Il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 35 del 12/01/2015, scandaglia alcune problematiche afferenti ai connotati ontologici e dogmatici dell’art. 38 del D. Lgs. n. 163 del 2006, disciplinante i controlli sul possesso dei cc.dd. requisiti morali in capo ai soggetti che concorrono nelle procedure ad evidenza pubblica.
Orbene, il Supremo Consesso si è trovato a decidere sulla opportunità di effettuare siffatti controlli anche nei confronti del soggetto ricoprente l’incarico di direttore tecnico, all’interno della impresa partecipante alla gara pubblica, le cui attribuzioni lavorative esulavano dal contesto realizzativo dell’appalto.
Tuttavia, prima di addivenire all’esame del percorso logico-giuridico sotteso alla risoluzione della quaestio iuris, è necessario enucleare taluni aspetti inerenti all’ambito legislativo in cui si inserisce il sistema dei controlli in materia di commesse pubbliche, anche al fine di comprenderne le dirette implicazioni pratiche.
Il testo di riferimento in materia è rappresentato dal Codice dei Contratti Pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (D. Lgs. n. 163 del 2006), attuativo delle Direttive dell’Unione Europea n. 17 e n. 18 emanate nel corso dell’anno 2004.
Al citato Codice è stato assegnato il gravoso onere di contemperare due contrapposte esigenze.
Se da un lato, infatti, il dettato normativo doveva identificarsi, come auspicato dal legislatore europeo, in un novero di previsioni (burocraticamente) semplificate e, al contempo, esaurienti, in maniera tale da velocizzare e razionalizzare le procedure di affidamento, dall’altro non poteva non prevedere un valido ed efficace sistema di controlli sui partecipanti alle gare che assicurasse il rispetto dei principi (di evidente matrice comunitaria) di “libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità” (art. 2, comma 1, D. Lgs. 163 del 2006).
Invero, i controlli de quibus assurgono ad un ruolo centrale specialmente in un contesto nazionale, come quello nostrano ove, non di rado, le Autorità giudiziarie constatano l’esistenza di imponenti ramificazioni della criminalità organizzata tra le pieghe del tessuto economico-finanziario.
Il ruolo preminente ricoperto dalla contrattualistica pubblica, nel panorama economico italiano, ha indotto le diverse compagini esecutive succedutesi al Governo ad intervenire più volte sulle previsioni legislative del Codice degli Appalti. Tra le novelle più significative merita, indubbiamente, cenno la Legge n. 106 del 2011, la quale ha esteso il criterio dell’autocertificazione alla dimostrazione dei requisiti e alla effettuazione dei controlli sul possesso dei requisiti di partecipazione alle gare da parte delle Stazioni Appaltanti. Dimostrazione che, ante novella, rappresentava un passaggio burocratico alquanto complesso che finiva soventemente con l’inficiare il principio della libera concorrenza.
Ciò detto, proprio il tema dei controlli sul possesso dei requisiti di partecipazione incarna il punctum dolens della vicenda di che trattasi.
In punto di diritto, è da premettere che il plesso ordinamentale a tutela degli appalti pubblici postula che la facoltà di prendere parte alle gare ad evidenza pubblica è subordinata al possesso di specifici requisiti di ordine generale (c.d. morali) e di requisiti di ordine speciale (idoneità professionale, capacità economico-finanziaria e tecnico-professionale) da parte dell’impresa che avanza domanda di partecipazione. Sotto il profilo ermeneutico, è di tutta evidenza che la funzione assolta da siffatte prescrizioni si rinviene nella necessità di instaurare una competizione corretta e leale tra i diversi soggetti in possesso delle qualità prescritte dal bando (c.d. lex specialis) o, in mancanza, di quelle richieste dall’ordinamento.
Nel caso specifico, l’oggetto della controversia è costituito dalla mancata produzione della dichiarazione sui requisiti di moralità da parte di uno dei direttori tecnici dell’impresa, rivelatasi successivamente aggiudicataria definitiva dell’appalto, ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. b) e c) del D. Lgs. n. 163 del 2006, la cui violazione è sanzionata con l’esclusione dalla procedura di gara. Difatti, l’art. 38, comma 1, del Codice dei Contratti Pubblici (D. Lgs. n. 163 del 2006) stabilisce che “sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti” i soggetti nei cui confronti è pendente procedimento per l’applicazione di una delle misure di prevenzione di cui alla Legge n. 1423 del 1956 o di una delle cause ostative previste dalla Legge n. 575 del 1965 (lett. b), nonché i soggetti nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta (lett. c).
In merito, il T.A.R., in prima istanza, asseriva che la riferita dichiarazione non era dovuta, argomentando che le funzioni del (rectius di quel) direttore tecnico erano “limitate e circoscritte alle specifiche attività relative ad un settore del tutto diverso da quello oggetto dell’appalto in controversia, mentre il riferimento dell’art. 38 del D. Lgs. n. 163 del 2006 alla figura del direttore tecnico riguarda solo coloro che rivestono tale posizione rispetto al settore operativo al quale la commessa attiene e non anche tutti i preposti tecnici a settori di attività comunque implicate nell’attività esecutiva dell’appalto”.
La questione si fonda, dunque, sulla perimetrazione delle azioni e dei poteri facenti capo ad un soggetto (in questo caso il direttore tecnico) ricoprente una particolare posizione apicale all’interno dell’impresa tale da poterne influenzare le strategie e le determinazioni con riguardo all’oggetto della commessa pubblica.
Relativamente ai confini che delimitano i controlli di cui all’art. 38 del Codice degli Appalti, con esplicito riferimento a quelli sui requisiti di ordine morale, si registrano due contrapposti orientamenti in seno alla più avvertita giurisprudenza.
La prima opzione ermeneutica, ancorata al dettato formale della norma, inclina nel ritenere che i controlli vadano effettuati nei confronti della pletora di soggetti previsti dal paradigma normativo dell’art. 38, tra i quali figurano anche i direttori tecnici, senza alcuna esclusione di sorta.
Altro orientamento, per converso, muove da un’ottica diversa, sostanziale, asserendo che i requisiti di ordine morale debbano essere posseduti dai tutti i soggetti che, anche se non espressamente indicati nella previsione dell’art. 38 del Codice, abbiano poteri tali da influenzare le decisioni e le strategie aziendali.
A quest’ultimo indirizzo ha prestato adesione l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, con sentenza n. 24 del 2014, ha ravvisato la ratio sottesa all’articolo in oggetto nell’esigenza di evitare che taluni soggetti, dipendenti o non dell’impresa, possano condizionare, in virtù del potere derivato dalla posizione ricoperta, l’attività decisionale e commerciale della stessa.
Orbene, nel caso in esame, il ricorrente, interpretando a suo vantaggio quanto asserito dall’Adunanza Plenaria, fondava la sua domanda sull’assunto che il direttore tecnico rappresentasse una figura apicale, al pari dell’amministratore, incaricato insieme a quest’ultimo dell’organizzazione e della gestione dell’impresa e dotato di peculiari poteri amministrativi e tecnici, indipendentemente dalla sua implicazione diretta o indiretta nei riguardi dell’attività oggetto dell’appalto.
Sulla scorta della centralità del ruolo, il ricorrente sosteneva, altresì, che sarebbe stato del tutto ingiusto sottrarre tale soggetto ai controlli di cui all’art. 38, poiché, detta ipotesi, si sarebbe sostanziata in una parziale abrogazione del citato articolo, tant’è che ben avrebbe potuto un’impresa partecipare regolarmente ad un appalto pur annoverando tra i suoi direttori tecnici soggetti pluripregiudicati la cui attività, tuttavia, non si sarebbe posta in relazione diretta con quella prospettata dall’appalto.
A dispetto delle motivazioni addotte dal ricorrente, il Consiglio di Stato si uniforma anch’esso a quanto statuito nella riferita sentenza pronunciata dall’Adunanza Plenaria offrendone, tuttavia, una interpretazione diversa da quella del ricorrente, e deducendo che i controlli sui requisiti di moralità ex art. 38 vanno effettuati solo nei confronti dei soggetti che direttamente possono incidere sullo svolgimento dell’appalto, e non anche nei confronti dei direttori tecnici il cui ruolo afferisce ad altre attività del tutto marginali rispetto a quelle dell’affidamento in essere. A detta del Supremo Consesso “Diversamente opinando, cioè se le dichiarazioni sul possesso dei requisiti di moralità fossero richieste a tutti responsabili tecnici presenti nell’impresa, si estenderebbe l’obbligo dichiarativo a soggetti non previsti dall’art. 38 D. Lgs. n. 163 del 2006 citato e si determinerebbe un’inammissibile applicazione analogica di cause di esclusione dalla gara, in violazione del principio di tassatività di cui all’art. 46, comma 1, del D. Lgs. n. 163 del 2006”.
Il Consiglio, infine, offre una interessante precisazione sul ruolo del direttore tecnico nell’ambito di un appalto di servizi, affermando che “anche in materia di servizi la posizione di direttore tecnico può trovare applicazione, nei congrui casi, ai fini della soggezione agli obblighi previsti dall’art. 38”.
Alla stregua di tale assunto, è dunque errato ritenere che il direttore tecnico, quale figura tipica degli appalti di lavoro, non possa comunque ricoprire un ruolo rilevante anche nell’ambito dell’esecuzione di un servizio, nel qual caso sarà inevitabilmente assoggettato ai controlli ex art. 38. Non sussiste, pertanto, automaticità tra appalto di servizi ed esclusione dei controlli sui requisiti di ordine morale nei confronti dei direttori tecnici laddove questi ricoprano il ruolo testè indicato.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento