Il congedo straordinario per i dottorandi di ricerca dipendenti pubblici: l’evoluzione normativa e l’attuale stato dell’arte

 

SOMMARIO 1. Premesse sulla disciplina dei dottorati di ricerca 2. Caratteri strutturali dell’impegno previsto dal corso di dottorato 3. L’ammissione “senza borsa” e i dottorandi non borsisti dipendenti pubblici: ratio del sistema 4. Il congedo straordinario: la formulazione originaria dell’art. 2, L. 13 agosto 1984 n. 476 5. Il nuovo congedo “retribuito”: la conservazione del trattamento economico e previdenziale 6. Un passo indietro: le “esigenze dell’amministrazione” 7. La permanenza in servizio al termine del corso di dottorato 8. Il prolungamento del congedo straordinario per l’emergenza COVID-19

Il congedo straordinario per i dipendenti pubblici ammessi ai corsi di dottorato di ricerca, previsto dall’art. 2 della Legge 13 agosto 1984 n. 476, rappresenta un tema di sempre attuale interesse in ambito accademico, anche alla luce dei recenti sviluppi della normativa emergenziale in materia di prevenzione e contenimento dell’emergenza epidemiologica da COVID-19.

In questa sede si tenterà una sintetica ed essenziale ricostruzione di alcuni fondamentali snodi nell’evoluzione del dato normativo in materia di partecipazione dei dipendenti pubblici ai percorsi di dottorato, con specifica attenzione al profilo del trattamento economico.

Tale approfondimento è mirato a un primo inquadramento delle questioni in termini generali, con riserva di ulteriormente sviluppare alcuni tra gli aspetti più rilevanti del tema.

Premesse sulla disciplina dei dottorati di ricerca

Una disciplina paradigmatica dei corsi di dottorato di ricerca è contenuta nel Decreto Ministeriale 8 febbraio 2013 n. 45, che reca il regolamento per l’accreditamento presso il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca[1].

Proprio questo regolamento, stabilendo i caratteri strutturali dei corsi di dottorato funzionali alla procedura di accreditamento ministeriale, disciplina incidentalmente anche la qualità soggettiva dei dottorandi di ricerca e l’eventuale percezione di un sostegno economico.

In particolare, la norma di maggior rilievo ai fini della presente indagine è l’articolo 12, significativamente rubricato “diritti e doveri dei dottorandi”, che introduce alcuni principi di massima utili alla ricostruzione del profilo ontologico del dottorando, anche quanto all’impegno richiesto e che disciplina anche, nei suoi commi successivi, l’ammissione del dipendente pubblico.

Caratteri strutturali dell’impegno previsto dal corso di dottorato

Anzitutto la norma prevede che il dottorato di ricerca costituisca un impegno “esclusivo” e “a tempo pieno”.

Su tali due caratteristiche occorre soffermarsi partitamente, per molte ragioni, invertendo anche l’ordine normativo, per questioni di logica sistematica e di coerenza argomentativa, e dunque principiando dalla locuzione “a tempo pieno”.

Il corso di dottorato prevede un carico di impegno accademico minimo di sessanta crediti formativi universitari (d’ora in poi e per brevità, cfu).

È appena il caso di ricordare che, per espressa definizione ministeriale[2], il cfu è una unità di misura del volume di lavoro, compreso lo studio individuale, richiesto allo studente nell’ambito dell’ordinamento didattico di un corso di studio.

Sempre per espressa previsione del regolamento ministeriale in materia di autonomia didattica degli atenei (Decreto M.I.U.R. Ricerca 3 novembre 1999, n. 509), a ciascun cfu corrisponde un carico di lavoro pari a venticinque ore (art. 5, comma 1) ed è pertanto considerato impegnato “a tempo pieno” quello studente cui siano richiesti convenzionalmente almeno sessanta crediti su base annua (comma 2), corrispondenti a millecinquecento ore di lavoro.

Dato che la soglia minima di crediti da conseguirsi su base annuale nell’ambito di un corso di dottorato è nel minimo equivalente proprio a sessanta crediti, ben si spiega l’art. 12 del D.M. 8 febbraio 2013, n. 45 ove prevede che il dottorato sia un corso “a tempo pieno”. Non mancano poi casi in cui il carico didattico per i dottorati sia superiore ai sessanta cfu e, anzi, si attesti su soglie decisamente più significative: centoventi o centottanta[3].

Diverse considerazioni devono spendersi sul pure menzionato carattere dell’esclusività che, invece, rappresenta un tratto qualificante del dottorato soggetto però ad un certo tasso intrinseco di elasticità. Accogliendo una definizione restrittiva di “impegno esclusivo” ogni altra o differente attività rispetto alla frequenza del corso di dottorato dovrebbe infatti dirsi sempre preclusa.

È invece prevista la possibilità, a certi limiti e condizioni, di affiancare attività ulteriori[4].

L’ammissione “senza borsa” e i dottorandi non borsisti dipendenti pubblici: ratio del sistema

Ciò premesso, proprio il Decreto Ministeriale 8 febbraio 2013 n. 45 e, in applicazione, l’ordinamento dei singoli corsi di dottorato prevedono oggi che si possa essere ammessi al corso di dottorato anche senza godimento della borsa di studio, mentre l’accesso al beneficio economico è soggetto al rispetto di determinate soglie reddituali.

Il dottorando senza borsa è equiparato sotto il profilo accademico e curriculare al borsista, essendo tenuto ai medesimi obblighi. Non gode però del sostentamento economico diretto.

In questa categoria così delimitata, un regime particolare, che è qui oggetto di specifica indagine, riguarda i dipendenti pubblici ammessi al corso di dottorato senza godimento della borsa di studio.

Nel corso del tempo è maturata nel legislatore la consapevolezza che il dottorato di ricerca rappresenti un titolo di significativo rilievo per la carriera individuale e che, nel caso del dipendente pubblico, garantisca a quest’ultimo un livello di competenze e conoscenze di eminente profilo, con significativi positivi riflessi sull’interesse organizzativo dell’amministrazione e sulla qualità del suo organico. In altri termini, la legislazione si è progressivamente evoluta per valorizzare la scelta di quei dipendenti pubblici che intendano intraprendere il percorso dottorale, anche al fine di garantire un personale con più elevata formazione alle pubbliche dipendenze.

Il congedo straordinario: la formulazione originaria dell’art. 2, L. 13 agosto 1984 n. 476

In un primo momento l’articolo 2 della Legge 13 agosto 1984[5] n. 476, chiamato a normare la materia, prevedeva che i dipendenti pubblici ammessi al corso di dottorato fossero collocati a domanda in congedo straordinario per motivi di studio, ma senza assegni, cioè senza godere di alcun emolumento economico da parte dell’amministrazione di appartenenza, salva la possibilità di fruire, alle condizioni di legge, della borsa di studio.

Esclusa quest’ultima possibilità, soggetta, come detto, a limiti reddituali solitamente incompatibili con i livelli stipendiali del pubblico impiego, ne derivava la seguente conseguenza: il dipendente pubblico ammesso al corso di dottorato per un verso non fruiva della borsa di studio, per l’altro non riceveva alcun trattamento economico da parte dall’amministrazione.

Una tale congiuntura finiva per deprimere ogni sostenibilità economica della scelta dottorale per il dipendente pubblico: l’opzione formativa implicava infatti in sostanza per il dottorando la rinuncia – sul lungo arco temporale di un triennio – a ogni riconoscimento economico.

In questo assetto normativo, però, il dipendente era collocato in congedo a semplice domanda, senza che la norma prevedesse alcun atto di assenso né alcuna valutazione di compatibilità con le esigenze organizzative da parte dell’amministrazione.

Va anche detto che l’articolo 2 citato (più volte riformulato in seguito, come si vedrà) rappresenta ancora oggi il cardine del congedo straordinario, tanto da essere richiamato dallo stesso D.M. 8 febbraio 2013, n. 45, all’art. 12[6].

Il nuovo congedo “retribuito”: la conservazione del trattamento economico e previdenziale

L’articolo 52 della legge 28 dicembre 2001 n. 448 ha novellato l’articolo 2 della Legge 13 agosto 1984 prevedendo che il pubblico dipendente ammesso al corso di dottorato senza borsa conservasse il diritto al trattamento economico, previdenziale e di quiescenza già in godimento presso l’Amministrazione di appartenenza.

Anche in tale frangente, mancava un ruolo attivo dell’Amministrazione che, a domanda, era tenuta al collocamento in congedo con correlata erogazione dei benefici economici.

Tale scelta, probabilmente anche per la consistenza economica delle sue conseguenze, è stata in parte condizionata, al dichiarato fine di consentire un sindacato dell’amministrazione sulla concessione del congedo. Si tratta, per alcuni, di un assestamento fisiologico dettato da insopprimibili esigenze di finanza pubblica e di tutela dell’organizzazione amministrativa. Dal punto di vista della linea evolutiva tendenziale, tale rimeditazione rappresenta però una discontinuità.

Un passo indietro: le “esigenze dell’amministrazione”

L’art. 19 della legge 30 dicembre 2010, n. 240 ha ulteriormente novellato l’articolo 2 della Legge 13 agosto 1984 inserendo la condizione per cui il collocamento in congedo avviene “compatibilmente con le esigenze dell’amministrazione”. Dunque, nell’attuale cornice normativa, il riconoscimento del congedo è sottoposto a una verifica dell’amministrazione che riguarda però l’unico aspetto delle “esigenze”.

Tale profilo è particolarmente significativo perché si riverbera sul contenuto dell’istruttoria e della motivazione che dovranno connotare gli atti di riconoscimento o di diniego del congedo: l’Amministrazione dovrà valutare unicamente il profilo delle proprie “esigenze”. Non potrà quindi esperire un sindacato che tracimi da tale circostanziato aspetto.

La permanenza in servizio al termine del corso di dottorato

Sempre su questa linea tendenziale, l’art. 5 del Decreto Legislativo 18 luglio 2011, n. 119[7] ha infine previsto che il dipendente pubblico – per conservare il trattamento fruito in congedo straordinario – debba proseguire il rapporto alle dipendenze dell’Amministrazione per almeno un ulteriore biennio dopo il termine del corso di dottorato.

Tale norma mira evidentemente a evitare che il dipendente pubblico interrompa il rapporto di lavoro con l’amministrazione immediatamente dopo il termine del percorso dottorale, trattenendo il trattamento economico goduto in congedo.

La norma si allinea, in un’ottica di coerenza circolare, al principio di favor per la formazione dei dipendenti pubblici nei termini sopra enunciati.

Se è vero che l’amministrazione riconosce al dipendente condizioni di particolare favore per la frequenza del dottorato (collocamento in congedo, trattamento economico) al fine di consentire la formazione individuale e ritrarne però anche l’interesse pubblico a un organico più qualificato, tale equazione entrerebbe in irrimediabile crisi ove al dipendente fosse consentito di interrompere il rapporto di lavoro subito dopo il termine del dottorato.

Il prolungamento del congedo straordinario per l’emergenza COVID-19

Si deve da ultimo dar conto, per brevissimo cenno, che il legislatore ha riconosciuto prolungamenti del congedo retribuito ai dottorandi di ricerca dipendenti pubblici, seppur a determinate condizioni, in ragione dell’emergenza sanitaria da COVID-19.

Si tratta evidentemente di norme emergenziali che sono geneticamente inserite in un contesto del tutto particolare e che dunque assumono un rilievo organico soltanto relativo, collocandosi al di fuori delle linee di evoluzione tendenziale del sistema, sicché in questa sede non assumono decisivo rilievo.

È però significativo che il legislatore si sia preoccupato di adeguare il congedo straordinario in considerazione dei rallentamenti subiti dall’attività di ricerca per l’emergenza sanitaria, seppur prevedendo una – davvero singolare – “facoltà” dell’amministrazione di disporre il prolungamento del congedo. L’utilizzo del termine “facoltà”, nozione indefinita nel contenuto e nella sostanza, si presta a pericolose interpretazioni estensive che, invece, per ragioni di coerenza sistematica, andrebbero escluse, riportando lo spettro ermeneutico nei limiti delle “esigenze dell’amministrazione”.

[1] Di recente ridenominato Ministero dell’Università e Ricerca.

[2] Così l’art. 1, rubricato “definizioni”, lett. l), del decreto ministeriale del Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca 3 novembre 1999, n. 509.

[3] Cfr. M. Tinè, L’offerta formativa dottorale, analisi delle schede dell’anagrafe dei dottorati – XXXIII ciclo relative a 949 corsi di dottorato di 84 università, elaborazione CUN, presentata nell’ambito de “L’università forma il futuro”, giornata sulla modernizzazione dell’offerta formativa universitaria, 1 febbraio 2018, disponibile su www.cun.it.

[4] È lo stesso art. 12 del D.M. 45 del 2013 a consentire, ad esempio, lo svolgimento di tutorato e attività didattica integrativa

[5] Norma in materia di borse di studio e dottorato di ricerca nelle Università.

[6] Ove si legge «I dipendenti pubblici ammessi ai corsi di dottorato godono per il periodo di durata normale del corso dell’aspettativa prevista dalla contrattazione collettiva o, per i dipendenti in regime di diritto pubblico, di congedo straordinario per motivi di studio, compatibilmente con le esigenze dell’amministrazione, ai sensi dell’articolo 2 della legge 13 agosto 1984, n. 476».

[7] In attuazione di una delega di cui all’art. 23 della legge 4 novembre 2010, n. 183, per il riordino della normativa in materia di congedi, aspettative e permessi.

Avv. Gambetta Davide

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