Il contrasto penalistico alla corruzione nella fattispecie ex art. 318 c.p.

Dalla corruzione c.d. impropria alla corruzione per l’esercizio della funzione

L’art. 318 c.p. rubricato “corruzione per l’esercizio della funzione[1] a seguito delle modifiche intervenute con la L. 190/2012, e da ultimo con la L.3/2019, sostituisce la corruzione per un atto d’ufficio, ossia la c.d. corruzione impropria.

Tale norma ha assunto una forma totalmente diversa rispetto alla previgente normativa in materia dal momento che viene prevista un’unica fattispecie corruttiva, con una modifica strutturale del delitto in esame.

La previgente versione distingueva all’interno della corruzione impropria due diverse situazioni: la corruzione impropria antecedente, per la quale si richiedeva l’accettazione della promessa, e la corruzione susseguente, per la quale rilevava invece il solo fatto di ricevere la retribuzione indebita.

La nuova figura criminosa intende pertanto punire l’infedeltà del pubblico funzionario prescindendo dal rintracciare quale requisito necessario un singolo “atto” oggetto del pactum sceleris e preferendo piuttosto sanzionare l’asservimento di una intera funzione o dei poteri alle esigenze del corruttore[2].

Questo elemento di novità mira senza dubbio a creare una nuova consapevolezza nei consociati e cioè che la funzione pubblica non può essere in alcun modo sottoposta alla realizzazione di interessi privati poiché essa deve tendere a rendere effettivi i principi del buon andamento e della imparzialità della pubblica amministrazione nell’espletamento della pubblica funzione stessa.

Il mutamento qualitativo della corruzione

La riscrittura della norma si pone in linea con il mutamento qualitativo[3] che ha interessato il fenomeno corruttivo, mirando quindi alla repressione delle nuove e più gravi forme di corruzione c.d. sistemica.

 Ed invero, nella corruzione sistemica si ravvisa un accordo corruttivo che, lungi dal correlarsi al mercimonio di un singolo atto d’ufficio determinato o comunque individuabile, mira piuttosto alla creazione di un impegno permanente in capo al pubblico ufficiale, il quale mette a disposizione del corruttore la generalità degli atti propri della sua funzione.

Il rapporto corruttivo si proietta in una prospettiva di durata e si trasforma nel mercimonio della funzione o del potere pubblico[4].

Il legislatore reprime in tal modo la messa a libro paga del pubblico funzionario ovvero l’asservimento della funzione pubblica, finora assunti nella fattispecie prevista dall’art. 319 c.p., nel novellato art. 318 c.p., sempre che i pagamenti intervenuti non siano ricollegabili al compimento di uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio[5].

Si determina dunque una rottura del rapporto sinallagmatico tra atto d’ufficio e accettazione di promessa e percezione di utilità da parte del pubblico agente.

Si legga anche:” Legge “Spazza corrotti”: prime riflessioni sui nuovi delitti contro la Pubblica amministrazione”

Il rapporto tra la corruzione per l’esercizio della funzione e la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio

Tale importante cambiamento della disciplina deve essere analizzato soprattutto in relazione alle conseguenze che si pongono nel delimitare i confini della norma in esame rispetto all’art. 319 c.p. .

Si ritiene che le due norme si trovino adesso in un rapporto di specialità poiché se l’art. 318 è da intendere quale norma di carattere generale, l’art. 319 è una norma speciale[6] per il caso in cui l’oggetto dell’accordo si incentri su di un singolo e specifico atto che sia contrario ai doveri d’ufficio o sull’omissione o sul ritardo di un atto dovuto, contemplando pertanto casi di maggiore gravità.

Il rapporto tra le due figure di reato è del tipo “specialità per specificazione” nel senso che l’art. 318 c.p. prevede un reato di pericolo che punisce la generica condotta di vendita della pubblica funzione, mentre l’art. 319 c.p. è un reato di danno e richiede uno specifico atto. Infatti la specialità si manifesta innanzitutto in rapporto al modo di esercizio della funzione o del potere, che devono necessariamente essersi concretizzati in un atto dell’ufficio specificamente individuato quale oggetto della compravendita illecita; ed in secondo luogo si esprime rispetto alla qualificazione anti doverosa della condotta dell’agente pubblico, che, di per sé, è irrilevante nel contesto dell’art. 318 c.p.[7].

Il discrimen tra la fattispecie di cui all’art. 318 c.p. e quella di cui all’art. 319 c.p. è stato oggetto, e continua ad essere oggetto, dell’analisi da parte della giurisprudenza.

Ebbene, secondo un orientamento, ormai consolidato, la linea di demarcazione tra i due tipi di reato sarebbe da rintracciare nella diversa connotazione assunta dal patto corruttivo laddove occorra discernere i casi in cui detto patto, ancorché non rispondente ai principi di buona amministrazione, dia luogo comunque ad un atto pienamente legittimo, da quelli in cui si determini un atto del tutto contrario ai doveri d’ufficio.

In virtù di detta impostazione, pertanto, comprensibile appare il maggior disvalore della fattispecie criminosa di cui all’art. 319 c.p. poiché si riscontra una totale difformità rispetto ai parametri di legge, a prescindere dalle ragioni sottese.

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L’approdo della Cassazione

La VI Sezione della Corte di Cassazione da ultimo, con sentenza n. 45184 del 2019, riprendendo una precedente pronuncia (Cass. Pen., Sez. VI, Sent. n. 4486 del 2018), ha infatti avuto modo di precisare come lo stabile asservimento del pubblico ufficiale a interessi di terzi integri il reato di corruzione per l’esercizio della funzione laddove si determini un impegno permanente a compiere o ad omettere atti della pubblica funzione e non già il delitto di cui all’art. 319 c.p. che, al contrario, si avrebbe nel caso in cui “la messa a disposizione della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio”.

In tal senso altra e precedente pronuncia (Cass. Pen., Sez. VI, Sent. n. 49226 del 2014) aveva già specificato come “in tema di corruzione, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi realizzato attraverso l’impegno permanente a compiere o omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, integra il reato di cui all’art. 318 cod. pen., e non il più grave reato di corruzione propria di cui all’art. 319 cod. pen., salvo che la messa a disposizione della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, poiché, in tal caso, si determina una progressione criminosa nel cui ambito le singole dazioni eventualmente effettuate si atteggiano a momenti esecutivi di un unico reato di corruzione propria a consumazione permanente”.

L’art. 318 c.p. tra continuità e novità

L’orientamento giurisprudenziale e dottrinale prevalente[8], limitatamente alla corruzione per l’esercizio della funzione, prevede una sostanziale continuità tra il previgente art. 318 c.p. e quello odierno a seguito della riforma.

Si ritiene infatti che i casi di corruzione impropria rientrino nell’ambito della disposizione in esame[9] e che la nuova norma abbia allargato l’area di punibilità ad ogni fattispecie di monetizzazione del munus publicus, pur se sganciata da una logica di “formale sinallagmaticità”.

Si deve dar conto però del fatto che l’art. 318 c.p. non abbia investito integralmente l’area della vendita della funzione poiché essa si incentra solo in quelle situazioni in cui non sia noto il finalismo del suo mercimonio ovvero se sia sicuro che l’oggetto di questo sia rappresentato da un atto dell’ufficio.

La giurisprudenza, negli anni antecedenti alla riforma, aveva progressivamente esteso il concetto di atto di ufficio fino a determinare una “smaterializzazione” di tale elemento[10].

L’estensione ha inizialmente riguardato la competenza del soggetto pubblico in relazione all’atto e si è stabilito che sussiste la corruzione anche in base a una forma di competenza solo generica[11] che si riferisce a “qualsiasi segmento della seriazione procedimentale”[12].

La rarefazione del concetto di atto di ufficio si è progressivamente estesa fino al punto di configurare il reato purché l’atto risultasse individuato o individuabile nel genere, ossia “suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli, non preventivamente fissati o programmati, ma appartenenti sempre al genus previsto, giacché anche in tal caso la consegna di denaro al pubblico ufficiale deve ritenersi eseguita in ragione delle funzioni dello stesso e per retribuirne i favori[13].

Il concetto di atto di ufficio si è ulteriormente ampliato oltre i confini tradizionalmente tracciati fino a prevedere il reato di corruzione per le utilità date o promesse in ragione di eventuali, futuri e imprecisati atti, che creavano un atteggiamento di favore nel soggetto pubblico.

Tale interpretazione evolutiva se da un lato ha inteso dare una risposta alle sempre più frequenti ipotesi di corruzione sistemica, dall’altro ha inteso raggiungere una semplificazione probatoria: il venir meno di un atto di ufficio nella sua specificità libera infatti la pubblica accusa dal difficile onere di dover individuare e provare l’atto – comportamento del pubblico agente in relazione al patto corruttivo.

Non si è tuttavia mancato di sottolineare come l’estensione dell’ambito di applicazione della fattispecie abbia di fatto spostato il baricentro della tutela dall’atto al patto anticipandolo al livello di pericolo con conseguente sostituzione di un concetto inafferrabile, quale quello della fiducia nella lealtà degli apparati pubblici, al concetto di buon andamento.

Sarebbe piuttosto da preferire un contemperamento nell’individuazione del bene giuridico leso poiché, se da un alto occorre evidenziare come la nuova fattispecie di reato non muti la ratio di tutela, pur adesso riferendosi al ben più ampio concetto di funzione compravenduta, dall’altro non si può non evidenziare come ai tradizionali beni istituzionali del buon andamento e dell’imparzialità della P.A. si aggiunga proprio la fiducia nella lealtà dei pubblici agenti poiché costoro devono attenersi al dovere di non venalità in ragione della pubblica funzione esercitata.

Pertanto l’ampliamento del pactum sceleris  alla corruzione per asservimento della funzione incide sulla dimensione offensiva della fattispecie andando in tal modo a tutelare il bene della dignità e dell’onore  delle funzioni del pubblico agente; sono stati avanzati dei dubbi circa il fondamento costituzionale di tali beni considerati talvolta inafferrabili[14] e si è ritenuto di incentrare il significato offensivo della fattispecie al pericolo di alterazione dei meccanismi di funzionamento della P.A. dal momento che è l’intera funzione ad essere intaccata dal pactum. Si deve concludere che nella corruzione per asservimento si mira a tutelare la fiducia dei consociati nella lealtà e fedeltà dei pubblici funzionari.

Le caratteristiche strutturali della corruzione per l’esercizio della funzione

La fattispecie sanzionata dall’art. 318 c.p. consiste in un accordo, il c.d. pactum sceleris, tra il pubblico agente (corrotto) e il privato (corruttore) che si articola in una promessa-accettazione, dazione di denaro o altra utilità per la comune finalità dell’esercizio della funzione del pubblico agente.

Il patto non è un elemento autonomo ma rappresenta il fatto sanzionato e di conseguenza si potrebbe concludere di essere dinanzi ad una fattispecie necessariamente plurisoggettiva dal momento che si richiede la partecipazione di più soggetti, e a struttura bilaterale essendo le condotte reciproche.

Tuttavia, in tal modo non si procederebbe a distinguere tra soggetto della condotta illecita e soggetto del fatto, tra condotta illecita e altre condotte[15] che di per sé non costituiscono la condotta illecita incriminata dalla norma.

A differenza che nella previgente versione, la L. n. 190/2012 ha fatto venir meno il riferimento al concetto della retribuzione[16] che doveva mantenersi entro il parametro della proporzionalità o di non manifesta sproporzione[17] rispetto alla controprestazione ottenuta.

Il venir meno del riferimento alla retribuzione esclude rilievo alla sinallagmaticità e soprattutto alla proporzione tra le prestazioni.

Prima della modifica si escludeva la rilevanza di riconoscimenti simbolici, i c.d. munuscula, così come di quelle utilità date o promesse che non fossero di minima entità ma che apparissero comunque sproporzionatamente inferiori rispetto all’atto: il prezzo della corruzione impropria si doveva infatti configurare come una forma di retribuzione congrua al valore dell’atto conforme ai doveri di ufficio[18].

Il nuovo assetto normativo invece non dando più alcuno spazio al concetto di retribuzione farebbe propendere per una interpretazione restrittiva tale per cui occorre garantire l’applicazione della fattispecie anche in mancanza del rapporto di proporzionalità.

Da ciò deriverebbe l’intento, da parte del legislatore, di rendere penalmente rilevante l’elargizione anche modica di donativi d’uso nell’ambito delle normali relazioni di cortesia; tuttavia ciò comporterebbe una evidente dilatazione della fattispecie incriminatrice che provocherebbe eccessi di criminalizzazione[19] ed una estensione oltremodo prevedibile ex ante.

Altro orientamento dottrinale[20], basandosi su una lettura costituzionalmente orientata della disposizione, sembrerebbe mantenere la proporzione come requisito implicito. In tal modo, dunque, l’eliminazione del rapporto di corrispettività sarebbe solo formale perché il giudice non potrà prescindere da un giudizio di congruità della elargizione rispetto alla idoneità della stessa a inficiare l’imparzialità del funzionario.

In presenza di un dono di modico valore che rientra negli usi sociali sembra difficile poter giungere fino a configurare il reato di corruzione funzionale.

Il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici,[21]  all’art. 4 pone il generale divieto di chiedere o sollecitare, regali al soggetto privato; esso inoltre prevede il divieto di accettarli, ove offerti, salvo che si tratti di regali d’uso, di modico valore, effettuati occasionalmente, nell’ambito delle normali relazioni di cortesia.

Viene inoltre individuato un limite quantitativo alla nozione di modico valore[22]pari a € 150,00, sebbene venga fatto salvo ogni diverso inferiore limite dettato dalle singole amministrazioni. Si deve sottolineare però che tale valore è individuato soltanto in via approssimativa poiché se lo si intendesse quale soglia di punibilità o di rilevanza si determinerebbe un contrasto con le convenzioni in materia e una violazione dell’art. 117 Cost.; tale valore, inoltre, si applica solo ai dipendenti pubblici e non anche alla generalità dei pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio.

Occorre ancora specificare, riguardo tale ambito, che si deve trattare di denaro o altra utilità non dovuti richiedendosi che il soggetto pubblico indebitamente[23] riceva o accetti la promessa.

Il fatto che la retribuzione non sia dovuta si traduce nella mancata sussistenza in capo al privato di un “dovere” nel versarla[24], con conseguente assenza di qual si voglia diritto ovvero facoltà da parte del soggetto pubblico di riceverla.

Il carattere dell’indebito si verifica non soltanto quando la dazione o la promessa siano espressamente vietate dall’ordinamento, ma anche quando non siano espressamente consentite[25]. Infatti occorre fare riferimento alla normativa extra penale e in particolare alle norme di diritto amministrativo che disciplinano il rapporto[26].

Per utilità non dovuta si intende anche quella non dovuta in modo parziale, in particolare la retribuzione che supera quanto deve essere dato per l’emanazione di quell’atto, mentre non si configura il reato se per l’esercizio della funzione sia comunque previsto un corrispettivo ovvero se una qualche forma di utilità, ancorché non dovuta, sia comunque lecita.

Passando all’analisi delle condotte dei concorrenti necessari si deve sottolineare come queste siano a forma libera pur dovendo integrare comportamenti positivi bilaterali con una convergenza nell’unitaria finalità del mercimonio dell’attività pubblica.

Il comportamento di chi riceve è in stretta correlazione con quello di chi dà e di conseguenza l’accettare una promessa presuppone l’altrui promessa.

Proprio per quanto fino ad ora sostenuto si rinviene nel rapporto corruttivo un rapporto di parità che configurerebbe un reato-contratto[27].

Il termine promessa non è da intendere nel suo significato civilistico di dichiarazione unilaterale, idonea a produrre effetti obbligatori, quanto piuttosto nel significato comune di impegno ad eseguire una prestazione futura nei confronti di un destinatario, il pubblico agente, che la accetti.

Tanto la promessa quanto l’accettazione non necessitano di una particolare forma e inoltre non è richiesta la contestualità dei consensi o la presenza dei due soggetti nel medesimo luogo; è ammissibile il concorso eventuale di terzi, quali intermediatori, nel reato al fine di concretizzare il pactum sceleris, sebbene non possa prescindersi dalla manifestazione del consenso del pubblico agente al patto corruttivo.

Il novellato art. 318 c.p. elimina l’originario 2° comma che puniva la corruzione impropria susseguente, comportando la necessità da parte degli interpreti di comprendere se ciò implichi la depenalizzazione di tale situazione ovvero se questa sia da ricomprendere nell’ambito applicativo della nuova fattispecie.

Si deve rilevare come la nuova disposizione si limiti a prevedere la punibilità della ricezione o dell’accettazione della promessa dell’indebito “per l’esercizio delle funzioni o dei poteri” dei pubblici agenti.

Dal tenore letterale della norma sarebbe possibile una duplice interpretazione sulla base del valore attribuito alla preposizione “per”[28].

Infatti se la si interpreta in chiave finalistico-deterministica (per l’esercizio nel senso di “in vista dell’esercizio”), la stessa limita la rilevanza dell’accordo alle prestazioni ancora da eseguire e prevede la punibilità per i soli fatti di corruzione antecedente[29].

Viceversa, se le si attribuisce significato retributivo-causale (“in relazione all’esercizio”) si consentirebbe l’inclusione delle dazioni o delle promesse fatte in relazione alle funzioni già esercitate o da esercitare e, dunque, anche la corruzione susseguente sarebbe punibile.

Le differenti soluzioni inciterebbero esclusivamente sulla corruzione susseguente per la realizzazione di singoli atti di ufficio e non anche per l’assunzione a libro paga [30] del funzionario poiché in questo caso esso appare finalizzato ad una attività che il pubblico agente dovrà ancora compiere, non sembrando plausibile una remunerazione per funzioni che siano già state esercitate.

Pertanto l’irrilevanza penale della corruzione susseguente, e la sua conseguente abolitio criminis, si determina come logica conseguenza a fronte della eliminazione del concetto di atto che non rende più possibile la distinzione tra corruzione antecedente e susseguente[31]. Per quanto attiene invece alla funzione o ai poteri deriverebbe oltre che da ragioni interpretative anche dalla obiettiva difficoltà nel non poter distinguere tra passato e futuro l’asservimento delle funzioni oggetto di remunerazione prevedendosi dunque una punibilità fino a che tale condizione mantenga la propria effettività.

Successione delle norme penali nel tempo

Occorre interrogarsi circa gli effetti che la riscrittura della disposizione in esame comporta sulla successione delle norme penali nel tempo.

Sotto il profilo del diritto intertemporale si determina una continuità normativa con le previgenti disposizioni sulla corruzione impropria[32]dandosi luogo ad una mera successione di norme modificative tale per cui le condotte realizzate anteriormente all’entrata in vigore della riforma ricadranno nella più favorevole disciplina della vecchia normativa, in aderenza agli artt. 2 e 4 c.p..

Per le ipotesi di corruzione attiva impropria susseguente, trattandosi di nuova incriminazione risulterà inapplicabile ai fatti pregressi.

Inoltre la nuova fattispecie risulta essere di più ampia portata in quanto ha come destinatari gli incaricati di un pubblico servizio, anche se non pubblici impiegati, per cui alla corruzione attiva impropria, commessa anteriormente alla riforma dell’incaricato di pubblico servizio che, all’epoca dei fatti, non rivestiva la qualità di pubblico impiegato, non potrà applicarsi la nuova disposizione che punisce anche chi non rivesta una tale qualifica.

L’art. 318 c.p. costituisce un reato doloso[33] richiedendosi un dolo generico consistente nella rappresentazione, da parte del pubblico agente e del privato, del significato della dazione o promessa e, dunque, della sua valenza retributiva in riferimento all’esercizio di una funzione o di un potere pubblico.

Si richiede dunque una consapevolezza della indebita ricezione o accettazione da parte del soggetto pubblico di denaro o altra utilità.

Trattandosi di reato a concorso necessario non si rende necessaria la sussistenza del dolo in entrambi i soggetti dal momento che la responsabilità del corrotto e del corruttore sono autonome.

Nel caso in cui il pubblico ufficiale per errore ritenga la doverosità della prestazione non è possibile ravvisare il dolo ma non così per il privato che abbia consapevolmente dato o promesso indebitamente per l’esercizio della funzione poiché in questo caso se è vero che manca un corrotto non è del pari vero che manchi anche un corruttore.

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Note

[1] Art. 318. Corruzione per l’esercizio della funzione. Il Pubblico Ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per se o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da tre a otto anni.

[2] M. Pelissero, in La Legge anticorruzione. Prevenzione e repressione della corruzione, 2013, a cura di B.G. Mattarella, cit., p. 348

[3] Fiandaca-Musco, Diritto penale, Parte Speciale, Addenda:la recente riforma dei reati contro la pubblica amministrazione, cit., p.17

[4] Fiandaca – Musco, Addenda, cit., p. 17

[5] Cass., Sez. VI, 23.09.2014, in CED Cass., n. 49226

[6] D. Pulitanò, La novella in materia di corruzione, in Cass.pen., 2012 suppl. n. 11, p. 8

[7] T. Padovani, Metamorfosi e trasfigurazione. La disciplina nuova dei delitti di concussione e corruzione, in Archivio Penale, fasc. n. 3, cit., p. 786

[8] Pelissero, I delitti di corruzione, in Trattato di diritto penale, parte speciale, Reati contro la pubblica amministrazione a cura di Grosso C.F. e Pelissero M., Giuffrè Editore, 2015, cit., p. 299

[9] Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, II, XVI Ed., 2016 cit., , p. 429

[10] Severino, La nuova legge anticorruzione, in Dir. Pen. Proc., 2013 n. 1, p.8

[11] Cass., Sez. IV,27.10.2003, in Cass. pen., 2005, p. 449

[12] Cass., Sez. IV, 03.12.1993, in Cass pen., 1995, p. 1511

[13] Cass., Sez. IV, 19.11.1997, in Giur.it 1999, p. 1930

[14] G. Cocco, “La corruzione generica a quattro anni dalla riforma. Questioni dogmatiche e applicative” in L’indice penale p. 10, 2017

[15] M.Ronco-B. Romano, Codice penale commentato, 2012, p. 1623

[16] Fiandaca-Musco, Addenda, cit., p.19

[17] Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., p. 430

[18] C.F. Grosso-M. Pelissero, Trattato di diritto penale, cit., p. 299

[19] C.F. Grosso-M. Pelissero, Trattato di diritto penale, cit., p. 300

[20] F. Cingari, La corruzione per l’esercizio della funzione, in Mattarella- Pelissero (a cura di) La Legge anticorruzione, cit., p. 412

[21] DPR 16 Aprile 2013, n. 62, art. 4

[22] DPR 16 Aprile 2013, n. 62, art. 4 co. 5

[23] Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., p. 432

[24] Pagliaro-Parodi Giusino, Principi di diritto penale, Parte speciale, X Ed., 2008, cit., p. 216 e ss.

[25] Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., p. 432

[26] Pagliaro-Parodi Giusino, Principi di diritto penale, cit., p. 217

[27] F. Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, seconda edizione, 1966, p. 38

[28] Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., p. 432

[29] Grosso, Novità, omissioni e timidezze della legge anticorruzione in tema di modifiche al codice penale, in La legge anticorruzione, cit., p. 10

[30] Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., p. 433

[31] Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., p. 433

[32] Cass. pen. 3.05.2013, in CED Cass., n. 19189

[33] Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., p. 433

Dott.ssa Elisa Vitale

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