Abstract.
The following text wants to criticize a popular attitude, which consists to create acts that have the ability to dismiss property, particularly real estate. As a matter of fact, during past years, many lecturers explained which problems could be created by contracts used to transfer property without a legal discipline. These contracts have a particolar structure which doesn’t give other contractor chance to express his consent about. So that, many italian judges have been disagreeing with the use of them for long time. The same problem could be found in notary acts that give clients chances to dismiss real estate. In this case, because of the article number 827 civil code, the Italian State has to take dismessed properties without having possibilities to refuse them. The reasons of these acts are usually identified with too high mantenance costs. In these cases, the mantenence costs are going to be borne by the Italian State, without possibility to refuse to pay for them. Because of this serious consequence, it may be better to prohibit this practice. That’s heart of the problem that Administrative judges are going to solve in these years, particularly when the public administration needs to take a private property owing to the fact it’s necessary to build a public structure without a legal permission. Broadly speaking, in these cases, privates are used to ask for a compensation for damages because of the behaviour described above.
According to the best doctrine, meanwhile they are asking for compensations, their property law should be transferred to the Italian State patrimony, without other formal acts due to the public administration’s illegal behaviour. And this could happen without controls about existance of a public interest and also without the italian State and public administration’s consent. As a matter of fact, public administrations could fill private property also for a mistake. Consequently, according to the administrative judge who wrote the judgement, it’s better property law rests into the private patrimony in case of illegal occupation. In this way, each person should ask for the property return and not for damage compensations. It seems the best way to solve problems created by absence of Italian State and public administration’s consent.
1.- Il cuore del problema: la causa e la struttura del contratto
L’evoluzione giurisprudenziale in tema di causa contrattuale, ufficialmente a partire dalla storica sentenza della Corte di cassazione n. 10490 del 2006 – ma la predetta tendenza era già in fase di sviluppo in epoca anteriore – ha portato al superamento della concezione oggettiva di tale essenziale elemento strutturale, e conseguentemente, a considerare anche ammissibile la gratuità atipica traslativa. Il dibattito mai davvero del tutto sopito, tuttavia, ruota probabilmente attorno alla struttura del negozio gratuito atipico ad effetti reali ed al ruolo che si intende attribuire alla autonomia negoziale in questo particolare ambito[1] .
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– La risoluzione dei problemi inerenti l’ammissibilità della gratuità atipica traslativa. Una sintetica ricostruzione dei principali orientamenti dottrinali e giurisprudenziali
Al fine di fornire alcune linee generali teoriche riguardo a tale problematica – la cui risoluzione può essere utile per un migliore inquadramento delle principali questioni prospettate dalla sentenza oggetto di commento – appare opportuno seguire l’ordine di classificazione dei negozi giuridici: causa, struttura, effetti.
Tale ordine non è casuale, in quanto risponde all’esigenza di sottolineare la necessità, particolarmente avvertita nel nostro ordinamento giuridico, di individuare una corretta giustificazione causale per ogni spostamento patrimoniale.
Notoriamente, è l’ordinamento giuridico tedesco – rispetto al quale la dottrina tende ad operare continui parallelismi – a ruotare attorno alla astrattezza causale, ovvero alla non essenzialità di tale elemento strutturale. Il nostro ordinamento, per contro, sanziona con una norma l’assenza di giustificazione causale nel predetto spostamento. Ci si riferisce all’art. 2041 cod. civ., posto a presidio del confine tra atto lecito ed atto illecito. La codificazione, a mente del su richiamato articolo, della esigenza di individuare la giustificazione causale del trasferimento di ricchezza trova naturale conferma nella esigenza di considerare la causa come elemento strutturale del contratto ai sensi dell’art. 1325 cod. civ[2]. .
Tale attuale visione si contrappone alla antica corrente di pensiero giusnaturalista, la quale tendeva a minimizzare il rilievo causale.
Secondo tale filone, ogni accordo poteva considerarsi vincolante, anche se privo di causa. La predetta corrente, tuttavia, non ebbe particolare fortuna. Essa fu rapidamente sovvertita dal diffondersi del pensiero di giuristi quali Pothier o Domat. Ad essi si deve il diffondersi di un principio ben incardinato nel Code Napoleon: il principio “causalista”. A mente di tale criterio, attualmente ancora vigente, per attribuire un diritto o per assumere una obbligazione occorre, per l’appunto, una giustificazione causale[3] .
Chiarito, così succintamente, che, senza causa, non vi è accordo (valido), occorre capire in cosa consista tale elemento.
Nel codice del 1865, di ispirazione napoleonica, si leggeva, all’art. 1104, che: “i requisiti essenziali per la validità del contratto sono: la capacità di contrattare; il consenso valido dei contraenti; un oggetto determinato che possa essere materia di convenzione; una causa lecita per obbligarsi. Ancora, il capo I recava il titolo “delle cause delle obbligazioni”.
Dal tenore complessivo di tali norme ed, in particolare, dal titolo attribuito al capo primo, si è sviluppata la convinzione secondo la quale la causa richiesta dal codice del 1865 fosse, in realtà, una causa ancorata ad una forte dimensione soggettiva.
Essa, secondo la cd. teoria analitica, si individuava in base al tipo di prestazione che doveva esser svolta per dare esecuzione allo schema contrattuale.
Nel codice del 1942, per contro, la stessa si oggettivizza e si ancora al contratto in quanto tale. Non si parla più di causa dell’obbligazione, bensì di causa del contratto, identificandola nella funzione economico-sociale che si è inteso attribuire allo schema negoziale[4] .
Ciascun contratto tipico, ovvero dotato di una apposita disciplina normativa, ha una propria causa, corrispondente alla funzione che il legislatore ha inteso attribuirgli. Su tali basi, si è reso possibile operare una classificazione generale del negozio giuridico.
Con essa appare più agevole distinguere tra causa onerosa, causa gratuita e liberalità.
Al fine di fornire una definizione dei tre schemi negoziali, occorre considerare che l’onerosità, benché non descritta chiaramente a livello codicistico, si rinviene nel nesso di causalità che sussiste tra i reciproci vantaggi e sacrifici che caratterizzano i contratti sinallagmatici e nei quali la stessa causa risiede nel sinallagma che li lega[5] .
La causa del contratto oneroso, del contratto di scambio, infatti, si individua tendenzialmente nel rapporto economico che lega la prestazione alla controprestazione e prescinde dalla equivalenza del valore di queste ultime; di fatti, l’equilibrio economico contrattuale è ‘tendenzialmente’ insindacabile. Occorre rilevare, tuttavia, come il carattere oneroso si rinvenga anche nell’ambito dei contratti associativi, ovvero dei contratti in cui il sacrificio di ciascuna parte contrattuale è diretto verso il raggiungimento di un vantaggio comune.
Ciascuna prestazione non trova ragion d’essere nell’esistenza dell’altra, ma è funzionale all’ottenimento di un vantaggio identico, pertanto la causa contrattuale potrà essere identificata ugualmente, secondo una recente dottrina, in una causa di scambio, ma “mediata”. Che sia di scambio o di scambio mediato, la causa onerosa è normalmente retta da una struttura bilaterale (o, al più, plurilaterale nei contratti associativi). Con guardo alla liberalità tipica, la causa si identifica – secondo la concezione oggettiva – nel depauperamento economicamente disinteressato del donante a fronte dell’arricchimento del donatario. Secondo la visione soggettiva, la stessa si rinviene nell’animus donandi, nello stesso elemento soggettivo del donante.
Su tali basi, l’orientamento dottrinale prevalente tende a qualificare la causa della donazione come causa debole, compensata, pertanto, da un lato, dalla forma solenne (cd. forma forte). Dall’altro, si potrebbe ritenere che la stessa struttura bilaterale del contratto – dettata dallo scambio tra proposta e necessaria accettazione del donatario, anche non contestuale – funga da contrappeso ad una naturale debolezza causale.
Al riguardo, per completezza, occorre precisare come non manchino orientamenti dottrinali che sostengono la struttura unilaterale del contratto di donazione anche al di fuori di casi particolari come la donazione obnuziale che, notoriamente, non richiede accettazione.
L’esame dei primi due schemi consente di comprendere l’essenza della causa gratuita non liberale ma economicamente interessata. Infatti, se l’onerosità prevede la correlazione tra vantaggio e sacrificio e la liberalità l’attribuzione di un vantaggio in virtù del solo animus donandi, la gratuità economicamente interessata presuppone, da un lato, l’assenza di corrispettivo, dall’altro sostituisce lo spirito di liberalità con un interesse economico esterno al contratto.
Più in dettaglio, la causa gratuita esprime, come chiarito da autorevole dottrina, uno scambio empirico, un sacrificio (e conseguente vantaggio gratuito per la parte che ne subisce gli effetti benefici) che trova la propria giustificazione in vantaggi indiretti, i quali si pongono al di fuori della struttura contrattuale[6].
Occorre, allora, domandarsi se la gratuità celi anch’essa, nonostante la sussistenza di un interesse patrimoniale, una causa debole.
La risposta della dottrina più risalente era decisamente positiva. La stessa, anzi, leggeva proprio nel carattere reale dei principali contratti gratuiti tipici (es. comodato o deposito) il giusto contrappeso rispetto ad una causa debole. Il perfezionamento del contratto mediante la consegna della res (cd. datio rei) fungeva da contrappeso alla assenza di corrispettivo.
Al riguardo potrebbe, tuttavia, essere utile precisare come tali ultime considerazioni siano state, in alcune occasioni, messe in discussione. Le ragioni delle perplessità risiedono nella considerazione secondo la quale esistono contratti reali non necessariamente sempre gratuiti: si pensi, ad esempio, al mutuo. Fatto salvo il primo periodo dell’art. 1815 cod. civ. – il contratto di mutuo è normalmente e notoriamente oneroso.
Quest’ultima riflessione, tuttavia, secondo alcuni, può effettivamente esporsi a critica. Più precisamente, nonostante l’orientamento dottrinale prevalente tenda a qualificare il mutuo codicistico come contratto reale, si potrebbe ricordare come non siano mancate posizioni contrarie.
Siffatto diverso convincimento prendeva le mosse dall’art.1822 cod. civ. che – essendo rubricato promessa di mutuo – aveva ingenerato la convinzione che lo schema contrattuale fosse consensuale. Ancora, si era sostenuto che neppure gli schemi contrattuali extracodice del mutuo possono dirsi aventi natura pacifica. Si pensi al mutuo di scopo, al quale solo all’esito di alcune pronunce si è più serenamente attribuita la valenza di contratto consensuale[7].
Le perplessità – sia pure non sempre condivise – appena riportate tendono ad accen-tuarsi se si considera che la causa contrattuale ha subito, come accennato nel § 1, una profonda evoluzione. La stessa, infatti, su spinta più che altro giurisprudenziale, ha mutato la propria forma, passando da funzione economico-sociale ad funzione economico-individuale. Essa, volendo utilizzare l’espressione più comune, diviene sintesi degli in-teressi delle parti, espressione dello scopo pratico del negozio.
Tale mutamento ha indotto ad operare alcune riflessioni, riassumibili in pochi punti. In primo luogo, come rilevato da molti autori, il passaggio dalla funzione economico-sociale alla funzione economico-individuale ha comportato una rimozione dell’automatico appiattimento della causa contrattuale sul tipo legale.
Da una causa sempre lecita, perché individuata dal legislatore, che imponeva all’organo giudicante, in presenza di contratti tipici, di verificare solamente la rispondenza al tipo del negozio concretamente posto in essere dalle parti, si è passati ad una causa che risente sempre degli interessi più significativi che le parti mirano a realizzare mediante il singolo negozio. Proprio per tale ragione, oggi tanto il negozio tipico quanto quello atipico (privo di una disciplina legislativa) impongono un identico livello di attenzione sotto il profilo causale. Per entrambi gli schemi occorrerà un accertamento inerente gli interessi che compongono la causa contrattuale.
Conseguentemente, secondo un ulteriore e consequenziale orientamento, potrebbe risultare più difficile anche mantenere davvero una distinzione netta e chiara tra causa “forte” e causa “debole”, risultando più semplice disquisire di causa del singolo negozio.
Le considerazioni, appena schematizzate, hanno rappresentato, in buona parte, il substrato per il superamento dello storico binomio vendita-donazione nella produzione di effetti traslativi. Il passaggio dalla funzione economico-sociale alla funzione economico-individuale, come indicato, impone di valutare la sussistenza, liceità e coerenza degli interessi che si oggettivizzano nella causa rispetto ai principi costituzionali di ogni singolo negozio a prescindere dagli effetti che lo stesso sarà in grado di produrre e dal fatto che lo stesso sia tipico o atipico.
Pertanto, ha poco senso oggi affermare che, da un punto di vista causale, almeno in linea astratta, possano esserci ostacoli all’ammissibilità della gratuità atipica traslativa. La circostanza che i due negozi principali tipici idonei a produrre l’effetto reale del trasferimento della proprietà in via permanente (così escludendo, ad esempio, l’effetto reale soggetto ad obbligo di ritrasferimento tipico del mutuo) siano la donazione e la vendita ha poco rilievo, dal momento che anche tali negozi richiedono oggi una ricerca degli interessi che si oggettivizzano nella causa, al pari del contratto atipico eventualmente produttivo del medesimo effetto traslativo.
Secondo l’orientamento prevalente, tuttavia, le problematiche possono esser avvertite con maggior vigore sotto il profilo della struttura del negozio gratuito atipico con effetti reali.
Al fine di vagliare la tenuta della tesi della sua ammissibilità anche da questo punto di vista, può essere utile iniziare a domandarsi se si possa individuare sempre una struttura bilaterale anche nell’ottica dei contratti gratuiti “tipici”.
Più precisamente, la vendita presuppone sempre un contratto bilaterale. La donazione, volendo aderire all’orientamento accolto da autorevole dottrina, presuppone uno schema bilaterale in ragione della necessaria esistenza dell’accettazione da parte del donante[8]. Occorre, allora, comprendere se anche il negozio gratuito tipico abbia la stessa struttura e confrontarla con il negozio gratuito atipico. Successivamente si proveranno ad esaminare le problematiche inerenti gli effetti contrattuali, completando la sequenza inizialmente individuata (causa, struttura, effetti).
Partendo dalla prima questione, occorre considerare come il negozio gratuito tipico ad effetti obbligatori per eccellenza, il comodato, ha suscitato acceso dibattito.
Sulla base delle considerazioni precedentemente svolte in materia di datio rei – che funge da momento perfezionativo del contratto, rendendo così insufficiente il semplice consenso per la produzione di effetti – potrebbe sembrare, prima facie, superfluo affrontare anche tale problematica.
Ed, invece, al riguardo si può evidenziare come si siano sviluppate due tesi: una tesi che lo qualifica come contratto bilaterale a prestazioni non corrispettive, ed una tesi che, per contro, lo qualifica come contratto di attribuzione patrimoniale unilaterale.
Più precisamente, la dottrina aderisce più facilmente a tale ultima teoria e qualifica il comodato come contratto unilaterale con obbligazioni per il solo comodatario, la cui causa, coerentemente con quanto precedentemente indicato, si rinviene nella attribuzione gratuita del godimento temporaneo di un bene.
Tale ultima considerazione rende più semplice comprendere per quale ragione la dottrina tenda a ricondurre la gratuità, questa volta “atipica”, economicamente interessata – per la quale non si pone il problema della datio rei che, invece il legislatore normalmente richiede per la gratuità tipica e che, sulla base delle considerazioni precedentemente svolte, fino a poco tempo fa poteva costituire il giusto contrappeso ad una causa debole – nello schema dell’art. 1333 cod. civ., ovvero nel contratto con obbligazioni a carico del solo proponente. Esso viene definito da autorevole dottrina “neutro” e, pertanto, idoneo a produrre sia effetti obbligatori sia effetti reali[9].
Conseguentemente, non dovrebbero esserci ostacoli allora ad ammettere il negozio atipico ad effetto reale gratuito ma economicamente interessato neanche da un punto di vista strutturale.
La tranquillità di tale affermazione è, tuttavia, solo apparente. La stessa, infatti, può essere considerata il frutto di un acceso dibattito che, in parte, richiama le problematiche precedentemente esaminate in tema di causa contrattuale.
Ci si riferisce, in particolare al delicato rapporto tra l’art. 1333 cod. civ. e l’art. 1987 cod. civ., retaggio della distinzione tra causa debole e causa forte.
Più in dettaglio ed al riguardo, prima che intervenisse il mutamento dell’elemento cau-sale, parte della dottrina riteneva che in ragione della debolezza causale, i negozi gratuiti potessero trovare cittadinanza nell’ordinamento giuridico solo a condizione che fossero previsti dal legislatore. Tale considerazione nasceva dalla convinzione a mente della quale il vaglio di ammissibilità della gratuità atipica dovesse passare attraverso lo schema della promessa unilaterale di cui all’art. 1987 cod. civ., che, secondo un orientamento costante rappresenta un numerus clausus di ipotesi.
Non si consentiva ancora, in altri termini, di modellare tale forma di gratuità sullo schema dell’art. 1333 cod. civ. Pertanto il negozio non era ammissibile in quanto non si riteneva ancora accettabile una lettura combinata degli artt. 1987, 1322 e 1324 cod. civ. e, dunque, si preferiva rispettare il carattere tassativo della norma e non estendere le ipo-tesi di negozio unilaterale a mezzo dell’autonomia negoziale[10].
Il rapporto tra autonomia negoziale ed appiattimento del negozio gratuito atipico sul modello dell’art. 1987 cod. civ., inoltre, avrebbe sicuramente comportato, come conseguenza, una ingiustificata ingerenza nella sfera giuridica di un determinato soggetto, a prescindere dalla sua volontà, in ragione del carattere prettamente unilaterale dello schema della promessa.
Al fine di sconfessare il predetto rischio, occorre, tuttavia, rilevare come parte della dot-trina avesse sin da subito invocato gli artt. 649 cod. civ. 1411 cod. civ. e 1236 cod. civ. .
Si era, in altri termini, cercato di estrapolare un profilo di legittimazione muovendo dalla previsione normativa di rifiutabilità degli effetti e dalla considerazione a mente della quale nessun ostacolo può essere davvero ravvisato nel momento in cui gli effetti prodotti nella altrui sfera giuridica (sebbene senza consenso) siano favorevoli e positivi.
Sulla base di tale ultimo orientamento si è finalmente ipotizzata la possibilità di vagliare l’ammissibilità della gratuità atipica a mezzo dell’art. 1333 cod. civ., come precedentemente accennato.
Lo schema, infatti, oltre ad essere “neutro”, presenta numerosi tratti di diversità rispetto allo schema delle promesse unilaterali, pertanto non può esser considerato un suo doppione.
Più precisamente, secondo una prima visione, non può esservi nessuna contrapposizione tra i due schemi proprio in virtù della scelta legislativa di considerarli separati. L’art. 1333 cod. civ. potrebbe, infatti, essere qualificato come “uno dei casi previsti dalla legge”, una ipotesi tipica.
Un secondo orientamento, ancora, ha sostenuto che lo schema di cui all’art. 1333 cod. civ. presuppone necessariamente una expressio cause sin dal momento genetico del suo utilizzo, in ragione della sin dall’inizio ricordata necessaria sussistenza della giustificazione causale per tutti i negozi giuridici.
Viceversa, gli artt. 1987 e ss ed in special modo la ricognizione di debito, si reggono su una presunzione di sussistenza della causa e dell’an del rapporto fondamentale, al fine di giustificare quella peculiare astrazione processuale che si concretizza nella ben nota inversione dell’onere probatorio[11].
La acclarata diversità dello schema del contratto con obbligazioni a carico del solo proponente rispetto alla promessa unilaterale consente, da un lato, di superare il problema della incompatibilità tra negozio gratuito atipico e tipicità delle promesse, che, come precedentemente indicato impediva all’autonomia negoziale di dar vita a tale contratto ad effetto reale.
Dall’altro, tuttavia, riapre nuovamente il problema della intangibilità della sfera giuridica dell’oblato con riferimento all’effetto (forte) traslativo.
Infatti, nonostante il nomen iuris faccia propendere per uno schema contrattuale bilaterale – sebbene alternativo rispetto alla reciprocità di scambio di atti negoziali recettizi (o prenegoziali, a seconda dell’orientamento preso in considerazione) tipico dell’art. 1326 cod. civ. – un consistente orientamento dottrinale e soprattutto giurisprudenziale continua a qualificarlo alla stregua di un negozio unilaterale.
Più precisamente ed al riguardo, occorre considerare come, intorno alla struttura dell’art. 1333 cod. civ., si siano sviluppati innumerevoli filoni interpretativi, i quali, in uno sforzo di sintesi, possono essere riassunti estrapolando da essi due principali teorie: la teoria cd “contrattualista” e la teoria del negozio unilaterale.
La prima corrente di pensiero vede nello schema del contratto con obbligazioni a carico del solo proponente, in coerenza con la rubrica della norma, un vero e proprio contratto per tre ordini di motivi.
In primo luogo, la norma è collocata nel Titolo del codice dedicato ai contratti. Ancora, la circostanza che l’oblato non esprimerebbe alcun consenso esplicito mediante regolare accettazione non comporterebbe il venir meno della struttura bilaterale. Ciò in quanto, il legislatore, prevedendo il meccanismo del rifiuto, si sarebbe semplicemente limitato ad inserire nel codice una ulteriore modalità di conclusione del contratto speciale, la quale andrà ad unirsi alle più classiche ipotesi di cui all’art. 1327 cc. Per una fictio iuris, dunque, il mancato rifiuto andrebbe considerato alla stregua di vera accettazione. Si tratterebbe, pertanto, di un “accordo a struttura leggera”. I riflessi benefici di siffatta ricostruzione sono innumerevoli: non solo non si porrebbe nessun problema in relazione al principio di intangibilità dell’altrui sfera giuridica, ma, in più, lo stesso schema contrattuale, in ragione dell’espressione del consenso dell’oblato a mezzo del mancato rifiu-to/accettazione tacita, consentirebbe con tranquillità di produrre nella sua sfera giudica ogni tipo di effetto e non, solamente, di assumere nei suoi riguardi una obbligazione.
Alla predetta visione, tuttavia, se ne è presto contrapposta un’altra, la quale, per contro, non dà peso alla rubrica della norma e, pertanto, annovera l’art. 1333 cod. civ. tra le dichiarazioni negoziali unilaterali.
La qualificazione del predetto schema come negozio unilaterale muove, ovviamente, dalla considerazione a mente della quale il mancato rifiuto dell’oblato non meriti di essere parificato ad una accettazione tacita.
Secondo i sostenitori di tale visione, al più, l’assenza di rifiuto è in grado di consolidare gli effetti prodotti dal negozio unilaterale, il cui perfezionamento è, tuttavia, subordinato esclusivamente alla conoscenza che di questi ne abbia avuto il destinatario.
Tale situazione mal si concilia con il meccanismo di operatività del principio del consenso traslativo, racchiuso nell’art. 1376 cod. civ. A mente di tale norma, nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà per una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato.
Se, dunque, il mancato rifiuto si inserisce in uno schema già perfezionato, il principio – generale ma ‘disponibile’ – sembra non operare, imponendo alle parti una – mal vista nel nostro ordinamento, a differenza di quello tedesco – scissione tra titulus e modus adquirendi, e, dunque, la formazione di un atto di adempimento separato che trovi giustificazione causale nel negozio unilaterale per ovviare alla mancanza di scambio di consensi.
La dottrina ha ovviato a questa problematica richiamando le stesse considerazioni sopra esposte in materia di promessa unilaterale.
Si sostiene che possa essere prodotto l’effetto reale forte direttamente a mezzo dello schema di cui all’art. 1333 cod. civ. senza richiedere un atto traslativo separato poiché l’effetto reale è favorevole e si traduce in un incremento patrimoniale.
L’obiezione a mente della quale l’effetto reale forte non sarebbe mai del tutto favorevole in virtù delle responsabilità ed oneri connessi alla titolarità del diritto reale è stata superata dalla considerazione a mente della quale tali effetti negativi sarebbero solamente “riflessi, indiretti”[12].
Tale ultima spiegazione, tuttavia, ancorché accolta a livello dottrinale, continua a suscitare acceso dibattito in giurisprudenza ed, in particolare, tra giudici di merito, i quali tendono a fuggire giuridicamente da ogni tentativo di raggirare il principio di intangibilità dell’altrui sfera giuridica che, nonostante l’escamotage degli effetti negativi riflessi, non vede di buon occhio alcuna forma di “trasferimento” della proprietà dei beni mobili ma soprattutto immobili senza che possa individuarsi un esplicito consenso del soggetto a favore del quale dovrebbe avvenire il trasferimento o, più in generale, l’acquisizione del bene[13]. Si potrebbe, pertanto, conclusivamente ritenere che, per la dottrina, la gratuità economicamente interessata può dirsi oggi ammissibile anche da un punto di vista strutturale. Per la giurisprudenza maggioritaria, per contro, alla stessa deve essere negata ancor oggi cittadinanza.
La ricostruzione sin qui operata si spera possa fungere da strumento per meglio comprendere la ratio di alcune riflessioni che interessano il caso concreto che si andrà a breve ad esaminare.
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Tar Piemonte n. 368 del 2018: dalla acquisizione sanante alla rinuncia abdicativa passando attraverso la rinuncia traslativa. Un possibile confronto con il negozio gratuito atipico
3.1. Fatto.
Nella sentenza in commento il Tar Piemonte è stato chiamato a pronunciarsi su una controversia concernente un terreno agricolo, sito nel Comune di C. . Il predetto terreno era stato individuato, assieme ad altri, per la realizzazione di un progetto di pubblico interesse.
Pertanto, il Comune aveva preso contatti con i proprietari dei suoli interessati al fine di valutare se fosse possibile addivenire ad una cessione bonaria che, notoriamente, oltre ad elidere le fasi della sequenza espropriativa, appare economicamente più vantaggiosa per il privato cedente. Il legislatore, infatti, ha inteso incentivare l’uso di tale istituto avente carattere deflattivo, garantendo al privato una maggiorazione dell’indennità d’espropriazione. In tale contesto, la proprietaria del terreno, divenuta in giudizio parte ricorrente, aveva fornito la propria disponibilità alla cessione gratuita mediante la stipula di un “pre-accordo”, funzionale all’acquisizione del terreno per garantire un ampliamento della strada ed ottenere, così, una larghezza dell’asfalto a sei metri.
Più precisamente, il terreno sarebbe servito <<per l’asservimento dell’area necessaria ad ampliare la strada fino ad ottenere una larghezza d’asfalto a sei metri. La proprietaria [inoltre, richiedeva] che in occasione della prossima variante del PRGC [venisse] inserita la possibilità di realizzare un piccolo fabbricato residenziale[14]>>. L’amministrazione, stipulando anche con altri proprietari il predetto tipo di accordo, prendeva possesso delle aree necessarie alla realizzazione del progetto, omettendo la predisposizione della cd. “occupazione d’urgenza” degli immobili.
Al riguardo, occorre precisare che negli accordi bonari stipulati dal Comune anche con altri proprietari, erano stati individuati i criteri di indennizzo.
La PA, dunque, solamente all’esito della verifica della effettiva superficie occupata a danno di ciascuno dei proprietari interessati, avrebbe determinato le “indennità di espropriazione”. Pur tuttavia, la ricorrente/proprietaria del terreno agricolo, lamentava la circostanza di non esser mai stata contattata a tale scopo poiché l’Amministrazione riteneva che avesse acconsentito alla cessione a titolo gratuito, senza, dunque, possibilità di ottenimento di alcuna indennità.
La stessa ricorrente, ancora, rammentava come non fosse mai stato emesso nessun decreto di esproprio e, al di là del semplice pre-accordo, non fosse mai stato stipulato alcun atto traslativo.
Su tali basi la stessa, mediante difesa tecnica, aveva avanzato alla PA richiesta di restituzione del fondo ovvero di risarcimento del danno, senza successo.
Più precisamente, la ricorrente impugnava la delibera della Giunta Municipale (recante indicazione dei “pre-accordi” stipulati anche con altri proprietari) definendo la stessa << lesiva nella misura in cui non riconosce ad essa alcun indennizzo: nell’atto introduttivo del giudizio […]essa [chiedeva pertanto] al Tribunale di annullare la delibera medesima e, in via risarcitoria, di accertare e dichiarare tenuta l’Amministrazione comunale alla reintegrazione in forma specifica del danno patito dalla ricorrente con conseguente restituzione della parte di terreno acquisita dal Comune di Cherasco senza titolo, ovvero, in subordine, condannare l’Amministrazione al risarcimento del danno per equivalente monetario in misura non inferiore ad E. 5848,00 oltre interessi dal giorno dell’occupazione illegittima al saldo, oltre alla rivalutazione monetaria[15]>> . La ricorrente, successivamente, rinunciava a richiedere l’annullamento della delibera di Giunta Municipale, insistendo solo per l’avanzamento di domande risarcitorie. Emergeva dagli atti, inoltre, che la ricorrente aveva venduto la restante parte del fondo. La controversia, pertanto, concerne più che altro l’ammissibilità o meno della domanda risarcitoria.
3.2 – Diritto.
Al fine di fornire una risposta al quesito, implicitamente posto dalla ricostruzione in fatto, il Tar Piemonte ha operato una analisi di alcuni istituti che, pur essendo necessariamente inseriti in una cornice prettamente inerente il diritto amministrativo, presentano innumerevoli punti di contatto con il diritto civile.
Il Tar, chiarendo che – trattandosi in questo caso di (come si vedrà più avanti, “vecchia”) occupazione appropriativa (definita anche acquisitiva, che avviene, ad esempio, in ipotesi di assenza ab initio del provvedimento autorizzativo di esproprio o per scadenza dello stesso) e non usurpativa (che sussiste, ad esempio, quando l’occupazione è ab origine illegittima poiché priva perfino della dichiarazione di pubblica utilità) – la giurisdizione spetta al GA, ricostruisce l’evoluzione che ha interessato la tematica della occupazione dei fondi privati da parte della pubblica amministrazione.
Il Collegio ricorda come la Corte di cassazione, in particolare con sent. n. 1464/1983, abbia acconsentito alla acquisizione della proprietà da parte di quella Pubblica Amministrazione, qualora la stessa abbia dato vita ad una irreversibile e totale trasformazione del fondo.
Più precisamente, in assenza di un dato normativo chiaro, l’istituto della occupazione appropriativa, di creazione pretoria, è stato oggetto di acceso dibattito.
La Corte di cassazione, partendo dal presupposto che non possono coesistere due diritti di proprietà (uno sorgente in capo alla PA ed uno sorgente in capo al privato) affermava che all’esito della trasformazione irreversibile del fondo del privato, il diritto di proprietà di quest’ultimo venisse svuotato di significato.
Su tali basi, si riteneva che, all’esito dello svuotamento del diritto del privato, si verificasse una acquisizione (a titolo originario e non traslativo) del diritto di proprietà attraverso l’ipotizzazione di una sorta di un nuovo “modo di acquisto originario atipico”.
Le difficoltà ricostruttive di questa “nuova tecnica acquisitiva”, spinsero a ricercare una spiegazione civilista, poi individuata nello schema offerto dalla accessione invertita di cui all’art. 938 cod. civ. .
Norma che, notoriamente, consente l’acquisizione della porzione di terreno altrui nella quale si è “inavvertitamente” sconfinati al momento della costruzione di un edificio.
In verità, tale ricostruzione si espose ad innumerevoli critiche, schematizzabili in due principali questioni: in primo luogo, il comportamento tenuto dalla pubblica amministrazione difficilmente risultava rispondente a quello tenuto “in buona fede” dal soggetto che usufruisce dell’istituto di cui all’art. 938 cod. civ.; in second’ordine, l’istituto della accessione invertita richiede che il privato “usurpato” abbia tenuto una condotta passiva, impassibile, dinanzi al comportamento in buona fede dell’altro soggetto. Nell’occupazione acquisitiva, per contro, il comportamento del privato risultava irrilevante.
Le critiche così succintamente riportate, spinsero a ricercare una diversa giustificazione alla condotta acquisitiva.
La stessa veniva individuata, in alcuni casi, nella considerazione secondo la quale con essa si darebbe vita ad una “espropriazione sostanziale”.
Secondo altro e diverso orientamento, sarebbe stato opportuno invocare, ove possibile, visti i requisiti dell’istituto, l’acquisto ad usucapionem da parte della pubblica amministrazione.
La definizione,via via divenuta più chiara dell’istituto, ha comportato, come conseguenza, la necessità di distinguerlo dalle ipotesi (inconferenti per la risoluzione del caso in esame, ma ricordate anche nel corpo della sentenza in commento) in cui, in verità, si verta nel caso di occupazione usurpativa; anch’esso istituto di creazione pretoria che, come già indicato, presuppone l’assenza totale anche del provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità (cd. occupazione usurpativa pura) o, in alternativa, la sua sopravvenuta inefficacia o il suo annullamento in sede giurisdizionale (cd. occupazione usurpativa spuria).
Più precisamente, benché, dal mero rilievo descrittivo, la linea di demarcazione tra i due istituti possa apparire netta, la stessa si presenta particolarmente sottile.
Come chiarito dal Cds n. 5844 del 2011, in verità, sotto il profilo giurisdizionale, la differenza tra i due istituti rimarrebbe solamente per le ipotesi di occupazione usurpativa pura. Solo queste ultime sarebbero attribuibili al giudice ordinario.
Per quel che concerne, ancora, il profilo risarcitorio, occorre considerare come entrambi gli istituti diano luogo ad un illecito permanente.
La differenza si coglie sotto il profilo del dies a quo di commissione dell’illecito: in caso di occupazione usurpativa, la decorrenza dovrebbe esser fatta coincidere con il momento di immissione nel possesso. Nell’ipotesi, per contro, di occupazione appropriativa, il dies a quo va individuato nella scadenza del termine di occupazione legittima del terreno[16].
Tale ultima distinzione non è priva di rilievo per l’indagine in esame. L’esatta identificazione del dies a quo dell’”illecito” rileva sotto il profilo della quantificazione dell’indennizzo o del risarcimento.
La dicotomia indennizzo/risarcimento non è casuale, ed, anzi apre la strada alla risoluzione di due ulteriori profili problematici dell’istituto in esame: in primis, la quantificazione economica del danno subito dal privato, tanto nella ipotesi di occupazione usurpativa quanto nella ipotesi di occupazione acquisitiva; in secundis e conseguentemente, la codificazione delle predette ipotesi di occupazione illegittima.
Con particolare riferimento al profilo economico inerente all’istituto pretorio della occupazione acquisitiva, occorre considerare come la dottrina abbia più volte affermato che, a seguito della mancata emanazione del decreto di esproprio, la perdita della proprietà da parte del privato configuri una ipotesi di illecito ex art. 2043 cod. civ., da risarcire nel termine di prescrizione di cinque anni a partire, secondo l’orientamento più accreditato e come precedentemente indicato, dal momento di verificazione dell’illecito e, dunque, dalla trasformazione del fondo.
Più precisamente, per quel che concerne i criteri di quantificazione, occorre considerare come sin dai primi anni Novanta siano intervenute numerose pronunce della Corte Costituzionale e dalla Corte di Strasburgo, con le quali si è data vita ad una evoluzione – quasi circolare – degli orientamenti inerenti il criterio utilizzabile per identificare il debito della pubblica amministrazione.
Dall’utilizzo del parametro del valore venale del bene espropriato, si è passati attraverso l’esigenza di attribuire al privato il medesimo valore che si sarebbe dovuto corrispondere in caso di emanazione del decreto di esproprio, per poi tornare nuovamente al valore venale o, meglio commerciale dell’immobile all’esito della sentenza n. 348 del 2007 della Corte Costituzionale.
La strada per l’individuazione di criteri precisi non è stata meno impervia nei sempre più frequenti casi si occupazione usurpativa.
Più precisamente, al riguardo occorre considerare come a mezzo dell’art. 5 bis della L. n. 359/92, ricordato la sentenza in commento, si fosse acclarato che <<non sussistevano gli estremi per ritenere operante il meccanismo acquisitivo del bene realizzato dalla amministrazione [nelle ipotesi di occupazione usurpativa, le quali] non poteva[no] dirsi rispondent[i] ai fini pubblici; conseguentemente e correlativamente neppure si verificava l’effetto estintivo del diritto di proprietà del privato, che poteva chiedere la restituzione del bene.
Con riferimento alla fattispecie in esame, allora, la perdita della proprietà in capo al privato si determinava non per effetto dello “svuotamento” del diritto, bensì per effetto della (eventuale) domanda risarcitoria con la quale il privato chiedeva di essere risarcito dal valore del terreno, stante che una simile domanda conteneva e comportava una implicita rinuncia al diritto dominicale con valenza meramente abdicativa e non traslativa del diritto, dovendosi conseguentemente escludere che effetto automatico di tale rinuncia fosse costituito dall’acquisto del fondo in capo all’ente pubblico occupante […]In tal caso, il risarcimento, proprio perché non collegato alla necessità di realizzare una finalità pubblica, doveva essere liquidato secondo i criteri ordinari e non secondo i criteri indicati nell’art. 5 bis della L. 359/92[17] >>.
Dunque, a conti fatti, si attribuiva al privato, in particolare in ipotesi di occupazione u-surpativa pura, il diritto di richiedere <<in caso di occupazione non preceduta da dichiarazione di pubblica utilità, una tutela risarcitoria per equivalente commisurata al valore venale del bene, anziché la sola tutela restitutoria […]Tale ragionamento riposa sul fatto che la manipolazione del bene connessa alla realizzazione dell’opera da parte della Amministrazione ne comportasse la inutilizzabilità e, dunque, la perdita>>.
La ricostruzione sin qui operata si scontrava con il dato normativo, mancante di ogni riferimento chiarificatore del fenomeno dell’acquisizione della proprietà da parte della pubblica amministrazione in mancanza della predetta dichiarazione.
A esempio, ai sensi dell’art. 3 L. n. 458/88, il legislatore aveva solamente riconosciuto <<[al] proprietario del terreno utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata,[il] diritto al risarcimento del danno causato da un provvedimento espropriativo dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato, con esclusione della retrocessione del bene[18] >>. L’art. 3 comma sesto, l. n. 662/96, introduttivo dell’art. 5 bis D L 333/92, ha disciplinato in via generale il risarcimento del danno dovuto al privato proprietario in dipendenza di “occupazioni illegittime”. Quest’ultima norma chiariva che lo stesso dovesse computarsi in ragione della media tra il valore venale del bene ed il reddito dominicale degli ultimi dieci anni, con una precisa maggiorazione.
Le norme, dunque, non solo non fornivano una guida sicura nella descrizione del fenomeno acquisitivo del diritto reale da un punto di vista civilistico, ma neppure distinguevano nettamente tra l’istituto della occupazione appropriativa e l’istituto della occupazione usurpativa, rimettendo alla elaborazione pretoria ogni sforzo ricostruttivo.
Non stupisce, allora, che il legislatore, su impulso del sistema sovranazionale, sia stato costretto ad elaborare un dato normativo più preciso, volto a disciplinare in modo più chiaro il fenomeno della occupazione illegittima, prima a mezzo dell’art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001 e poi dell’art. 42 bis del medesimo decreto. Più precisamente, con l’art. 43 sopra indicato, il legislatore, al fine di evitare che si diffondessero sempre di più forme di espropriazione larvata, indiretta, in assenza di un idoneo titolo legale, ha esplicitamente disciplinato una ipotesi di “occupazione provvedimentale”.
La stessa ha, in altri termini, “sostituito” il vecchio fenomeno sia della occupazione acquisitiva sia della occupazione usurpativa: ciò che conta, ai fini acquisitivi, ai sensi del primo comma della norma, è dunque solamente l’emanazione di un provvedimento amministrativo sanante; il comma terzo, per contro, contempla l’ipotesi in cui l’atto acquisitivo consegua ad un intervento giurisdizionale.
Il comma primo, non a caso recita che <<valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo di pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni>>.
Il comma terzo, ancora, chiarisce che <<…l’amministrazione che ha interesse o chi utilizza il bene può chiedere che il giudice amministrativo, nel caso di fondatezza del ricorso o della domanda, disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo>>.
La norma, tuttavia, sin dalla sua semplice formulazione, sollevò non pochi dubbi di legittimità costituzionale, in quanto si era dimostrata essere un modo “legalizzato” per giustificare, a conti fatti, ciò che rimaneva essere un comportamento illegittimo della pubblica amministrazione.
La Corte Costituzionale, infatti, dichiarò illegittima la disposizione, proprio perché in grado di normativizzare una forma di espropriazione sostanziale.
A questa scelta seguirono mesi di vuoto normativo, che la dottrina cercò di colmare con altri istituti civilistici, quali, ad esempio la specificazione. I tentativi, tuttavia, ebbero poco successo.
Basti pensare alla circostanza secondo la quale l’istituto della specificazione si rivolge, notoriamente, a beni mobili, mentre per contro le problematiche in esame inerivano ai beni immobili.
Il periodo di vuoto normativo fu poi colmato con l’introduzione dell’attuale art.42 bis, inerente l’acquisizione sanante.
La norma, al comma primo, dispone che, all’esito della valutazione degli interessi in conflitto, l’autorità ha la facoltà di utilizzare un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento espropriativo o dichiarativo di pubblica utilità e può disporre che esso sia acquisito al suo patrimonio indisponibile ma non retroattivamente. Al proprietario, all’esito di tale operazione, deve essere corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfettariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.
La norma presenta tratti particolarmente interessanti in quanto, da un lato, utilizza il termine indennizzo e fissa finalmente un criterio più preciso per la sua quantificazione. Dall’altro, chiarisce esplicitamente che l’acquisizione non è retroattiva, così sottraendosi alle censure di legittimità costituzionale che pure sono state sollevate all’esito della sua emanazione.
Tali chiarificazioni, ad ogni modo, non risolvono il problema, tutto civilistico, della acquisizione del diritto di proprietà in assenza di provvedimento amministrativo. Più precisamente, dalla lettura della norma nel suo complesso, non emergono neppure indirettamente indicazioni su quale sia la sorte del diritto di proprietà in “ogni caso” di occupazione illegittima. Pertanto, si sono sviluppati sul punto due diversi orientamenti. Secondo un primo orientamento, più recente e sostenuto nella sentenza in commento, l’avvenuta emanazione dell’art. 42 bis precluderebbe automaticamente al privato la possibilità di dismettere il diritto di proprietà e contestualmente ottenere il risarcimento del danno nelle ipotesi in cui non sia intervenuto un decreto di acquisizione sanante[19].
Pur tuttavia, la giurisprudenza sembra voler continuare a seguire un secondo e diverso orientamento – formatosi in epoca anteriore all’introduzione dell’art. 42 bis ed accolto anche dopo l’entrata in vigore delle modifiche normative – il quale propende per l’esistenza, anche nelle ipotesi in cui dovesse mancare una effettiva “acquisizione sanante”, di un fenomeno abdicativo.
Più precisamente, nel momento in cui il privato dovesse avanzare una pretesa risarcitoria a fronte di una occupazione illegittima con conseguente trasformazione del suolo, implicitamente abdicherebbe al proprio diritto di proprietà. Sussisterebbe, pertanto, una forma di incompatibilità ontologica tra la pretesa risarcitoria ed il mantenimento del di-ritto reale in capo al richiedente.
Su tali basi, dunque, si continuerebbe ad ipotizzare – al di fuori dei casi in cui il codice civile prevede questa ipotesi – l’esistenza di un negozio unilaterale non recettizio, consistente nella dismissione del diritto di proprietà, senza, tuttavia, che questo venga trasferito ad altri. Il privato realizzerebbe una mera rinuncia abdicativa. A tale atto negoziale unilaterale si ricollega unicamente l’effetto dismissivo, relegando ogni ulteriore conseguenza emergente dal predetto schema al ruolo di conseguenza indiretta e riflessa dell’atto in questione. La scelta di produrre l’effetto dismissivo compete esclusivamente al titolare della situazione giuridica oggetto di “smaltimento” senza che assuma rilievo il consenso di altri[20].
In tale aspetto si coglie, dunque, la differenza rispetto alla rinuncia cd. traslativa. Essa, per contro, presuppone da un lato l’esistenza di un contratto, dall’altro un effetto traslativo a favore di un preciso soggetto, individuato dal rinunziante. Il trasferimento del diritto è dunque voluto dal rinunziate a favore di un terzo.
3.3 – La rinuncia traslativa, il negozio gratuito atipico ed il problema del consenso.
A questo punto della trattazione ci si potrebbe provare a domandare se, effettivamente il “pre-accordo” stipulato dalla ricorrente possa essere qualificato come rinuncia traslativa o, meglio, come negozio gratuito atipico ad effetti traslativi e se, ancora, civilisticamente, sulla base della ricostruzione precedentemente operata sulla gratuità traslativa, sia veramente fattibile nel nostro ordinamento la rinuncia abdicativa extracodicistica.
Come inizialmente indicato in fatto, la ricorrente stipulava con il Comune una sorta di pre-accordo in forza del quale la stessa si mostrava disponibile alla cessione gratuita del proprio terreno.
L’accordo, pertanto e coerentemente con quanto statuito con la sentenza in commento, appare difficilmente qualificabile come vera e propria “cessione volontaria”, contratto che alcuni inquadrano nell’art. 11 della l. n. 241 del 1990 e che la dottrina maggioritaria attrae nell’orbita dei cd. “contratti pubblici”.
Dimenticando per un momento la cornice amministrativistica in cui si inserisce il caso in esame, si può tentare di inquadrare – in via puramente civilistica – la questione in un duplice modo.
In primo luogo, nulla esclude che, effettivamente un accordo come quello in esame venga incardinato nelle maglie della gratuità atipica traslativa precedentemente esaminata.
Come visto, attualmente il predetto schema contrattuale si modella sull’art. 1333 cod. civ.
Il proponente trasferisce il diritto reale all’oblato all’esito del suo mancato rifiuto, senza corrispettivo.
Il vantaggio economico indiretto – che consente di escludere a priori una inverosimile ricerca di uno spirito di liberalità – potrebbe essere individuato nella circostanza secondo la quale, come ricordato in fatto, la proprietaria del terreno aveva intenzione di costruire un piccolo fabbricato cosa che sarebbe divenuta possibile solo all’esito dei lavori programmati dal Comune, vista la destinazione agricola del fondo.
Più precisamente, il proponente vuole trasferire al terzo, pertanto il negozio unilaterale o – volendo proseguire con quanto precedentemente indicato – l’accordo “a struttura leggera”, pur essendo privo dello scambio di consensi preferibilmente contestuale di cui all’art. 1326 cod. civ., comunque produce un effetto che, in questo specifico caso, l’oblato ha implicitamente accettato e non rifiutato.
Il Comune, infatti, ha poi effettivamente usato una parte del terreno per l’ampliamento della strada, pertanto non si pongono, nel caso di specie, le problematiche inerenti l’esistenza di effetti negativi, sia pure indiretti e riflessi che l’effetto reale porta con sé.
Ancora, si potrebbe in realtà ritenere che la volontà espressa dalla ricorrente/proprietaria del terreno fosse una volontà rinunziativa.
Allora, su tali basi si potrebbe qualificare il negozio posto in essere come negozio unilaterale “rinunziativo” ad effetti reali. E ciò per una serie di ragioni.
In primo luogo, come già indicato, la rinunzia traslativa si inserisce in una cornice con-trattuale ed è facile ipotizzare che la proprietaria, con quell’accordo, abbia voluto abdicare al proprio diritto, ma lo abbia fatto a favore di un terzo ben individuato, il Comune, producendo così un effetto traslativo (gradito al Comune stesso).
Il rinunziate, infatti, sceglie il soggetto a favore del quale intende, per l’appunto, dismet-tere il proprio diritto, impedendone, così, anche una eventuale ed ipotetica estinzione. La rinunzia traslativa è, normalmente, atto negoziale a causa variabile, pertanto può ben essere sia onerosa sia gratuita e ciò consente di rendere il suo schema compatibile con la considerazione secondo la quale il Comune non avrebbe corrisposto alla ricorrente alcunché e neppure l’avrebbe dopo indennizzata. La qualificazione dell’accordo nei suddetti termini comporterebbe come conseguenza una necessità di respingere la richiesta risarcitoria avanzata dalla proprietaria.
Entrambe le ipotesi sin qui evidenziate, tuttavia, si scontrano con la considerazione – che richiede un ritorno nella dimensione amministrativistica e, dunque, un ritorno alle peculiarità del caso concreto che, occorre a questo punto ricordarlo, presuppone pur sempre un illecito della pubblica amministrazione – a mente della quale si ritiene per giurisprudenza costante che il privato, in ipotesi di occupazione illegittima del bene da parte della pubblica amministrazione, possa avanzare richiesta risarcitoria per il solo fatto della mancanza del regolare provvedimento autorizzativo (o, in alternativa, della stipula di un effettivo contratto di cessione volontaria) e che, così facendo, automaticamente abdichi al proprio diritto di proprietà.
Volendo considerare, come effettivamente precisato in fatto, che non era stato emanato nessun decreto di esproprio e volendo aderire alla posizione della ricorrente che lamenta la totale assenza di un effettivo atto traslativo della proprietà – circostanza che negherebbe, dunque, ogni valenza traslativa al pre-accordo, ponendo nel nulla i tentativi rico-struttivi prima esposti – si dovrebbe allora aderire anche all’orientamento giurisprudenziale che ricollega automaticamente alla richiesta risarcitoria del privato l’effetto “abdicativo” puro dell’immobile. Si dovrebbe, dunque, ritenere che la ricorrente abbia unilateralmente abdicato al proprio diritto a favore di alcun soggetto per il solo fatto dell’avanzamento della richiesta risarcitoria, senza ulteriori accertamenti.
Tale ipotesi, tuttavia, implicherebbe, specie se generalizzata, come conseguenza la possibilità per i privati di abdicare al proprio diritto di proprietà liberamente e non a favore di un terzo, anche in presenza, ad esempio di immobili fatiscenti o che richiedono ingenti attività manutentive, magari occupati anche per errore dalla pubblica amministrazione, senza che si sia operata in concreto alcuna ricerca dell’esistenza di un interesse pubblicistico alla acquisizione della proprietà.
Ricerca che, invero, come visto nella evoluzione storica, dovrebbe condurre alla rimo-zione delle forme di espropriazione sostanziale in favore di un controllo pubblico delle operazioni acquisitive da attuarsi mediante emanazione di un decreto sanate ex attuale art. 42 d.P.R 327/2001.
A ciò si aggiunge la pericolosa e civilistica considerazione secondo la quale, di fatto, i predetti immobili fatiscenti verrebbero acquisiti – secondo l’orientamento prevalente – a titolo originario/ex lege dallo Stato ai sensi dell’art. 827 cod. civ., senza dunque che quest’ultimo possa esprimere alcun consenso al riguardo[21].
Sebbene – occorre a questo punto precisarlo – sia la Pa ad aver occupato l’immobile illegittimamente, è pur sempre lo Stato ad acquisirne ex lege (e, dunque, automaticamente, a titolo originario e senza consenso) la proprietà, la quale solo successivamente dovrà poi essere ritrasferita alla pubblica amministrazione.
Tale soluzione, tuttavia, non solo collide con la ratio sottesa alla rinuncia unilaterale abdicativa dei diritti reali che si rinviene in norme codicistiche quali l’art. 1070 cod. civ. (sebbene esista un orientamento che vede in tale articolo una rinuncia bilaterale), ma impone un parallelo con le criticità emerse per la gratuità atipica traslativa. E’ vero che, come detto, la rinuncia abdicativa si presenta come dichiarazione negoziale secondo i più non recettizia in quanto priva di destinatario mentre, per contro, la gratuità atipica traslativa economicamente interessata presuppone pur sempre un altro soggetto/oblato.
Non sfugge nemmeno la considerazione secondo la quale un conto è la “gratuità atipica traslativa”, la quale si inserisce nei rapporti contrattuali tra privati; un conto è la rinuncia abdicativa e contestuale acquisto a titolo originario che, per contro, presuppongono un (non)rapporto tra privato ed ente pubblico.
Ma non si può non notare come, a conti fatti, tanto nell’uno quanto nell’altro caso, aderendo all’orientamento più che altro giurisprudenziale che vede l’art. 1333 cod. civ. come negozio unilaterale, la proprietà venga trasferita senza consenso.
Nel caso del negozio unilaterale, si produce un effetto reale che, nell’ipotesi di bene immobile necessitante di notevole manutenzione, produrrebbe più che un effetto favorevole diretto e negativo riflesso, un vero e proprio decremento patrimoniale.
Ma la stessa cosa accade nell’ipotesi di rinuncia abdicativa alla proprietà in pessimo stato di manutenzione ed automatico acquisto ex lege da parte dello Stato.
Prescindendo da ogni indagine (che pure andrebbe fatta) sulla causa di un siffatto atto negoziale unilaterale abdicativo, non si comprende per quale ragione debba esser posto nel nulla il principio della intangibilità dell’altrui sfera giuridica, specie se si considera che, nel caso del “trasferimento” mediante tecnica della “abdicazione/acquisizione ex lege”, ciò che vien leso non è solo il diritto dello Stato ad esprimere il consenso all’acquisto, ma anche l’interesse della collettività in generale.
Nel voler aderire, pertanto, all’orientamento giurisprudenziale che ostacola ancora la gratuità atipica traslativa, si vuole concludere anche per la non ammissibilità della rinuncia abdicativa pura e semplice, specie se inserita ancora oggi nelle procedure espropriative prive di decreto di acquisizione sanante, in ragione : a. della mancanza di consenso che, in questo caso più che mai, è avvertita; b. del rischio di veder pian piano proliferare un istituto che, pur nato nelle procedure espropriative sostanziali, rischia di prender troppo piede anche nel quotidiano. Il rischio, al riguardo, non è peregrino.
Infatti, la stessa sentenza in commento, ancora, in un passaggio motivazionale, chiarisce che <<… sono sempre più numerosi i casi in cui i privati proprietari manifestano l’intenzione di voler abdicare, con atto notarile, al proprio diritto di proprietà su un immobile, esattamente allo scopo di sottrarsi agli obblighi fiscali nonché agli obblighi di custodia e manutenzione che la proprietà di un bene immobile comporta, al punto che la questione è stata fatta oggetto dello studio civilistico n. 216 -2014/C dell’Ufficio Studi del Consiglio Nazionale del Notariato[22]>>.
Dunque, conseguentemente e conclusivamente, si dovrebbe ritenere superato anche l’orientamento giurisprudenziale che ammetteva la correlazione abdicazione-risarcimento prima dell’inserimento del nuovo dato normativo di cui all’art. 43 prima e 42 bis d.P.R. 327/2001 poi, in quanto: a. stride con l’orientamento giurisprudenziale che, per contro nega ancora cittadinanza alle forme di gratuità economicamente interessata atipica ad effetto reale; b. non è più sorretto, in ragione dei recenti interventi legislativi, dalla esigenza di regolare i rapporti privato-pubblica amministrazione in caso di occupazione illegittima.
3.4 – La conclusione del Tar Piemonte: la rinuncia abdicativa non è ammissibile.
Sulla base di considerazioni non lontane da quelle poc’anzi esposte, il Tar Piemonte ha respinto la richiesta risarcitoria della ricorrente, ritenendo che la rinuncia abdicativa dell’immobile non debba trovare cittadinanza nel nostro ordinamento giuridico.
Le argomentazioni possono essere sinteticamente riassunte in alcuni principali punti. In primis, l’introduzione di una norma come l’art. 42 bis d.P.R. n. 327 del 2001 dovrebbe, oggi, consentire di considerare superato l’orientamento giurisprudenziale che, a fronte di una occupazione illegittima da parte della pubblica amministrazione, implicitamente ipotizza l’esistenza di una rinuncia abdicativa del diritto di proprietà a prescindere dal dato normativo di cui al predetto art. 42 bis, il quale subordina l’acquisizione della proprietà in capo alla pubblica amministrazione non ad una volontà unilaterale del privato bensì ad un motivato accertamento dell’esistenza dell’interesse pubblicistico che giustifica l’occupazione.
Laddove, infatti, si intendesse attribuire ancora, nonostante il nuovo dato normativo, al privato un potere di abdicare alla proprietà in conseguenza diretta del risarcimento, si <<finirebbe per attribuirgli un abnorme potere di determinare in via unilaterale e, soprattutto, non necessariamente prevedibile l’andamento della procedura e le sorti del bene occupato, e si tratterebbe di un potere squilibrato perché foriero di gravi danni per la amministrazione occupante, la quale ciò nonostante nulla di concreto potrebbe opporre per bloccarlo, stanti gli effetti automatici ex lege che la rinunzia abdicativa produrrebbe.>>. Un potere, si potrebbe in questa sede aggiungere, che accentua il rischio già emerso con la gratuità atipica economicamente interessata, di veder diffondersi uno strumento che collide grandemente con il principio di intangibilità della altrui sfera giuridica.
Il collegio ricorda come i casi in cui il codice civile ha espressamente ammesso la rinunzia ad un diritto reale risultano accomunati dal fatto che, a fronte della rinuncia, la proprietà non resterebbe “acefala”, in quanto, trattandosi – il più delle volte – di diritti reali minori in comunione, si verificherebbe esclusivamente un accrescimento delle quote altrui.
Conseguentemente, l’analisi delle norme del codice non offrirebbe spunti sufficiente-mente forti che confermino la possibilità di rinunciare al diritto di proprietà su di un bene immobile senza contestuale trasferimento del diritto o consolidamento dello stesso in capo a terzi individuati/individuabili quale effetto esplicitamente voluto dal contraente/rinunziante.
Ciò in quanto, neppure rileva l’esistenza di una norma come l’art. 827 cod. civ., la quale si atteggia semplicemente a norma di chiusura delle disposizioni codicistiche che giustifica l’esigenza di non restare sprovvisti di una disciplina normativa nell’ipotesi in cui non si dovesse identificare il terzo in capo al quale veder continuare l’esistenza del diritto di proprietà.
Non è detto, infatti, si può aggiungere, che il diritto si estingua per perimento del bene ed il diverso istituto dell’occupazione, pensato per dirimere la controversia inerente i beni mobili, non può essere applicato anche per le ipotesi concernenti i beni immobili, salvo andare in contro alle stesse censure che si sono poste nel momento in cui dottrina e giurisprudenza hanno provato ad utilizzare l’istituto della specificazione all’esito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del d.P.R. 327/2001.
Ancora, quando anche si volesse chiudere un occhio sui risvolti negativi sin qui evidenziati, comunque resterebbe la considerazione secondo la quale appare difficile, come per contro è stato fatto dalla giurisprudenza precedente, trovare una effettiva correlazione tra la dismissione per rinuncia abdicativa e la richiesta risarcitoria.
La dichiarazione negoziale unilaterale produce come unico e solo effetto una perdita del diritto reale e della responsabilità/titolarità degli oneri/obblighi ad esso connessi, pertanto può apparire civilisticamente arduo far scaturire da tale atto un diritto patrimoniale qual è quello al risarcimento.
In ultima analisi, pur volendo dimenticare l’esistenza di tutte le problematiche sin qui evidenziate, resterebbe aperto l’ulteriore problema dell’inesistenza di un dato normativo che obblighi lo Stato a ritrasferire il bene alla Pa occupante.
Più precisamente, come detto, all’atto unilaterale dismissivo segue l’obbligo risarcitorio della Pa occupante.
Ma la proprietà del bene resterebbe pur sempre nelle mani dello Stato che, volente o nolente, lo acquista a titolo originario. La Pa, dunque, dovrebbe riacquistare il bene immobile dallo Stato e non è detto che ciò avvenga a titolo gratuito. Pertanto il privato sarebbe legittimato a dismettere, certo dell’ottenimento del risarcimento. La Pa occupante, per contro, potrebbe essere chiamata, per uno stesso “illecito”, ad una duplice elargizione: risarcimento al privato, corrispettivo da corrispondere allo Stato, che, come detto, ha acquistato perché è l’unico in grado di farlo ex art. 827 cod. civ.
Su tali basi, il Tar Piemonte, in assenza di decreto sanante, non ammette più la correlazione “abdicazione-risarcimento”, e, pertanto, sostiene che la ricorrente sia rimasta proprietaria del bene. Conseguentemente, nel respingere il ricorso, ha asserito che al più sarebbe residuato in capo alla ricorrente il diritto alla restituzione, qualora la stessa avesse continuato ad avanzare la relativa richiesta.
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Note
[1] Sul punto, tra tanti: Rolfi F., Funzione concreta, interesse del creditore ed inutilità della prestazione: la cassazione e la rielaborazione del concetto di causa in concreto, in Corriere giuridico, vol. 7; Barcellona M., La causa del contratto ed il “prezzo vile: giudizio causale e trasparenza negoziale, Nuova giurisprudenza civile commentata (La), 2016, n. 4, CEDAM, parte I. Ancora, si veda Roppo, V., Il contratto, 2011, Giuffré, vol. II, p. 341e ss; Galli, R. , Nuovo corso di diritto civile, 2017, CEDAM, Wolter Kluwer, p. 783 e ss; Cian G., Trabucchi A., Commentario breve al codice civile, 2011, CEDAM, artt. da 1321 a 1469bis; Bianca M. C, Diritto civile, 2000, Giuffré, vol. III , p. 458 e ss; Caringella F., Studi di diritto civile, 2011, Giuffré, vol. II, p. 1392 e ss.; Galgano F., Trattato di diritto civile, 2014, CEDAM, vol. II, p. 239 e ss.
[2] Sul punto, tra tanti, Santise M., Coordinate ermeneutiche di diritto civile, 2017, Giappichelli Editore, p. 275 e ss
[3] Così, Roppo V., op cit.
[4] Così, Chinè G., Fratini M., Zoppini A., Manuale di diritto civile, 2016/2017, Nel diritto editore, p. 1141 e ss.
[5] Così, Fratini M., Il sistema di diritto civile, 2017, Dike Giuridica Editrice, vol. III, p. 111 e
[6]Così, Fratini M., op. cit. , p. 111 e ss.
[7] Così, Fratini M., Il sistema di diritto civile, 2017, Dike Giuridica Editrice, vol. V, p. 231 e ss.
[8] Così, Torrente A., Schlesinger P., Manuale di diritto privato, 2017, Giuffré, p. 1261.
[9] Gazzoni F., Manuale di diritto privato, 2015, Edizioni Scientifiche Italiane, p. 840.
[10] Santise M., op. cit, p. 275 e ss.
[11] Roppo V., op. cit.
[12] Sul punto, tra tanti, Santise M., op cit e Chinè G., Fratini M., Zoppini A., op.cit.
[13] Sul punto anche: Bertelli F., Sulla pretesa irrealizzabilità di effetti traslativi mediante l’atto unilaterale soggetto a rifiuto ex art. 1333 cc., in Juscivile, 2019, 2, p 185 e ss.
[14] Sentenza n. 368 del 28/03/2018, Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Est. Ravasio.
[15] Citazione tratta da sentenza n. 368 del 28/03/2018, Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Est. Ravasio.
[16] Garofoli R., Ferrari G, manuale di diritto amministrativo, 2018/2019, Nel diritto editore, p. 1312 e ss.
[17] Citazione tratta da sentenza n. 368 del 28/03/2018, Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Est. Ravasio.
[18] Sentenza n. 368 del 28/03/2018, Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Est. Ravasio.
[19] Così, Garofoli R., Ferrari G., Manuale di diritto amministrativo parte generale e speciale, Nel diritto editore, 2018, p. 1303 e ss.
[20] Bellinvia M., La rinunzia alla proprietà, in Riv. Notariato, 1/2016, p. 8 e ss.
[21] Bellinvia M., op. cit., p. 14.
[22] Citazione tratta da sentenza n. 368 del 28/03/2018, Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Est. Ravasio.
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