Premessa
La Suprema Corte di Cassazione – con la sentenza n. 1997 del 20 gennaio 2020, Cass. Sez. III Penale – in tema di danno ambientale, ha ribadito il principio in virtù del quale è legittimato a costituirsi parte civile il cittadino che non si dolga del degrado dell’ambiente ma faccia valere una specifica pretesa in relazione a determinati beni, quali cespiti, attività e diritti soggettivi individuali (come quello alla salute), in conformità alla regola generale posta dall’art. 2043 c.c.
La decisione segue il percorso già avviato dai Giudici di legittimità (Cass. Pen. Sez. I n. 31477 del 28.05.2013 ed in ultimo Cass. Pen. Sez. III n. 911 del 12.01.2018) precisando che lo Stato risulta legittimato in via esclusiva per quel che attiene al risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, inteso come lesione dell’interesse pubblico alla integrità e salubrità dell’ambiente, mentre tutti gli altri soggetti, singoli o associati, comprese le Regioni e gli altri enti pubblici territoriali, possono esercitare l’azione civile in sede penale ai sensi dell’art. 2043 c.c. solo per ottenere il risarcimento di un danno patrimoniale e non patrimoniale, ulteriore e concreto, conseguente alla lesione di altri loro diritti particolari diversi dall’interesse pubblico alla tutela dell’ambiente, pur se derivante dalla stessa condotta lesiva.
Nondimeno un siffatto rigido dualismo si espone a delle osservazioni critiche proprio in ragione della configurabilità di un danno sofferto uti singuli ai sensi dell’art. 2043 c.c., oltre che alla concreta evoluzione che, nel tessuto sociale, ha assunto la tematica ambientale in ordine alla sua tutela ed alla lesività di quelle condotte che ne compromettono l’equilibrio. Preliminare a tale analisi è, però, l’analisi del decisum della Cassazione che – è bene ricordarlo – si inserisce, a contrario, in una doppia conforme.
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L’orientamento della Suprema Corte
La fattispecie concreta della sentenza in commento riguarda una situazione di deposito non autorizzato di materiale inerte proveniente da scavo in zona dichiarata di notevole interesse pubblico ex D.M. 20 ottobre 1984, il quale ha provocato una significativa alterazione dello stato dei luoghi. Invero, la zona, in precedenza estremamente ricca di animali e vegetazione si era trasformata in una “discarica con esalazione di odori maleodoranti”. In questo quadro il Tribunale ha ritenuto ammissibile la costituzione di parte civile dei “singoli” soggetti danneggiati dal reato riconoscendo il loro diritto al risarcimento dei danni. In particolare la Corte territoriale, confermando la decisione del primo giudice, ha chiarto come la pretesa risarcitoria trovasse fondamento nella: “violazione del diritto al godimento di una natura libera e incontaminata e alla visuale del paesaggio”.
Orbene, la Corte di legittimità, pur riconoscendo che tale condotta è suscettibile di generare un danno morale nei confronti delle vittime, stante il pregiudizio arrecato alla vita quotidiana delle persone ed il perturbamento psicologico risentito in relazione alle possibili conseguenze nocive per la salute, ritiene insufficiente tale aspetto ai fini del riconoscimento di una lesione suscettibile di risarcimento in quanto “il singolo” cittadino è comunque onerato della prova di avere subito in concreto un turbamento di tipo psichico e una limitazione del consueto svolgimento della sua vita, entrambi dovuti all’esposizione a sostanze inquinanti[1].
La Corte prosegue poi con una ricostruzione interpretativa del principio, consolidato nella giurisprudenza e nelle fonti di diritto comunitarie, nazionali e internazionali, “chi inquina paga”, che impone la titolarità del risarcimento unicamente allo Stato[2]. In forza di questo principio, e data la particolarità del danno ambientale, che consiste nella distruzione, alterazione, deterioramento dell’ambiente “inteso quale insieme che, pur comprendendo vari beni appartenenti a soggetti pubblici o privati, si distingue ontologicamente da questi e si identifica in una realtà immateriale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo, che costituisce, come tale, specifico oggetto di tutela da parte dell’ordinamento” l’unico titolare del risarcimento per questo danno sarebbe lo Stato (così anche Cass. civ., 9.4.1992, n. 4362). Pertanto, per il danno ambientale inteso come lesione dell’interesse pubblico all’integrità e salubrità dell’ambiente, lo Stato rimane l’unico legittimato in via esclusiva.
La questione in esame non è ignota alla giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, la quale ha sempre deciso in senso conforme a quanto descritto. Si veda a tal proposito la sentenza n. 34789 del 26-09-2011, Cass. pen. Sez. III, la quale ha ritenuto infondata la richiesta di escludere la parte civile poiché quest’ultima aveva “direttamente subito un pregiudizio nella vita quotidiana ed al perturbamento psicologico direttamente risentito in relazione agli effluvi molesti e maleodoranti connessi all’attività di scarico non autorizzata”, conferendo così estrema importanza agli effetti diretti del danno ambientale sull’individuo.
Allo stesso modo, con la sentenza n. 31477 del 28.05.2013, Cass. Pen. Sez. I, la Cassazione ha riconosciuto la legittimità della costituzione di parte civile dei soggetti abitanti nelle abitazioni circostanti ad un’azienda la cui attività inquinante provocava l’emissione di polveri e rumori, supportando tale legittimazione anche data l’avvenuta esibizione di certificati di residenza costitutiva, a riprova della necessaria vicinanza e collegamento diretto richiesti dai giudici di legittimità.
Il principio è stato ribadito più recentemente anche nella sentenza n. 911 del 12.01.2018, Cass. Pen. Sez. III in cui i Giudici affermano che la pretesa risarcitoria per il danno ambientale ricade unicamente in capo allo Stato, essendo la norma che lo disciplina il già citato art. 311 del T.U. AMBIENTE. La Corte esplicita con chiarezza la natura del danno per il cui risarcimento tutti gli altri soggetti possono agire: da esso devono necessariamente derivare una lesione di altri diritti patrimoniali e non, “diversi dall’interesse pubblico e generale alla tutela dell’ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale”; con correlativa estensione del medesimo principio al danno non patrimoniale (Sez. 3, n.633 del 29/11/2011, dep.12/01/2012, Rv. 251906 e da Sez. 3, n. 19437 del 17/01/2012, Rv.252907).
Sulla questione si è espressa anche la Corte Costituzionale, da ultimo con la sentenza n. 126 del 2016. La questione di costituzionalità era stata sollevata nell’ambito di una sentenza la cui fattispecie concreta riguardava l’omessa adozione da parte degli imputati di precauzioni e cautele nell’esercizio delle attività militari, tra cui, ad esempio, il non aver collocato segnali di pericolo di esposizione di uomini ed animali a sostanze tossiche e radioattive presenti nell’area, causando così un “persistente e grave disastro ambientale con enorme pericolo chimico e radioattivo” per la salute sia del personale, civile e militare, del Poligono, sia dei cittadini dei centri abitati e circostanti e dei pastori e dei loro animali da allevamento.
Con tale decisione la Corte Costituzionale ha chiarito come la legittimazione attiva ad agire in giudizio per il risarcimento del danno ambientale spetti esclusivamente ed unicamente allo Stato, escludendo dunque non solo gli individui ma anche gli Enti territoriali. Invero, la questione di legittimità costituzionale era stata sollevata proprio in merito alla possibilità che questi ultimi fossero attivamente legittimati a richiedere il risarcimento del danno ambientale. Tuttavia, la Corte ha ritenuto che il riconoscimento del bene ambiente come “bene immateriale unitario”, operato già con la sentenza n. 641 del 1987, sia funzionale all’affermazione dell’uniformità della tutela del bene ambiente, e dell’esercizio dei compiti di riparazione e prevenzione del danno ambientale, che solo lo Stato potrebbe garantire. Invero, l’esigenza di tutela sistemica del bene non potrebbe trovare soddisfazione in un intervento “frazionato e diversificato”, ma anzi, richiederebbe visione e strategie sovranazionali e comunitarie. Inoltre, secondo la Corte, la possibilità per enti territoriali e cittadini di trovare ristoro per il danno patito si individuerebbe nella disciplina generale del danno, “non potendosi pertanto dubitare della legittimazione degli enti territoriali a costituirsi parte civile iure proprio, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all’ambiente, per il risarcimento non del danno all’ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico, di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale”.
Il danno subito dal singolo: risarcibilità ex art. 2043 c.c. e art. 2059 c.c.
Tale orientamento, seppur fortemente consolidato dalla giurisprudenza di merito, si espone a numerose osservazioni critiche. Il d.lgs. 152/2006 (T.U. ambiente) disciplina, all’art. 311, primo comma, la possibilità per il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di agire in giudizio per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente, anche esercitando l’azione civile in sede penale. Gli individui persone fisiche non vengono affatto menzionati da detta disposizione; ne consegue che essi non possono ritenersi esclusi dalla possibilità di costituirsi parte civile in giudizio, e che, almeno, per essi si applichi la disciplina generale in materia di esercizio dell’azione civile dle processo penale. Quest’ultima, come noto, consente al soggetto al quale un reato abbia recato direttamente un danno, patrimoniale o non patrimoniale di agire in sede penale per ottenere il risarcimento di quel danno[3].
Si configura, dunque, per un’unica condotta lesiva, una doppia legittimazione a seconda di quale sia il bene giuridico protetto: laddove a causa di tale condotta si verifichi una lesione all’ambiente in senso pubblicistico, e dunque una “lesione dell’interesse pubblico alla integrità o salubrità dell’ambiente” (così, Cass. pen. Sez. III Sent., 09-07-2014, n. 24677), spetterà allo Stato in via esclusiva il risarcimento del danno; per altro verso, se l’interesse che si ritiene leso è riferibile all’individuo, e se questi sia in grado di quantificare l’impatto del danno sul suo stile di vita, allora egli sarà legittimato ad agire in giudizio.
In sostanza, il cittadino può tutelarsi dalle conseguenze di un danno al bene ambiente esclusivamente se questo abbia avuto effetti nella sua sfera privata.
Un interpretazione eccessivamente restrittiva del principio impedisce, di fatto, di realizzare una piena e completa tutela dell’ambiente e del suo godimento da parte di ogni membro della società.
Infatti, la conclusione cui si giunge delinea una situazione in cui solo lo Stato ha l’interesse pubblico alla tutela dell’ambiente, diversamente dal privato cittadino, detentore di un interesse unicamente privatistico. Sebbene questa condizione discenda dal tradizionale riparto tra sfera pubblica e sfera privata, è il caso di domandarsi se non vi siano degli effetti negativi legati ad un’interpretazione troppo rigida di detta ripartizione, e, conseguentemente, se non vi siano alcuni beni che possano essere parte di entrambe le sfere, essendo condiviso sia dal pubblico che dal privato l’interesse alla loro tutela.
Partendo dalla prima questione, vi è fondata ragione di ritenere che questa narrazione svilisca il significato e l’importanza che il bene ambiente ha per il cittadino. Infatti, negando la possibilità di costituirsi parte civile per la violazione del diritto al godimento di una natura libera e incontaminata e alla visuale del paesaggio, i Giudici di legittimità, con la sentenza in commento, affermano, almeno implicitamente, che al cittadino questo diritto non è garantito.
Ed infatti, l’interesse alla salubrità e all’integrità dell’ambiente sarebbe esclusivamente pubblico.
Prima di analizzare la natura del danno che l’individuo subisce in casi analoghi alla fattispecie, e, conseguentemente, il modo migliore per tutelarvisi, è necessaria una premessa che stabilisca i contorni del diritto che si assume leso.
L’orientamento unanime ha ormai da tempo riconosciuto in capo all’individuo il diritto ad un ambiente salubre, consacrandolo nel novero dei diritti soggettivi. Per primi i giudici di Piazza Cavour, con la nota sentenza n. 5172 del 1972 hanno affermato il principio per cui la tutela ambientale deve essere fondata su forme di tutela privatistiche: basandosi su un’interpretazione estensiva degli artt. 2 e 32 Cost., “il diritto alla salute dell’individuo assume…un contenuto di socialità e di sicurezza per cui piuttosto (e oltre) che come mero diritto alla vita e all’incolumità fisica, si configura come diritto all’ambiente salubre”, riconoscendo così il diritto all’ambiente come diritto soggettivo individuale, tutelabile anche nei confronti della Pubblica Amministrazione, a prescindere dalla titolarità in capo all’attore di un diritto alla proprietà o altro diritto individuale. Successivamente, anche la Corte Costituzionale è intervenuta in materia, e, con le note sentenze n° 210/1987 e 641/1987 ha incluso il diritto all’ambiente nel novero dei diritti fondamentali della persona e lo ha dichiarato interesse fondamentale della comunità, e valore primario e assoluto.
In seguito, la dottrina ha elaborato il concetto, arrivando a sostenere che il diritto all’ambiente altro non è che il diritto all’integrità dell’ambiente, il quale si configura come un vero e proprio diritto soggettivo individuale[4].
D’altro canto, la giurisprudenza costituzionale ha altresì ammesso l’esistenza di un interesse pubblico, spettante esclusivamente allo Stato, alla conservazione ambientale e paesaggistica, e di quello, affidato alle competenze regionali, concernente la fruizione del territorio e la valorizzazione dei beni culturali e ambientali (Corte Costituzionale, sentenza n. 367 del 2007).
Si noti la differenza che intercorre tra la conservazione dell’ambiente, e quello alla sua salubrità. L’ambiente, secondo la Corte Costituzionale è un «bene della vita, materiale e complesso, la cui disciplina comprende la tutela e la salvaguardia della qualità e degli equilibri delle sue singole componenti».
Ciò premesso, non è inverosimile affermare che nella giurisprudenza è già tracciata un’implicita distinzione: da un parte la disciplina volta a tutelare e conservare il bene ambiente, che spetta esclusivamente allo Stato in qualità di soggetto che più di tutti è in grado di provvedervi; dall’altra il diritto dell’individuo all’ambiente salubre, garantito ad ognuno in quanto diritto soggettivo, incluso espressamente nel novero dei diritti fondamentali, e in quanto tale tutelabile di fronte ai giudici. Anche nelle sentenze più recenti la prevenzione e la riparazione del danno ambientale, in un’ottica di affermazione del principio di prevenzione, è deputato in via esclusiva allo Stato; insomma, l’orientamento della giurisprudenza costituzionale è – condivisibilmente – concorde nel ritenere che la disciplina volta a tutelare l’interesse pubblico alla conservazione del bene ambiente è deputata allo Stato; tuttavia, tale orientamento nulla osta all’affermazione di un diritto in capo al soggetto all’ambiente salubre, e alla conseguente necessità di un diritto spettante al singolo al godimento di tale ambiente.
All’evidenza il principio affermato dalla Corte di legittimità – con la sentenza in commento e con quelle conformi precedenti – deve ritenersi errato nella parte in cui si pretende che l’intervento civile nel processo penale da parte dei soggetti indicati dall’art. 311 del d.lgs. 152/2006 non possa convivere con il principio per cui l’integrità e la salubrità dell’ambiente è diritto fondamentale del singolo.
Ad ogni modo, prendendo atto di questa interpretazione – come suscettibile di rivisitazione per quanto già osservato e per quanto si dirà successivamente- non deve sfuggire come la Corte abbia però individuato l’eventuale configurabilità di un danno morale, concludendo tuttavia che nel caso di specie il turbamento psichico derivante dalle esposizioni a sostanze inquinanti e alle conseguenti limitazioni al normale svolgimento della vita non sarebbe stato adeguatamente provato e motivato.
Secondo l’orientamento della giurisprudenza, il danno morale consiste nel patema d’animo, nel turbamento, nella sofferenza interiore causate da una lesione di un diritto inviolabile della persona, alla sua integrità morale. (così, Cass. Civ. Sez. III, n. 5795 del 4/03/2008). L’oggetto dell’accertamento e della quantificazione di detto danno è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto (Cass., sez. III, n. 901 del 17/01/2018).
Ciò premesso, è inevitabile osservare, anche alla luce della ricostruzione operata in precedenza, come il diritto al godimento di un ambiente salubre sia un diritto costituzionalmente protetto, ed in quanto tale indubbiamente una sua lesione cagiona un danno morale a chi ne soffra. Inoltre, come la Corte di cassazione ha avuto modo di osservare in più occasioni, il bene protetto che si intende danneggiato attiene alla sfera della dignità morale delle persone (così, ex multis Cass. Civ., sez. III, sentenza 12 dicembre 2008, n. 29191; Cass. Civ., sentenza n. 379/2009, Cass. Civ., SS.UU., sentenza 14 gennaio 2009, n. 557 e Cass. Civ., sez. III, sentenza 13 maggio 2009, n. 11059). Vi è ragione di affermare che il rapporto identitario tra persona e ambiente costituisce la ragione stessa della dignità umana[5]. L’ambiente racchiude al suo interno tutte quelle componenti necessarie ed indispensabili per l’esistenza stessa dell’essere umano, ovvero che, se compromesse, possono incidere severamente sull’attitudine di quest’ultima ad essere piena e dignitosa. Questa essenziale caratteristica del bene ambiente richiede una specifica tutela giuridica, attenta a vigilare e a provvedere all’immediata riparazione della sua lesione, la quale non può essere unicamente limitata allo Stato, essendo la dignità umana attinente alla persona. Pertanto, in virtù dell’invocata tutela giuridica atta a salvaguardare la protezione del bene ambiente, le sofferenze dell’individuo provocate dai danni ambientali deve ritenersi sussistente a fronte di un danno che muta l’ambiente preesistente impedendone il “godimento”
L’ambiente come bene comune.
Per quanto attiene alla titolarità del bene ambiente, dalla quale discenderebbe almeno in parte la disciplina del risarcimento, è da ritenersi che esso non possa essere soggetto al tradizionale riparto tra beni privati/ beni pubblici[6]. Invero, per le sue peculiari caratteristiche, la sua collocazione deve avvenire in un ulteriore categoria: quella dei c.d. beni comuni.
I beni comuni sono le “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”[7]. Dunque, un bene è comune per la finalità che si ottiene con il suo utilizzo: l’attuazione dei diritti costituzionali della persona. La Corte di Cassazione, con la sentenza a Sezioni Unite n. 3665 del 14.02.2011, ha individuato i beni comuni in quei beni che, indipendentemente dalla titolarità, risultino, per le loro caratteristiche intrinseche e sulla base di una compiuta interpretazione dell’intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività. La collettività in questione, aggiunge la Corte, è costituita da persone fisiche; pertanto, “l’aspetto domenicale della tipologia del bene cede il passo alla realizzazione di interessi fondamentali indispensabili per il compiuto svolgimento dell’umana personalità”.
Ebbene, dette definizioni si adattano perfettamente al bene ambiente. Invero, il suo essere funzionale all’esercizio dei diritti fondamentali è palese ed inequivocabile solo se si considera che esso determina con le sue componenti il diritto fondamentale per eccellenza, quello che ricomprende l’esercizio di tutti gli altri: la sopravvivenza della specie.
Le caratteristiche intrinseche del bene ambiente, tra l’altro, sono tali per cui il danneggiamento di una sua componente può avere conseguenze negative su tutte le altre, ledendo, dunque, il possibile esercizio di altri diritti da parte di altri individui. Ciò è dovuto al carattere diffusivo e transfrontaliero dei danni ambientali, il quale, se da una parte rende più complessa l’attribuzione della responsabilità, non deve essere usato come esimente dal corrispondere un giusto risarcimento ai danneggiati.
I diritti costituzionalmente garantiti che la fruizione del bene ambiente realizza sono da individuarsi nel diritto alla salute, nel godimento del paesaggio (richiamato anche dalla summenzionata sentenza n. 1665 del 2011), e, soprattutto, nel diritto ad un ambiente salubre, così come delineato nel paragrafo precedente. Detti diritti sono senza alcun dubbio da ricomprendere tra quegli interessi fondamentali indispensabili per il compiuto svolgimento dell’umana personalità.
La disciplina dei beni comuni, così come delineata dallo stesso “Comitato Rodotà” e dalla dottrina in materia, si incentra principalmente sulla definizione della categoria e sulla modalità della loro governance. Tuttavia, per quanto qui rileva, è necessario sottolineare un altro aspetto: quello relativo alla loro tutela. La lesione di un bene strumentale alla realizzazione di interessi così profondamente connessi alla sopravvivenza umana non può non prevedere un adeguato meccanismo di riparazione.
Alla luce di quanto affermato ed in ragione dell’evoluzione sociale che ha interessato numerosi diritti fondamentali (anche in termini di coscienza collettiva) diviene necessario un ripensamento dell’orientamento espresso dalla sentenza in esame. Invero, l’interesse alla salubrità e all’integrità dell’ambiente è da riferirsi alla collettività in quanto insieme di individui, e non già in quanto istituzione statale, proprio perché l’integrità dell’ambiente garantisce il godimento di diritti fondamentali dell’individuo.
Conclusioni.
La giusta pretesa risarcitoria per la lesione del bene ambiente non può essere sottratta all’individuo e, quindi, al singolo e riconosciuta esclusivamente allo Stato. L’interpretazione giurisprudenziale – e soprattutto quella riservata alla Corte di legittimità nella sua funzione nomofilattica – deve conformarsi, nei limiti consentiti dalla disciplina giuridica vivente, al sorgere di nuovi e diversi valori e norme culturali, come pure al senso etico espresso dalle sensibilità che emergono come “nuove” nel tessuto sociale. A maggior ragione se una tale evoluzione interessa diritti che assumono una rilevanza costituzionale nell’ambito di quei principi inerenti i rapporti civili.
Certamente si rende indispensabile, in questa prospettiva, aprire un dibattito per una nuova cornice normativa dentro la quale realizzare un’adeguata ed efficace tutela del bene ambiente. La lesione del singolo deve essere ricompresa nel novero dei danni morali, in quanto inscindibilmente collegata al benessere dell’individuo, proprio in ragione di quegli “effetti transfrontalieri” che solo il danno ambientale può causare con tanta pervasività. Circostanza che renderebbe l’interpretazione più elastica del concetto di “effetti immediati e diretti” proprio in ragione dell’appartenenza del bene ambiente alla categoria dei beni comuni, e dunque alla sua strumentalità alla realizzazione di diritti costituzionalmente garantiti.
Rebus sic stantiubs la prospettiva è fortemente antropocentrica, in quanto individua nel danneggiamento della salute umana, o della dignità morale delle persone, la misura per la possibilità di tutelare giuridicamente il bene ambiente. Un reale mutamento impone il riconoscimento che un danno all’ambiente provoca sull’individuo e, quindi, giuridicamente censurabili indipendentemente dagli effetti immediati e diretti sulla salute di quest’ultimo: solo così “diritto all’ambiente salubre” si trasformerebbe compiutamente in “diritto al godimento dell’ambiente”.
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Note
[1] La Corte cita, per chiarire il principio, un altro caso di danno ambientale in cui le vittime avevano subito, per via dell’esposizione ad effluvi malsani provenienti da un allevamento di galline, un danno da cui era derivata invalidità temporanea (Cass., Sez. 1, sentenza n. 10337 del 12/10/1992).
[2] Secondo il suddetto principio i costi relativi all’inquinamento devono essere sopportati dal responsabile tramite l’introduzione di una “peculiare forma di responsabilità extracontrattuale” secondo la quale il responsabile è obbligato al risarcimento a seguito di una qualsiasi attività, dolosa o colposa, compiuta in violazione di un dispositivo di legge che cagioni un danno “ingiusto” all’ambiente.
[3] Sul punto, si consideri anche quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 126 del 2016: “In base a quanto previsto dall’art. 313, comma 7, del codice dell’ambiente, la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali spetta non solo al Ministero ma anche all’ente pubblico territoriale e ai soggetti privati che per effetto della condotta illecita abbiano subito un danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 del codice civile, diverso da quello ambientale. La giurisprudenza di legittimità ha affermato che non sussiste alcuna antinomia reale fra la norma generale di cui all’art. 2043 cod. civ. e la norma speciale di cui all’art. 311, comma l, del d.lgs. n. 152 del 2006.”
[4] ALPA, Il diritto soggettivo all’ambiente salubre: nuovo diritto o espediente tecnico?, in Resp. Civ.e prev.1998, I, 4.
[5] Niola, F. (2017), AMBIENTE: VALORE COSTITUZIONALE E BENE COMUNE. Sintesi di crisi e prospettive, ambientediritto.it, 27 febbraio 2017, anno XVII
[6] La disciplina dei beni pubblici è stabilita, almeno nelle sue linee fondamentali, nel Codice Civile agli artt. 822-831: i beni pubblici (i.e. i beni appartenenti allo Stato, agli enti pubblici e agli enti ecclesiastici) si dividono in beni demaniali, beni patrimoniali indispensabili e beni patrimoniali disponibili.
[7] Secondo la definizione della Commissione Rodotà, che per prima ha elaborato il concetto e ha tentato di darvi forma giuridica.
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