 

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione

 

Il ricorso veniva ritenuto fondato perché, secondo il Supremo Consesso, il Tribunale di sorveglianza aveva errato nell’applicazione della legge penale laddove aveva ritenuto inammissibile il reclamo che deduceva, invece, doglianze fondate in diritto con riguardo alla proponibilità della richiesta del rimedio risarcitorio di cui all’art. 35-ter ord. pen. per il periodo di detenzione subito in data anteriore all’entrata in vigore della citata disposizione.

Si osservava a tal proposito come la giurisprudenza di legittimità fosse costantemente orientata a riconoscere la sussistenza del diritto al risarcimento dei danni in capo al soggetto detenuto in condizioni disumane e degradanti, diritto di matrice costituzionale e convenzionale, da ritenersi preesistente alla novellazione del 2014 posto che le Sezioni Unite Tuttolomondo (Sez. U, n. 3775 del 21/12/2017, dep. 2018, Min. Giustizia in proc. Tuttolomondo, Rv. 271649) avevano ricostruito l’istituto introdotto nel 2014, stabilendo il seguente principio di diritto: “La prescrizione del diritto leso dalla detenzione inumana e degradante, azionabile dal detenuto ai sensi dell’art. 35 ter, commi 1 e 2, ord. pen., per i pregiudizi subiti anteriormente all’entrata in vigore del D.L. 26 giugno 2014, n. 92, decorre dal 28 giugno 2014“.

Ebbene, nel formulare tale criterio ermeneutico, i giudici di legittimità ordinaria avevano fatto richiamo alla giurisprudenza di legittimità che, nel chiarire che il rimedio risarcitorio è esperibile anche in riferimento a condotte lesive verificatesi prima dell’introduzione dell’art. 35-ter Ord. pen., aveva  sottolineato che il D.L. n. 92 del 2014 e la relativa legge di conversione n. 117 del 2014, non hanno riconosciuto un diritto soggettivo in precedenza inesistente posto che è l’art. 3 CEDU a riconoscere il diritto del detenuto ad ottenere che l’espiazione della pena non avvenga mediante trattamenti inumani e degradanti, fonte resa esecutiva con legge di ratifica 4 agosto 1955, n. 848, che ha esteso e rafforzato la previsione contenuta nell’art. 27 della Costituzione (Sez. 1, n. 31475 del 15/03/2017,; Sez. 1, n. 9658 del 19/10/2016, dep. 2017; Sez. 1, n. 876 del 16/07/2015, dep. 2016,; Sez. 1, n. 46966 del 16/07/2015) evidenziandosi al contempo che la previsione convenzionale sul divieto di pene degradanti, come interpretata dalla Corte EDU, si inscrive nel quadro dei principi costituzionali che presiedono al sistema punitivo complessivamente inteso, qualificato dal canone della legalità della pena, dal divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e dal finalismo rieducativo (art. 25 Cost., comma 2, e art. 27 Cost., comma 3) in quanto è proprio la finalità rieducativa della pena che risulta essere frustrata in radice da condizioni di vita intramuraria inumane o degradanti.

Conclusivamente, sul punto, rilevano le Sezioni Unite che “il diritto al risarcimento dei danni in capo al soggetto detenuto in condizioni disumane e degradanti, di matrice costituzionale e convenzionale, è da ritenere preesistente rispetto alla novellazione del 2014 che ha riguardato l’ordinamento penitenziario”, tanto che “non appare revocabile in dubbio che ogni giorno trascorso in condizioni di detenzione disumana e degradante determini il perfezionamento della relativa fattispecie lesiva, da qualificare quale illecito permanente: la detenzione ha una unità di misura temporale. E l’art. 35 ter Ord. pen. individua come parametro per il risarcimento (sia in forma specifica sia per equivalente), ogni giorno trascorso in condizione disumana”.

Oltre a ciò, veniva fatto presente come il Supremo Collegio avesse, poi, precisato quanto segue: “Rispetto all’istanza proposta dal soggetto che si trovi in stato di detenzione, in conformità allo spettro della presente indagine, è allora possibile distinguere due ipotesi: il caso – che viene in rilievo nel presente procedimento – in cui il pregiudizio lamentato riguardi periodi anteriori alla data di entrata in vigore del D.L. n. 92 del 2014; e quello in cui il pregiudizio riguardi periodi di detenzione successivi al 28 giugno 2014. Soffermandosi in questa sede sul primo caso, occorre ricordare che la Corte Europea, con la citata sentenza Torreggiani c. Italia, non ha omesso di esaminare i rimedi presenti all’epoca nell’ordinamento italiano per far fronte al problema sistemico del sovraffollamento carcerario; ed ha rilevato la non rispondenza ai canoni convenzionali del reclamo al magistrato di sorveglianza ex artt. 35 e 69, Ord. pen., trattandosi di un rimedio “non effettivo nella pratica, dato che non consente di porre fine rapidamente alla carcerazione in condizioni contrarie all’art. 3 della Convenzione”. Il legislatore nazionale, quindi, nell’emanare il D.L. n. 92 del 2014, ha considerato la “straordinaria necessità ed urgenza di ottemperare a quanto disposto dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nella sentenza dell’8 gennaio 2013 (causa Torreggiani e altri contro Italia), nella quale è stato stabilito che lo Stato italiano debba predisporre un insieme di rimedi idonei a offrire una riparazione adeguata del pregiudizio derivante dal sovraffollamento carcerario”. Giova pure ricordare che la Corte costituzionale ha evidenziato che la richiesta proveniente dalla Corte EDU, con la sentenza pilota Torreggiani c. Italia, “deve costituire un indefettibile criterio ermeneutico ai fini della corretta applicazione della disciplina successivamente introdotta dal legislatore” (Corte Cost., sent. n. 204 del 2016)”.

Ulteriormente chiarendo l’ambito di applicabilità della disposizione in discorso, le SU Tuttolomondo avevano altresì soggiunto il seguente passaggio argomentativo: “Merita quindi condivisione l’orientamento in base al quale, qualora il richiedente si trovi detenuto al momento di presentazione dell’istanza e lamenti un pregiudizio pregresso derivante dalla propria condizione carceraria anteriore all’entrata in vigore del D.L. n. 92 del 2014, la prescrizione del relativo diritto inizia a decorrere solo dall’introduzione dell’art. 35 ter ord. pen.. Il rimedio risarcitorio in esame non era infatti prospettabile prima della entrata in vigore della novella del 2014. E l’assenza di un previgente strumento di tutela, accessibile ed effettivo – idoneo a far cessare la detenzione in condizioni inumane e degradanti, anche mediante forme di compensazione in forma specifica – integra un impedimento all’esercizio del diritto rilevante ai sensi del generale principio di cui all’art. 2935 c.c., in base al quale la prescrizione decorre soltanto dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (Sez. 1, n. 31475 del 15/03/2017, omissis, cit). Deve, pure, rilevarsi che la diversa ipotesi interpretativa sostenuta dall’Ufficio ricorrente restringerebbe irragionevolmente l’ambito sostanziale di operatività del rimedio introdotto dall’art. 35 ter ord. pen., in spregio alle richiamate indicazioni ermeneutiche espresse dal Giudice delle leggi”.

Tal che se ne faceva conseguire come fosse evidente che il richiedente, che si trovi ininterrottamente detenuto al momento di presentazione dell’istanza e lamenti un pregiudizio pregresso derivante dalla propria condizione carceraria anteriore all’entrata in vigore del D.L. n. 92 del 2014, può richiedere al Magistrato di sorveglianza il rimedio risarcitorio di cui all’art. 35 ter ord. pen. tenuto conto altresì del fatto come tale tema fosse stato risolto in modo del tutto consonante anche dalla giurisprudenza civile in quanto le Sezioni Unite civili (Sez. U, n. 11018 del 08/05/2018) hanno avuto modo di postulare quanto segue: “Il diritto ad una somma di denaro pari a otto Euro per ciascuna giornata di detenzione in condizioni non conformi ai criteri di cui all’art. 3 della CEDU, previsto dalla L. n. 354 del 1975, art. 35 ter, comma 3, come introdotto dal D.L. n. 92 del 2014, art. 1, conv. con modif. dalla L. n. 117 del 2014, si prescrive in dieci anni, trattandosi di un indennizzo che ha origine nella violazione di obblighi gravanti “ex lege” sull’amministrazione penitenziaria. Il termine di prescrizione decorre dal compimento di ciascun giorno di detenzione nelle su indicate condizioni, salvo che per coloro che abbiano cessato di espiare la pena detentiva prima del 28 giugno 2014, data di entrata in vigore del D.L. cit., rispetto ai quali, se non sono incorsi nelle decadenze previste dal D.L. n. 92 del 2014, art. 2, il termine comincia a decorrere solo da tale data”

La sentenza citata, inoltre, ha altresì precisato che “il rimedio enucleato dal legislatore italiano introducendo nel 2014 l’art. 35 ter è anch’esso fondato sul principio dettato dall’art. 3 della Convenzione Europea, per cui nessuno può essere sottoposto a tortura, nè a pene o trattamenti inumani o degradanti, e sull’art. 27 Cost., comma 3, per il quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Ciò posto, venendo ad esaminare il tema della retroattività della disposizione in discorso, gli Ermellini rilevavano come la sentenza del Supremo Collegio avesse inoltre chiarito quanto segue: “Pur radicato in questi principi fondamentali e comuni all’ordinamento italiano ed Europeo, esso presenta però tratti strutturali distinti e autonomi. Non era previsto, nè era desumibile dall’ordinamento, in caso di violazione di quei principi, un diritto alla riduzione della pena e non era previsto un diritto ad un compenso economico con i peculiari connotati impressi dal secondo e dall’art. 35 ter ord. pen., comma 3”, ciò non di meno “La novità dell’istituto non ne esclude la retroattività. Se di norma, ai sensi dell’art. 11 preleggi, la legge dispone per l’avvenire, nel caso in esame, tuttavia, il legislatore ha conferito carattere retroattivo alla nuova disciplina. Lo si desume dalla premessa e dal senso complessivo della normativa introdotta nel 2014, finalizzata a definire anche le situazioni pregresse. Ma lo si deduce, in modo chiaro sul piano testuale, dalla lettura della normativa intertemporale dettata dall’art. 2, che, disciplinando la materia della decadenza, fa inequivocabilmente riferimento, sia nel primo che nel comma 2, a detenzioni degradanti ed inumane già conclusesi (e quindi anteriori) al momento dell’entrata in vigore della legge”.

Tal che, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, i giudici di piazza Cavour formulavano il seguente principio di diritto: “il condannato, che si trovi ininterrottamente detenuto al momento di presentazione dell’istanza e lamenti un pregiudizio pregresso derivante dalla propria condizione carceraria anteriore all’entrata in vigore del D.L. n. 92 del 2014, può richiedere al Magistrato di sorveglianza il rimedio risarcitorio di cui all’art. 35 ter ord. pen.”. 

Conclusioni

La sentenza in commento è assai interessante in quanto con essa si afferma il diritto del condannato, che si trovi ininterrottamente detenuto al momento di presentazione dell’istanza e lamenti un pregiudizio pregresso derivante dalla propria condizione carceraria anteriore all’entrata in vigore del D.L. n. 92 del 2014, di poter richiedere al Magistrato di sorveglianza il rimedio risarcitorio di cui all’art. 35 ter ord. pen..

Il Supremo Consesso è addivenuto a postulare questo criterio ermeneutico ritenendosi come questo novum legislativo non abbia fatto altro che riconoscere un diritto soggettivo in precedenza già riconosciuto dall’art. 3 CEDU dato che già questo precetto normativo, reso esecutivo con legge di ratifica 4 agosto 1955, n. 848, che ha esteso e rafforzato la previsione contenuta nell’art. 27 della Costituzione, riconosce il diritto del detenuto ad ottenere che l’espiazione della pena non avvenga mediante trattamenti inumani e degradanti.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in tale pronuncia, proprio perché chiarisce la portata applicativa dell’art. 35-ter ord. pen., dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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