1. Premessa – 2. Gli artt. 2390 e 2391 Codice Civile – 2.1. Ambito soggettivo – 2.2. Ambito oggettivo – 3. L’esercizio di attività concorrente – 3.1. L’attività concorrente in conto proprio – 3.1.1. L’assunzione della qualità di socio illimitatamente responsabile – 3.1.2. L’acquisto di partecipazioni societarie – 3.2. L’attività concorrente per conto altrui – 3.2.1. Il cumulo di cariche sociali – 3.3. L’autorizzazione dell’assemblea a compiere attività concorrente – 3.4. Responsabilità degli amministratori per violazione del divieto – 4. Il conflitto di interessi – 4.1. L’obbligo di dare notizia – 4.2. Il dovere di astensione – 4.3. L’applicabilità dell’art. 1394 c.c. – 5. Responsabilità degli amministratori.
1. Premessa.
Quando si parla di “cumulo di cariche sociali” si fa riferimento al fenomeno, sempre più diffuso, per il quale un amministratore ricopre la medesima carica in più società, anche tra loro concorrenti. La circostanza per la quale due società si trovino ad avere uno o più amministratori in comune determina in concreto, situazioni collusive e ciò è di facile comprensione se si pensa al fatto che l’amministratore che esercita in conto proprio o di terzi un’attività concorrente o che assume la qualità di socio illimitatamente responsabile, amministratore o direttore generale, in altra società concorrente, non è oggettivamente nella posizione di perseguire diligentemente l’interesse sociale e contemporaneamente svolgere un’attività che, proprio perché concorrenziale, soddisfa un interesse in contrasto con il predetto interesse sociale. Pertanto, un simile assetto di interessi, genera ex se situazioni di contrapposizione di interessi che possono alterare gli equilibri della concorrenza, per esempio instaurando un cartello a sbarramento degli altri operatori economici, o generando pratiche concordate, o nascondendo un controllo di fatto di una società nei confronti di un’altra, contribuendo così a creare fenomeni di concentrazione e abusi di posizione dominante.
2. Gli articoli 2390 e 2391 del Codice Civile.
2.1. Ambito soggettivo.
Il cumulo di cariche sociali è tendenzialmente visto come un comportamento illecito e lesivo della concorrenza, proprio in ragione della sua intrinseca idoneità a violare il disposto di cui all’art. 2390 c.c., nella parte in cui vieta all’amministratore di esercitare un’attività concorrente per conto terzi, nonché il disposto dell’art. 2391 c.c., nel caso in cui l’interesse dell’amministratore sia in contrapposizione con quello della società. Peraltro, è agevole ricordare che il divieto di concorrenza di cui all’art. 2390, che prima era riferibile soltanto alle ipotesi di assunzione della carica di socio illimitatamente responsabile in società concorrente ed all’esercizio di attività concorrente per conto proprio o di terzi, con la riforma del diritto societario, è stato esteso anche alle ipotesi di assunzione della carica di amministratore1 o di direttore generale. Il divieto trova applicazione altresì per i componenti del consiglio di gestione, in ipotesi di sistema dualistico, e per i membri del CdA, in caso di sistema monistico. Opinione convergente, sia in dottrina che in giurisprudenza, è quella per la quale anche gli amministratori di fatto non possono agire in conflitto di interessi né svolgere attività concorrente, proprio perché tali regole ineriscono al corretto esercizio dell’attività di amministrazione indipendentemente dalla qualifica formale del soggetto che esercita tale attività2. Secondo una costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, anche i liquidatori sarebbero sottoposti al medesimo divieto, non essendo la norma incompatibile con quella particolare situazione di conflitto di interessi tra il liquidatore e la società; infatti, le operazioni di vendita delle merci, per esempio, potrebbero essere notevolmente pregiudicate da un’attività concorrenziale del liquidatore. Per quanto concerne, invece, i direttori generali, si può fare accenno all’art. 2396 c.c., secondo il quale, le disposizioni che regolano la responsabilità degli amministratori, si applicherebbero anche anche ai direttori nominati dall’assemblea o per disposizione dell’atto costitutivo. Conseguentemente, siccome la ratio della disciplina in esame è quella di vietare lo svolgimento di attività concorrente ai soggetti che ricoprono uffici direttivi, anche ai direttori generali, sarebbero applicabili i divieti in esame3.
2.2. Ambito oggettivo.
Ai sensi dell’art. 2390 c.c. “Gli amministratori non possono assumere la qualità di soci illimitatamente responsabili in società concorrenti, né esercitare un’attività per conto proprio o di terzi, né essere amministratori o direttori generali in società concorrenti, salvo autorizzazione dell’assemblea. Per l’inosservanza di tale divieto l’amministratore può essere revocato dall’ufficio e risponde dei danni”4. Ciò vuole significare, per fare qualche esempio, che l’amministratore non può assumere la carica di socio in una società in nome collettivo, né la carica di socio gerente in una società in accomandita semplice o per azioni, né di socio in una società semplice, ovvero non può essere titolare, direttamente o indirettamente, di una ditta individuale operante in concorrenza con la società, né, tantomeno, assumere la carica di amministratore o di direttore generale in una società concorrente. In ogni caso, anche in assenza di una esplicita previsione di legge, si ritiene5 applicabile il divieto anche nell’ipotesi in cui l’amministratore si serva di soggetti terzi per il compimento di operazioni concorrenziali. Ad ogni modo, il divieto imposto dall’art. 2390 c.c. si applica in ipotesi di effettiva concorrenza tra le società, non invece in ipotesi di medesimo oggetto sociale6. Per quanto attiene al conflitto di interessi, invece, dal disposto dell’art. 2391 c.c. emerge una fattispecie diversa rispetto al cumulo di cariche sopra indicato, infatti, in quest’ultimo caso, si fa riferimento all’intera attività svolta dall’amministratore per conto della società concorrente, inficiante in re ipsa la prosecuzione del rapporto di amministrazione e, quindi, vietata dalla legge. Nel caso del conflitto di interessi si fa riferimento a ad una fattispecie più ristretta e cioè alla singola operazione sulla quale il consiglio è chiamato a deliberare per stabilire se rispetto al suo contenuto sia ravvisabile un conflitto di interessi attuale o potenziale con l’amministratore, il quale potrebbe trarne un vantaggio di natura patrimoniale. Di qui, le differenze tra le due norme appaiono chiare: il divieto di attività concorrente di cui all’art. 2390 c.c. sarebbe applicabile all’Amministratore unico, mentre il conflitto di interessi ex art. 2391 c.c. si rivolgerebbe ai membri del consiglio di amministrazione; e ancora, l’art. 2390 c.c. si riferisce ad un complesso di atti, pertanto inibisce tout court un certo tipo di condotta, mentre il conflitto di interessi, applicandosi con riferimento ad una singola operazione determinata o determinabile, si manifesta in sede di deliberazione assembleare. Pertanto, il divieto di attività concorrente comporta in capo all’amministratore un obbligo di non facere, mentre, al contrario, la norma sul conflitto di interessi implica un obbligo di fare, di duplice matrice: l’amministratore che si trova infatti in una situazione attuale o potenziale di conflitto di interessi è tenuto a darne tempestiva comunicazione agli altri amministratori ed al collegio sindacale ed ad astenersi dal compiere l’operazione.
3. L’esercizio di attività concorrente
Sebbene l’art. 2390 c.c. non fornisca una definizione di attività concorrente, sembra pacifico ritenere che per essa debba intendersi quella relazione di fatto esistente tra due soggetti che operano all’interno dello stesso mercato. In particolare, l’art. 2390 c.c. deve ritenersi applicabile non al singolo atto od al singolo affare realizzato dall’amministratore nello stesso mercato in cui opera la società, bensì a quell’attività sistematica e preordinata dalla quale risulta inequivocabile l’obiettivo di far apparire l’amministratore come un soggetto alternativo rispetto alla società. Inoltre, l’attività concorrenziale, per essere tale, deve necessariamente rivolgersi all’attività effettivamente svolta dalla società, non rilevando, invece, quelle attività che, sebbene ricomprese nello statuto, non vengono di fatto esercitate. In dottrina si è ritenuto che sono tra loro concorrenti due o più imprese che in un determinato periodo di tempo offrano o possano offrire (concorrenza potenziale) beni o servizi suscettibili di soddisfare, anche in via succedanea, lo stesso bisogno o bisogni simili, nel medesimo ambito attuale o immediatamente potenziale7.
3.1. L’attività concorrente in conto proprio
Per attività concorrente in conto proprio s’intende quell’attività direttamente imputabile all’amministratore, o perché svolta da lui personalmente, o perché da lui diretta, o ancora perché a lui sono diretti i risultati della sua realizzazione ad opera di terzi, siano essi collaboratori, lavoratori, o semplici prestanome. Tra queste rientrano l’assunzione della qualità di socio illimitatamente responsabile e l’acquisto di partecipazioni societarie e di obbligazioni in società concorrente.
3.1.1. L’assunzione della qualità di socio illimitatamente responsabile
L’articolo 2390 c.c. vieta all’amministratore di una società di assumere il ruolo di socio illimitatamente responsabile in altra società concorrente. La ratio di questo divieto risiede nel fatto che l’assunzione di una simile carica genera, com’è ovvio, una responsabilità molto ampia nonché un notevole potere di gestione. Sicché, il rischio che si incorre in una simile situazione è quello che l’amministratore, che per la natura del suo incarico viene normalmente a conoscenza di notizie riservate, inerenti anche ad operazioni strategiche di mercato, possa utilizzare tali conoscenze per far prevalere il proprio interesse o l’interesse della società di cui è socio in danno dell’interesse della società di cui è amministratore. Pertanto, l’acquisto di un rischio illimitato, secondo il legislatore, origina in ogni caso e comunque una situazione conflittuale che giustifica il divieto.
3.1.2. L’acquisto di partecipazioni societarie
Tra le attività concorrenti in conto proprio è annoverato altresì l’acquisto di partecipazioni di società concorrenti. In questo caso, la potenziale concorrenzialità da vietare riguarda l’ipotesi dell’amministratore che riveste la qualità di unico azionista o quotista in società concorrente. Pertanto, la presunzione di esercizio di attività concorrente è sostenuta da una condotta che si caratterizza non per il mero acquisto di partecipazioni finanziarie o per l’assunzione della qualità di socio di capitale in una società concorrente, bensì per il possesso totalitario o quasi totalitario delle azioni o delle quote in una società concorrente. L’acquisto di una simile posizione, infatti, determinerebbe da un lato, l’assunzione in capo all’amministratore del controllo assoluto della società concorrente e, dall’altro lato, l’assunzione della responsabilità illimitata per le obbligazioni della società, così da far presumere l’inevitabile presenza di condizionamenti nella gestione dell’attività sociale, essendo egli stesso l’unico destinatario dei risultati dell’attività svolta.
3.2. L’attività concorrente per conto altrui
Per attività concorrente per conto altrui, s’intende quell’attività, materialmente svolta o diretta dall’amministratore in nome e per conto terzi, che sia in concorrenza con l’attività della società di cui è organo. Per fare qualche esempio, rientrerebbero in questa ipotesi sia il caso dell’amministratore che agisce in qualità di rappresentante legale di altra società concorrente, sia il caso dell’amministratore che svolge una collaborazione continuativa o presta la propria opera alle dipendenze di una società concorrente. Per trovare applicazione il divieto di cui all’art. 2390 c.c., anche in questo caso si deve fare riferimento non già all’esercizio occasionale di attività concorrente per conto terzi, il quale potrebbe semmai integrare gli estremi della violazione del dovere di diligenza e fedeltà nello svolgimento dell’attività sociale e, quindi, una revoca dell’incarico per giusta causa, bensì all’intensità ed alle modalità con cui l’attività esercitata arrechi un beneficio alla concorrenza. Pertanto rientrano nella fattispecie sia la vera e propria gestione di affari nell’interesse altrui, sia l’attività interna che, sebbene non immediatamente diretta ad influire sul mercato, ha delle conseguenze concorrenzialmente rilevanti8.
3.2.1. Il cumulo di cariche sociali
Il cumulo di cariche sociali è quel fenomeno che si verifica quando due o più imprese hanno in comune uno o più amministratori9.
Su questo argomento la dottrina si spacca. Da un lato, troviamo coloro i quali ritengono che al cumulo di cariche sociali sia direttamente applicabile il disposto dell’art. 2390 c.c., nella parte in cui vieta di svolgere attività concorrente per conto terzi, dall’altro lato, si collocano, invece, coloro i quali ritengono che l’art. 2390 c.c., non sia sempre applicabile alle ipotesi di unioni personali tra società e questo perché, secondo questa parte della dottrina, amministrare una società non sempre equivale ad esercitare attività gestoria10. Tuttavia, tale opinione non può essere condivisibile. Infatti, anche se l’amministratore non partecipa direttamente alla gestione dell’attività oggetto dell’attività concorrente, le funzioni di cui rimane intestatario, anche dopo aver interamente delegato le proprie funzioni gestionali, rimangono momenti gestionali della società e ciò per il semplice motivo che il consiglio di amministrazione conserva comunque la propria competenza ad amministrare in modo concorrenziale rispetto alle attività poste dagli organi delegati11 e, conseguentemente, sebbene la propria attività non incide direttamente sulla posizione sul mercato, conserva un’attitudine ad influenzare sensibilmente la gestione della società concorrente. Inoltre, il Consiglio di Amministrazione, attraverso la delega, non viene privato tout court dei propri poteri di gestione, ma conserva una competenza ad amministrare concorrente con quella degli amministratori delegati, finanche sostitutiva nel compimento degli atti inerenti alle funzioni delegate.
3.3. L’autorizzazione dell’assemblea a compiere attività concorrente.
Il divieto di concorrenza di cui all’art. 2390 c.c. può essere rimosso dietro apposita autorizzazione da parte dell’assemblea. È quanto stabilito dal primo comma dell’art. 2390 c.c.. L’autorizzazione a compiere attività concorrente avviene normalmente, in sede di assemblea ordinaria, prima che l’amministratore intraprenda l’attività o, per l’ipotesi in cui l’esercizio dell’attività concorrente sia anteriore al conferimento dell’incarico, l’autorizzazione può essere contenuta nell’atto di nomina. Se è pacificamente ammessa l’autorizzazione tardiva, in quanto deve ritenersi possibile una deliberazione di questo tipo che abbia efficacia di ratifica della precedente posizione irregolare o comunque di rinuncia alle sanzioni stabilite dalla legge, controversa invece appare l’ammissibilità di un’autorizzazione implicita o tacita. Infatti la presunzione di consenso sancita dall’art. 2301 c.c. non sembra applicabile per via analogica alla fattispecie in esame, in ragione proprio delle modalità di formazione delle decisioni collettive all’interno della società per azioni, le quali, per la loro natura, sono incompatibili con un sistema di deliberazione assembleare tacito. Una deliberazione implicita può semmai ammettersi per il caso di delibera assembleare di nomina dell’amministratore da parte di una assemblea adeguatamente informata circa l’attività concorrenziale svolta dal nominando amministratore e della sua volontà di continuarne l’esercizio. Ma, in questo caso, l’autorizzazione, seppur implicita, deve ritenersi concessa soltanto con riferimento all’attività concorrenziale di cui l’assemblea era stata informata. Per ciò che attiene, invece, la durata dell’autorizzazione, la stessa si ritiene concessa irrevocabilmente per tutta la durata della carica, salvo comunque il diritto dell’assemblea di riservarsi espressamente la facoltà di revoca al momento della concessione dell’autorizzazione. L’esonero dal divieto di concorrenza può altresì essere previsto espressamente ed in via generale in una clausola dello statuto sociale. Secondo la Corte di Cassazione “L’inosservanza del divieto di concorrenza comporta l’obbligo dell’amministratore di dimettere la qualità o l’attività incompatibile al fine di non esporsi alla sanzione della revoca, salvo che abbia ricevuto autorizzazione o in forza di rituale delibera dell’assemblea dei soci oppure in forza di espressa clausola dello statuto.”12
Pertanto, ritenute pacificamente ammissibili le clausole statutarie di esclusione del divieto di concorrenza, è altrettanto pacifico affermare che una simile previsione sia fortemente limitativa della possibilità di revoca e ciò perché una revoca dell’autorizzazione potrebbe in quel caso prospettarsi soltanto a seguito di apposita deliberazione dell’assemblea straordinaria modificativa dell’atto costitutivo.
3.4. Responsabilità degli amministratori per violazione del divieto
L’inosservanza del divieto è vista dal legislatore come giusta causa di revoca dall’ufficio. A tenore del secondo comma dell’art. 2390 c.c., infatti, “l’amministratore che non osservi il divieto di concorrenza può essere revocato dall’ufficio e risponde dei danni”. Per ciò che attiene invece al risarcimento dei danni, diverse sono le vie percorribili. Da una parte si sostiene la ricorribilità alla valutazione equitativa ex art. 1226 c.c., da un’altra parte, invece si è sostenuto che “il danno da illecita concorrenza non può essere escluso per il solo fatto che l’imprenditore vittima della concorrenza abbia visto egualmente aumentare le proprie vendite da un anno all’altro. Il danno può anche consistere nel minore incremento degli affari dovuto all’attività concorrenziale illecita, nel senso che senza tale attività lo sviluppo degli affari avrebbe avuto ancora maggior ampiezza”.13 Entrambe le strade, tuttavia sono ardue da percorrere, in quanto, nell’ipotesi di liquidazione equitativa del danno, è necessaria la prova dell’esistenza del danno stesso, mentre nel secondo caso, e comunque in ogni caso, è necessario provare che il pregiudizio sia derivato specificatamente da attività concorrenziale dell’amministratore e non da altre situazioni o circostanze ricollegabili, il che, nella prassi, finisce per essere una probatio diabolica.
4. Il conflitto di interessi
L’art. 2391 c.c. è la norma sul confitto di interessi dell’amministratore e riguarda l’intera attività svolta dallo stesso per conto della società. È un dato pacificamente accettato in tutti gli ordinamenti quello secondo il quale l’amministratore svolge la propria attività sulla base di un rapporto fiduciario che lo lega alla collettività dei soci per il tramite della società. Conseguentemente, le linee guida da seguire da parte degli amministratori nella gestione dell’attività sociale devono essere necessariamente informate ai principi di correttezza e l’attività degli stessi deve perseguire esclusivamente l’interesse della società amministrata. In caso di unioni personali tra società, tuttavia, l’amministratore viene in possesso di notizie riservate in ragione del proprio ufficio e tale circostanza inevitabilmente genera situazioni collusive poiché quelle informazioni possono facilmente essere sfruttate per orientare l’intera gestione della società che amministra in danno della stessa e a vantaggio dell’attività concorrente esercitata. Per queste ragioni il legislatore, con la norma in esame, ha cercato di eludere il problema alla radice. Infatti, in ipotesi di titolarità di interessi propri o di terzi in grado di inficiare il corretto esercizio della propria funzione gestoria, all’amministratore è sottratto qualsiasi potere valutativo circa l’esistenza potenziale o attuale del conflitto d’interessi, in quanto la norma gli impone un duplice ordine di incombenti: da un lato, l’obbligo di dichiarare il proprio interesse in maniera circostanziata e precisa, dall’altro lato, se si tratta in particolare di Amministratore Delegato, il dovere di astenersi dal compiere personalmente quell’operazione e di investire il Consiglio di Amministrazione.
4.1. L’obbligo di dare notizia
Il primo obbligo prescritto dall’art. 2391 c.c. a carico dell’amministratore “portatore di interesse” è quello di darne notizia agli altri amministratori ed al collegio sindacale. Conseguentemente e indipendentemente dalla attualità o dalla potenzialità del conflitto, l’interesse deve essere portato a conoscenza degli altri amministratori e del collegio sindacale in modo puntuale ed esaustivo. L’obbligo di comunicazione cui è tenuto l’amministratore è stato poi qualificato dalla novella legislativa del 2003. Infatti, se prima della riforma del diritto societario, in caso di conflitto di interessi, l’amministratore doveva semplicemente astenersi dal votare in consiglio, dopo la riforma, il novellato art. 2391 c.c. impone all’amministratore non solo di dare notizia agli altri amministratori ed al collegio in presenza di un interesse personale in una determinata operazione, sia esso in conflitto o meno con l’interesse della società, ma addirittura prevede che l’informativa sia qualificata. Essa infatti deve rendere noti agli altri amministratori tutti quegli elementi che saranno utili al fine di adottare una deliberazione consapevole nonché, se sarà il caso, di dissentire nella votazione; pertanto l’informativa dovrà avere ad oggetto la natura, i termini, l’origine e la portata dell’interesse in questione. In particolare con riferimento alla “natura” dell’interesse, l’amministratore è tenuto a precisare se l’interesse sia patrimoniale o non patrimoniale, conflittuale o non conflittuale, attuale o potenziale con quello della società. Per ciò che attiene i “termini” dell’interesse, l’amministratore deve spiegare a che titolo ne è portatore, cioè se a titolo personale o per conto terzi e, in quest’ultima ipotesi, deve indicare non soltanto il soggetto interessato, ma anche la natura del suo rapporto con l’amministratore. Quanto “all’origine” dell’interesse le notizie avranno ad oggetto il “come” ed il “quando” lo stesso sia sorto, in particolare se in epoca precedente o successiva all’assunzione della carica di amministratore o alla decisione di intraprendere quella operazione. Infine, per “portata”, si intende in che misura quella certa operazione è in grado di incidere sul patrimonio della società. Appare dunque di solare evidenza che la ratio del legislatore sia stata quella sottrarre all’amministratore ogni sindacato circa la sussistenza o meno del conflitto in capo all’amministratore portatore di un interesse proprio o di terzi in una determinata operazione e di lasciarne ad altri la valutazione. I risvolti negativi di un simile incombente sono ovvi: l’inevitabile appesantimento del consiglio di amministrazione, il quale sarà tenuto a motivare le ragioni e convenienza dell’operazione.
4.2 Il dovere di astensione
La norma in esame non impone all’amministratore anche il dovere di astenersi dalla partecipazione alla deliberazione assembleare relativa all’operazione d’interesse. La ratio della norma è infatti quella di eliminare il vantaggio informativo acquisito dell’amministratore in virtù del suo ufficio. Egli infatti conosce sia le esigenze e le necessità della società amministrata sia l’effettiva utilità che l’operazione può avere per la stessa. Tuttavia, una volta assolto adeguatamente tale obbligo, non vi è motivo di impedirgli la partecipazione alle delibere assembleari ed alla votazione. L’interesse del quale è portatore potrebbe anche risolversi vantaggioso per la società stessa o per entrambi, ma potrebbe, al contrario, arrecare un pregiudizio alla stessa. Pertanto, secondo il disposto dell’art. 2391c.c. la deliberazione adottata con il voto determinante dell’amministratore portatore di interesse, sarà annullabile14. Ai fini dell’annullabilità di detta deliberazione, tuttavia è necessario un ulteriore requisito: la deliberazione del consiglio di amministrazione deve determinare con precisione tutti gli elementi dell’operazione, in mancanza non può nemmeno parlarsi di conflitto di interessi. Parimenti, la deliberazione presa dal comitato esecutivo sarà impugnabile in caso di difetto di motivazione e ciò per ovvie ragioni relative alla coerenza del sistema. In ogni caso è fatta salva la c.d. prova di resistenza, cioè la verifica della sussistenza del quorum deliberativo in difetto del voto contestato prevista dell’art. 2377 c.c..
4.3 L’applicabilità dell’articolo 1394 c.c.
Nell’ipotesi in cui, per realizzare un interesse proprio o di terzi, l’amministratore unico o l’amministratore delegato abbia agito in danno della società, sarà applicabile l’art. 1394 c.c che permette l’annullabilità del contratto stipulato con il terzo su istanza della società, sempre che l’interesse in conflitto era noto o riconoscibile da parte dell’altro contraente. In definitiva, in questo caso, verranno applicate le norme generali dettate in materia di rappresentanza. In particolare, secondo la pronuncia n. 1525 del 26 gennaio 2006, la Corte di Cassazione ha precisato che “in tema di società per azioni, quando il singolo amministratore ponga in essere, in mancanza di una delibera del consiglio di amministrazione, un atto con il terzo che rientri, invece, nella competenza di tale organo, l’incidenza del conflitto di interessi sulla validità del negozio deve essere regolata sulla base non già dell’art. 2391 c.c (il quale, riferendosi al conflitto che emerge in sede deliberativa, concerne l’esercizio del potere di gestione, in un momento, quindi, anteriore a quello in cui l’atto viene posto in essere, in nome della società, nei confronti del terzo), ma della disciplina generale di cui all’art. 1394 c.c.. Al riguardo, costituendo il divieto di agire in conflitto di interessi con la società rappresentata un limite derivante da una norma di legge, la sua rilevanza esterna non è subordinata ai presupposti stabiliti dall’art. 2384, 2° co. c.c, il cui ambito di applicazione è riferito alle limitazioni del potere di rappresentanza derivanti dall’atto costitutivo o dallo statuto, che abbiano, cioè, la propria fonte (non nella legge, ma) nell’autonomia privata”. Pertanto, l’art. 2391 c.c. rileva in ipotesi di conflitto emerso in sede di deliberazione dell’organo collegiale, mentre l’art. 1394 c.c. si applica all’atto negoziale concluso direttamente dall’amministratore unico o dal componente del consiglio munito di delega15 16.
5. Responsabilità degli amministratori
Con specifico riferimento alle questioni sino ad ora analizzate, si può argomentare che la responsabilità degli amministratori può avere una triplice sfaccettatura, comprendendo da un lato, la responsabilità dell’amministratore portatore di interesse che omette di darne notizia; da un altro lato, la responsabilità del consiglio che adotta la delibera in difetto di una adeguata motivazione; da un altro lato ancora, la responsabilità dell’amministratore portatore di interesse che ha partecipato alla deliberazione con voto determinante. In tutte e tre le ipotesi deve sussistere un pregiudizio a carico della società. Tale pregiudizio però non può essere sostenuto da meri indici presuntivi se poi, nel caso concreto, ed in ragione del contenuto e della modalità dell’operazione, a tale presunzione non consegua un concreto e reale danno. L’art. 2391 c.c stabilisce altresì che la responsabilità dell’amministratore, per i danni cagionati dalla sua azione o omissione, comporta un risarcimento che dovrà tenere conto sia del danno emergente, sia del lucro cessante. In definitiva si può notare che mentre la responsabilità per conflitto di interessi ex art. 2391 c.c. deve essere valutata in concreto, la fattispecie di cui all’art. 2390 c.c. sopra illustrata, ammette anche che il conflitto possa essere solo potenziale.
1Soggetti obbligati sono pertanto tutti gli amministratori della società per azioni, senza distinzioni tra delegati e membri del Comitato esecutivo, o semplici consiglieri, nonché tutti gli amministratori delle cooperative, delle società a responsabilità limitata e gli accomandatari delle società in accomandita per azioni.
2È considerato amministratore di fatto colui il quale sia stato nominato da una delibera irregolare, implicita o tacita. Tale circostanza si verifica, per esempio, quando la nomina non sia stata pubblicata a norma di legge, o quando la stessa costituisce un presupposto implicito di una deliberazione assembleare, oppure ancora quando sia desumibile da un contegno positivo extra-assembleare dei soci tale da far presumere che sia anteriormente intervenuta una delibera di nomina.
3Vedi Guglielminetti “Direttori generali di società per azioni e divieto legale di concorrenza”, in Riv. Soc., 1962, pag.72.
4Storicamente, per l’Italia, questa norma viene ricondotta al divieto sancito a carico delle società commerciali di persone ex art. 2301 c.c., che a sua volta trova il proprio precedente normativo negli artt. 112 e 113 del Codice del Commercio del 1882 e prima ancora negli articoli 115 e 117 del Codice del Commercio del 1865. Secondo Spolidoro, in Spolidoro, Il divieto di concorrenza per gli amministratori di società di capitali, in Riv. Soc., 1983, pag. 1118, invece, l’art. 2390 c.c. deriverebbe direttamente dal divieto introdotto nella disciplina azionaria tedesca a partire dal 1884 e recepito poi all’art. 79 del Aktg del 1937. Secondo l’autore, infatti, nel progetto Vivante del 1922 (art. 200) era già presente l’idea tedesca di vietare agli amministratori l’esercizio di altre attività al fine di assicurare la massima dedizione alla società gestita, tuttavia, nel progetto d’Amelio, tale impostazione viene abbandonata per abbracciare invece la tesi del divieto limitato alle sole attività concorrenti aventi lo stesso oggetto, poi confluita nell’attuale art. 2390 c.c..
5Cfr. Guizzi “ Divieto di Concorrenza”, in AA.VV., Società di capitali, Commentario a cura di G, Piccolini e A. Stagno d’Alcontres, II, sub art. 2390, Napoli, 2004, 644.
6E questo perché non sempre due società che hanno il medesimo oggetto sociale si trovano in concorrenza tra loro, infatti potrebbero riferirsi a due segmenti territoriali o di mercato differenti, mentre, dall’altro lato, due società con oggetto sociale differente potrebbero trovarsi in rapporto di concorrenza in ragione della clientela alla quale esse si rivolgono. Secondo Spolidoro, comunque, la coincidenza dell’oggetto sociale può certamente costituire un valevole indizio di concorrenza potenziale, cfr. Spolidoro, op.cit. 1340.
7Cfr. Franceschielli, Valore attuale del principio di concorrenza e funzione concorrenziale degli istituti di diritto industriale, in Riv. Dir. Ind., 1956, I, pag. 66.
8Si pensi all’ipotesi dell’amministratore che, per la natura del suo incarico, si trovi in possesso di informazioni delicate e riservate e le fornisca ad un suo diretto concorrente.
9Questo fenomeno è particolarmente diffuso negli Stati Uniti, dove prende il nome di “Interlooking Directorates”. Nella prassi, infatti, si tratta di un modo attraverso il quale le imprese allacciano reciproci rapporti e collegamenti, rafforzando e/o estendendo la propria influenza su altre società. Negli Stati Uniti il fenomeno è disciplinato dal Clayton Act, che sancisce l’automatica illiceità della nomina di un amministratore già in carica in un’altra società, per il caso in cui tra le due società vi sia un rapporto di concorrenza diretto ed attuale e che l’interesse superi la soglia dei dieci milioni di dollari di valore aggregato. Questo sistema “a soglia minima” fa si che vengano automaticamente esclusi dall’applicazione della norma quelle imprese che si trovano in concorrenza solo per una parte esigua dei loro profitti.
10In particolare si è sostenuto che se le attività gestorie vengono poste in essere da un comitato esecutivo, o da uno più amministratori delegati, gli altri consiglieri non svolgono attività per conto della società. In tal caso, il divieto di concorrenza si estende solamente all’assunzione in una società concorrente della carica di amministratore unico o di amministratore delegato o di membro del comitato esecutivo. Vedi Ferri, Le società, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da Vassalli, Torino, 1971. Conformemente anche Spolidoro, op.cit..
11Cfr. Minervini, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1956.
12Cassazione n. 3091 del 1975 e, in senso conforme, v. anche App. Lecce del 9 settembre 1996.
13Così Corte d’Appello di Bologna, 21 luglio 1981, in Giurisprudenza annotata di diritto industriale , 1981.
14L’impugnazione può essere proposta dal collegio sindacale, dagli amministratori assenti o dissenzienti, ma anche da quelli presenti, nel caso l’amministratore abbia violato il proprio obbligo di informativa, comunque entro novanta giorni dalla sua data di approvazione. In ogni caso sono fatti salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede.
15In senso conforme anche Cass. Civ. Sez. III n. 18792/2005 in cui “ Gli articoli 1394 e 2391 c.c. si pongono, tra di loro, in una relazione di reciproca esclusione, avendo ciascuno un proprio ambito di operatività. Mentre, in particolare, l’articolo 1394 c.c si applica agli atti compiuti dal rappresentante della società di capitali quando manchi una deliberazione del consiglio di amministrazione con la determinazione del contenuto del contratto, si applica, invece, l’art. 2391 c.c. nel caso in cui il conflitto di interessi emerga in sede deliberativa, anche quando l’attuazione del contratto sia affidate all’amministratore in conflitto di interessi con la società. Conseguentemente il contratto è suscettibile di venire annullato ai sensi dell’art. 1394 c.c. se sia concluso dall’amministratore unico o dall’amministratore munito di potere di rappresentanza che, delegato o no, agisca senza una preventiva deliberazione consiliare. In ogni altra ipotesi la conclusione del contratto è deliberata dal consiglio di amministrazione e il conflitto di interessi si manifesta già nella fase di deliberazione che ne ha deciso la conclusione, previa dimostrazione della mala fede del terzo. Ne deriva, in conclusione, una minore tutela della società rispetto all’ipotesi di contratto concluso dall’amministratore al di fuori di una deliberazione consiliare”.
16È necessario precisare che quanto detto fin ora ha un senso in relazione alle società di capitali aventi un organo amministrativo pluripersonale, poiché alle società di persone ed alle società di capitale con amministratore unico o amministratore delegato si dovrà applicare l’art. 1394 c.c, in quanto, in questi casi, vengono meno i presupposti di cui all’art. 2391 c.c..
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