Indice / Abstract:
L’illecito civile è la principale fonte di obbligazioni dopo i contratti.
La nozione di danno è fondamentale per il sistema responsabilità civile.
In prima approssimazione il danno evento è elemento costitutivo dell’art. 2043 del codice civile e si ha in presenza di una lesione di una situazione giuridica soggettiva e di un danno ingiusto; invece il danno conseguenza è definibile come il parametro di determinazione del danno ingiusto.
Secondo il principio di atipicità dell’illecito civile il danno ingiusto è la clausola generale. Gli interpreti la concretizzano identificando il danno-conseguenza all’insieme delle conseguenze pregiudizievoli che la vittima ha sofferto. La giurisprudenza risalente suddivideva in tre sottocategorie: danno biologico, danno morale e danno esistenziale.
Secondo la Cassazione e la Corte Costituzionale si hanno due sottocategorie; c.d. teoria della bipartizione, per cui il danno patrimoniale é sempre risarcibile ex art. 2043 del cod. civ.; mentre il danno non patrimoniale, comprensivo di danno biologico e danno morale più le conseguenze pregiudizievoli prive di rilevanza economica risarcibili ex 2059c.c.
Se vengono integrati gli estremi di reato si può pretendere il risarcimento ex art. 185 c.p., se lesione seria, rilevante e con pregiudizi significativi.
Il danno-conseguenza ha una funzione compensatoria in base agli artt.1223 e 2056 del c.c.
I cosiddetti danni consequenziali vengono riconosciuti per reintegrare il bene leso in aggiunta al rimedio delle conseguenze pregiudizievoli dell’illecito.
Il responsabile dovrà risarcire le perdite subite, guadagni non ottenuti 1223, pregiudizi derivati in via indiretta(danni riflessi) per il principio della c.d. causalità giuridica.
I danni non patrimoniali hanno una funzione riparatoria con piena rimediabilità incondizionata per la tutela dei beni e dei diritti a contenuto non patrimoniale.
Il danno da morte immediata ovvero quello tanatologico, si distingue rispetto al danno biologico terminale che dura un lasso di tempo più o meno lungo e dal danno catastrofico che ha la massima intensità con durata contenuta.
Il danno tanatologico ubi consistam? La Cassazione a Sezioni Unite del 1925 nega il risarcimento in caso di morte immediata, in base alla granitica e tradizionale giurisprudenza interpretativa dell’art 2043 del c.c..
Il danno patrimoniale è considerato danno-conseguenza e non danno-evento. L’art. 2059 consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali ex art. 185 c.p.
Il 2043 del c.c. è istituto per tenere indenne il danneggiato, l’obbligazione volta a ristabilire nel patrimonio del danneggiato la situazione. Il danno tanatologico non è risarcibile sub specie di danno biologico.
Vita e salute sono beni giuridici distinti oppure due facce della stessa moneta cioè della incolumità personale? In realtà la tutela risarcitoria è la tutela minima riconosciuta a qualunque diritto, essa va a maggior ragione riconosciuta al supremo ed inviolabile diritto alla vita. Il danno da morte è assimilabile ad una eccezione al principio di risarcibilità del solo danno-conseguenza.
Il danno da morte e l’operatività dell’art. 1227 del cod. civ.
L’arricchimento mediante fatto ingiusto è improponibile ex art. 2041 c.c. mancando il difetto di giusta causa.
La sentenza della Cassazione, Sezioni Unite, n°15350 del 2015.
L’illecito civile o extracontrattuale è la seconda più importante fonte di obbligazioni.
La nozione fondamentale attorno alla quale ruota l’intero sistema della responsabilità civile è quella del danno. A questo proposito, occorre tuttavia distinguere: il danno evento, elemento costitutivo cruciale della fattispecie di responsabilità e dell’illecito civile come fonte di obbligazioni; il danno conseguenza come parametro di determinazione del contenuto dell’obbligazione risarcitoria gravante sul soggetto, o sui soggetti, al quale sia imputabile la responsabilità del danno-evento.
Il danno-evento è quello che l’art. 2043 definisce “danno ingiusto”. Trattasi della lesione di una situazione giuridica protetta dall’ordinamento giuridico arrecata da un soggetto diverso dal titolare della situazione stessa.
Il codice italiano ha optato per un sistema improntato al principio della atipicità dell’illecito civile, non detta cioè l’elenco tassativo delle situazioni giuridiche la cui lesione possa far incorrere in responsabilità civile extracontrattuale, ma si limita a prevedere una “clausola generale”, quella appunto del danno ingiusto, rimettendo agli interpreti il compito di concretizzarla, individuando e delimitando il novero dei beni e delle posizioni giuridiche la cui violazione si presta ad essere ricompresa nella nozione di “danno ingiusto”.
In origine si riteneva che soltanto la lesione di diritti soggettivi assoluti, come la proprietà o altri diritti reali, vita, salute, diritti della personalità, potesse essere considerata come danno ingiusto. Oggi si ammette possa configurarsi come danno soggettivo e quindi anche la lesione di diritti potestativi e di diritti relativi, segnatamente di diritti di credito, ma anche la lesione di situazioni giuridiche non qualificabili come veri e propri diritti soggettivi, purché tutelate dall’ordinamento come le aspettative, relazioni familiari, possesso, etc, e addirittura, di recente, la lesione di meri interessi legittimi.
Il danno-conseguenza è rappresentato dall’insieme delle conseguenze pregiudizievoli che la vittima dell’illecito civile ha sofferto a causa della lesione arrecata alla situazione giuridica della quale è titolare. Le conseguenze pregiudizievoli venivano suddivise dalla giurisprudenza in tre sottocategorie: danno biologico, danno morale in senso stretto ed il danno esistenziale. A seguito di una serie di sentenze della Corte di Cassazione e della Corte Cost.( Cassaz. n°3549 del 2004, n°213 del 2000, n°491 del 1999, n°8970 del 1998, n°1704 del 1997; e Corte Cost.n°372 del 1994) la classificazione delle conseguenze torna ad essere aderente alla bipartizione originariamente concepita dal legislatore del 1942; danni patrimoniali, sempre risarcibili ex art. 2043 e danni non patrimoniali, comprensivi del danno biologico, del danno morale e di tutte le possibili conseguenze pregiudizievoli prive di una immediata rilevanza economica; risarcibili soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge ex art. 2059: tali casi sono oltre a quelli espressamente contemplati da disposizioni di legge ordinarie, a cominciare dall’art.185 c.p. che obbliga l’autore di un reato a risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali sofferti dalla vittima del reato e tutti quei casi in cui il “danno ingiusto” consiste nella lesione di una situazione giuridica patrimoniale come ad es. il diritto alla vita ed alla salute, tutelata a livello costituzionale. Di conseguenza, quando il danno ingiusto consiste nella lesione di situazioni giuridiche di natura patrimoniale protette dall’ordinamento, il titolare della situazione lesa ha sempre diritto al risarcimento dei danni conseguenza di natura patrimoniale, ma può pretendere il risarcimento anche dei danni di natura non patrimoniale,soltanto nelle ipotesi in cui la condotta di chi abbia cagionato il danno ingiusto integri gli estremi del reato ex art. 185 c.p.
Quando, invece, il danno ingiusto consista nella lesione di situazioni giuridiche di natura non patrimoniale, il titolare della situazione lesa ha sempre diritto al risarcimento integrale sia dei danni-conseguenza di natura patrimoniale scaturiti dal danno ingiusto, a condizione che l’interesse leso sia riconosciuto e tutelato dalla Costituzione, che la lesione sia seria e rilevante e che i pregiudizi che ne sono derivati siano significativi. L’esatta individuazione e delimitazione delle conseguenze pregiudizievoli derivate dal danno evento è fondamentale per determinare il contenuto dell’obbligazione risarcitoria che in seguito al verificarsi dell’illecito civile nasce, nei confronti della vittima, in capo al soggetto, o ai soggetti, che debbono risponderne. Infatti, con riferimento ai danni conseguenza di natura patrimoniale, l’obbligazione risarcitoria ha una funzione compensatoria, mira cioè a porre il danneggiato nella stessa posizione in cui si sarebbe trovato se la situazione giuridica di cui è titolare non fosse stata lesa, assicurando al suo patrimonio la consistenza quantitativa e qualitativa che avrebbe avuto se l’illecito civile non si fosse verificato. Non si tratta quindi soltanto di reintegrare il bene leso, ma anche di porre rimedio a tutte le ulteriori conseguenze pregiudizievoli che siano derivate dall’illecito ( c.d. danni consequenziali).
Il responsabile è in particolare tenuto a risarcire non soltanto i pregiudizi ( perdite subite e guadagni non ottenuti) che siano conseguenza immediata e diretta dell’evento lesivo ( come afferma testualmente l’art. 1223, richiamato dall’art. 2056, comma 1), ma anche i pregiudizi che ne siano derivati in via soltanto indiretta o mediata (danni riflessi), nella misura in cui si prestino ad essere considerati come conseguenze “ normali e prevedibili” di quel tipo di eventi lesivi ( e ciò in applicazione del principio c.d. della causalità giuridica).
Per quanto riguarda invece i danni-conseguenza di natura non patrimoniale, la funzione del risarcimento è invece più complessa e variegata, ed è venuta mutando nel tempo. Nella originaria concezione del legislatore del 1942 esso aveva essenzialmente una funzione risarcitoria, essendo di fatto destinato ad operare come sanzione accessoria alla sanzione penale comminata per il responsabile di un reato ex art. 185 c.p. Oggi invece essa ha assunto una funzione di tipo riparatorio, configurandosi come uno strumento attraverso il quale viene assicurata piena ed incondizionata tutela ai beni e ai diritti a contenuto non patrimoniale della persona tutelati a livello costituzionale.
La traccia in questione chiede, poi, di soffermarsi, in modo particolare sul danno da morte immediata e sul c.d. arricchimento mediante fatto ingiusto. Al riguardo occorre distinguere l’effettiva perimetrazione di danno tanatologico dalla definizione di danno biologico terminale e danno catastrofico.
La locuzione danno biologico terminale si identifica nel danno biologico patito da colui che, sopravvissuto per un considerevole lasso di tempo ad un evento poi rivelatosi mortale, abbia sofferto una lesione della propria integrità psico-fisica autonomamente considerabile come danno biologico, quindi accertabile con valutazione medico legale.
Invece, per danno catastrofico si intende il pregiudizio patito da colui che sia deceduto dopo un lasso di tempo che concreta una sofferenza psichica di massima intensità, anche se di durata contenuta. Disegnati i confini delle figure contigue del danno catastrofico e del danno biologico terminale è possibile comprendere con maggiore chiarezza l’ubi consistam del danno tanatologico, che si identifica con il danno connesso alla perdita della vita. Circa la risarcibilità di tale pregiudizio è necessario dare atto dell’esistenza di un vivo dibattito giurisprudenziale e dottrinale, da ultimo reso ancora più attuale dalla pronuncia dell’intervento recentissimo della Suprema Corte n° 15350 del 2015.
Tale convincimento ha radici assai risalenti nella giurisprudenza di legittimità sol che si pensi che è stato inaugurato con sentenza n° 3475 dalle Sez. Un. nel 1925 per cui il diritto al risarcimento del danno era negato in caso di morte immediata.
Le basi su cui poggia l’orientamento in questione, peraltro, sono assai solide e fedeli all’insegnamento avallato da granitica giurisprudenza che ascrive all’art. 2043 del cod. civ. funzione meramente riparatoria. In tal senso, depone, poi, la circostanza che, allo stato attuale il danno non patrimoniale è considerato danno conseguenza e non più danno evento, poiché l’art. 2059 non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, che si ricavano dall’art. 2043 c.c.
Il risarcimento del danno si fonda come istituto volto a tenere indenne il soggetto danneggiato dalle conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’illecito mediante la restituzione o il ristoro del patrimonio del creditore. E’ per tale ragione che comunemente si definisce il risarcimento del danno come l’obbligazione volta a ristabilire nel patrimonio del danneggiato la situazione che si sarebbe registrata in assenza dell’illecito o dell’inadempimento in capo alla responsabilità contrattuale.
Sulla scorta di tali rilievi l’orientamento maggioritario in giurisprudenza, Cassaz. n° 24679 del 2009, Cassaz. n°21976 del 2007, ha sempre escluso la possibilità di risarcire il danno tanatologico sub specie di danno biologico, inteso quale totale e massima lesione del bene giuridico salute. Invero, vita e salute sono due beni giuridici distinti, nel caso in cui l’illecito abbia inciso sul bene vita, la perdita di quest’ultima, per il definitivo venir meno del soggetto, non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, come tale trasferibile agli eredi.
Si tratta, infatti, della lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare e da questi fruibile solo in natura,onde deve escludersi che il risarcimento del danno, per la sua funzione schiettamente riparatoria, possa operare quando la persona abbia cessato di esistere. Diversamente opinando si finirebbe per assegnare alla tutela dell’art. 2043 del c.c. una funzione solo sanzionatoria.
L’opposto orientamento minoritario e diffuso soprattutto in dottrina e in un discreto numero di sentenze di merito, si discosta dalle argomentazioni menzionate sostenendo innanzitutto, come vita e salute siano due facce della stessa moneta, vale a dire l’incolumità personale. Tra le argomentazioni fatte proprie dalla dottrina propensa a riconoscere la autonoma risarcibilità del danno da perdita della vita si ha essenzialmente negando la risarcibilità del danno tanatologico porta a concludere che, paradossalmente, dal punto di vista del danneggiante è più conveniente uccidere che ferire; la tutela risarcitoria è la tutela minima riconosciuta a qualunque diritto, essa, pertanto, va a maggior ragione riconosciuta al supremo ed inviolabile diritto alla vita.
La certezza della morte, secondo le leggi nazionali ed europee è a prova scientifica, ed attiene alla distruzione delle cellule cerebrali e viene verificata attraverso tecniche raffinate che verificano la cessazione dell’attività elettrica di tali cellule. La recente pronuncia delle sezioni unite accennata, sentenza n°1361 del 23.1.2014, afferma che le elaborazioni dottrinali in materia e gli escamotages giurisprudenziali architettati al fine di corrispondere un adeguato risarcimento agli eredi testimonia la necessità di ammettersi senz’altro la diretta ristorabilità del bene della vita in favore di chi l’ha perduta in conseguenza del fatto illecito altrui. Il risarcimento del danno da morte costituisce, secondo l’iter argomentativo dei giudici di legittimità ( Corte Cost. n°26972 dell’11.1.2008 e n°4712 del 25.2.2008), l’ontologica ed imprescindibile eccezione del principio di risarcibilità dei soli danni conseguenza. Le conseguenze raggiunte dalla Corte sono sorrette dal convincimento che il danno non patrimoniale da perdita della vita, quale bene supremo dell’individuo oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile, va garantito in via primaria anche in sede civile.
Al fine di valutare l’operatività dell’art.1227 del c.c. ed il danno da morte dobbiamo chiederci se, ed entro quali limiti possa dirsi che l’art. 1227 c.c. operi anche nell’ipotesi di danni da morte. L’ordinaria diligenza cui fa riferimento il 2° co. del 1227 c.c., ovvero il dovere di attivarsi per evitare il danno, dovrà essere inteso come sforzo per evitare il danno attraverso un’agevole attività personale, oppure mediante un sacrificio economico, relativamente lieve, mentre non sono comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza quelle attività che siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici.
Il dovere giuridico posto a carico del creditore dall’art. 1227 c.c. è espressione dell’obbligo di comportarsi secondo i principi generali di correttezza e buona fede di cui all’art. 1175 c.c. che esclude che il creditore possa pretestuosamente rifiutare il conseguimento di un bene della vita sostanzialmente identico a quello rispetto al quale aveva una aspettativa tutelata, ma non consente certo di imporre a suo carico, per limitare le conseguenze dannose del comportamento del danneggiante, il definitivo sacrificio dello stesso interesse leso dall’illegittima attività di quest’ultimo.
Si è rilevato in dottrina come una tale impostazione sembri rappresentare il contraltare della responsabilità civile, nel senso che se il soggetto attivo non deve cagionare danni, è anche vero che il soggetto passivo non deve e non può limitarsi all’inerzia rispetto ai danni subiti.
Tanto è che il risarcimento non è dovuto per il danno che il creditore avrebbe potuto evitare con un’attività positiva, per ridurre o eliminare il danno stesso, ma sempre nei limiti in cui ciò non comporti, come già affermato, un apprezzabile sacrificio.
E’ bene precisare, quindi, che non può essere inquadrabile, nell’ipotesi di concorso colposo ai fini dell’art.1227 c.c., il rifiuto di un paziente di sottoporsi ad interventi chirurgici per diminuirne l’entità, né ai fini della liquidazione del danno in questione, secondo l’“opinio iuris” condivisa in seno alla giurisprudenza della corte di legittimità, come nel caso di una cd. vittima secondaria ammalatasi a seguito della morte di un proprio caro, involgendo così le argomentazioni addotte in tema di danno alla persona.
Pertanto, l’arricchimento mediante fatto ingiusto a seguito di danno da morte immediata è improponibile ex art. 2041 del cod. civ., mancando i presupposti oggettivi dell’azione previsti dal citato articolo: il difetto di giusta causa, l’arricchimento, la diminuzione patrimoniale, il nesso di reciprocità o di correlazione e la sussidiarietà. Nel diritto romano esisteva una “condicio sine causa” per ottenere la restituzione di quanto fosse dato in base ad una giustificazione mancante ab origine o venuta meno ex post.
Nell’ordinamento italiano vigente si ravvisa giusta causa nella presenza di un titolo legale o specifica disposizione di legge o negoziale anche se invalida, purchè idoneo a sorreggere gli effetti presupposti oggettivi. Accertata l’esistenza dei presupposti ex art. 2041 c.c. resta da valutare la natura giuridica dell’indennizzo scaturente. Segnatamente, arricchimento e depauperamento devono essere legati da un nesso di causalità diretto ed immediato derivante da un unico fatto generativo dell’uno e dell’altro effetto.
In definitiva, alla luce delle recenti interpretazioni giurisprudenziali, l’arricchimento andrebbe rimborsato soltanto nei limiti dell’altrui impoverimento, se l’arricchimento è maggiore rispetto a quest’ultimo: se, invece, l’impoverimento è maggiore rispetto all’altrui arricchimento, l’impoverimento andrebbe indennizzato nei limiti dell’altrui arricchimento.
Recentissimamente si assiste ad un ritorno al passato con la sentenza n°15350 del 2015 delle SS.UU. della Cassazione che confermano la non risarcibilità del danno subito dalla vittima in conseguenza della morte – danno tanatologico- , in assoluta controtendenza per cui vengono risarciti solo i danni catastrofali ed i danni biologici terminali iure hereditatis. Questi ultimi danni vengono risentiti dal defunto nell’intervallo di tempo intercorrente tra la lesione e la morte, ex Cassaz.n° 21976 del 19.10.2007 e per bilanciare il complesso rilievo attribuito alla durata apprezzabile viene elaborata la figura del danno catastrofale, su cui si ammette anche la risarcibilità della sofferenza provata dalla vittima, che a seguito della lesione percepisce come imminente la fine della vita e rileva la consapevolezza del danneggiato e l’intensità della sofferenza, Cassaz. n°5866 del 24.3.2015. Quando, invece, la morte si verifica immediatamente dopo la lesione o quando l’agonia è breve ed inconsapevole resta escluso il risarcimento del danno non patrimoniale subito dalla persona uccisa, Cassaz. n°2564 del 22.2.2012. La ratio del più recente approccio delle Sez. Un. sembra consistee nel considerare del tutto diversi i diritti delle tre categorie di danno; quando la morte segue dopo un apprezzabile lasso di tempo alle lesioni si configura come lesione alla salute o all’integrità psichica, invece se la perdita della vita sia immediatamente conseguente alle lesioni rimane pregiudicato il diritto alla vita.
Il punto di osservazione adottato dalla Cassazione è incentrato su una sola prospettiva ovvero quella del momento in cui si verifica la morte, a seguito della quale la vittima, essendo deceduta, non può risentire di alcun pregiudizio e sull’impossibilità della vittima di acquisire il credito risarcitorio e trasmetterlo agli eredi in quanto priva, a causa del decesso, della capacità giuridica, seguendo la giurisprudenza maggioritaria ( Cassaz. n° 24679 del 24.11.2009, Cassaz. n° 21976 del 19.10.2007).
L’evento morte, in realtà, costituisce una lesione suscettibile di essere risarcita a prescindere dalle conseguenze da ciò che comporta sul patrimoniale e non patrimoniale, come affermato sin dalla metà degli anni ‘80 dalla Corte Costituzionale per giustificare il danno biologico e la sua risarcibilità ( Corte Cost. 14.7.1986 n° 184).
La sentenza “Scarano” relatore della Cassaz. n° 1361 del 2014, per superare indirettamente l’ ostacolo costituito dalla risarcibilità del danno non patrimoniale, ha introdotto la risarcibilità del solo danno conseguenza circoscritta al danno tanatologico, ma viene interpretato come insostenibile dalla S.C. del 2015 n° 15350 che si mostra di contrario avviso rispetto alla sentenza citata, per cui la mancata risarcibilità del danno da morte immediata sarebbe contrastante con la coscienza sociale in quanto la responsabilità civile deve dare rilievo alla vita nell’interesse della collettività. Si teme, probabilmente, che attribuendo rilevanza alla funzione deterrente della responsabilità civile si renda permeabile l’ordinamento alla categoria dei punitive damages, osteggiati dalla giurisprudenza di legittimità, Cassaz. n° 1781 del 8.2.2012.
In conclusione, si ha una restaurazione degli assetti preesistenti pur continuando a rimanere insoluti alcuni snodi che rendono comunque permeabile il sistema delineato dalla giurisprudenza consolidata che rende eccessiva rilevanza alla dimensione cronologica dell’intervallo tra le lesioni e l’evento morte, lasciando il campo aperto a futuri dibattiti giurisprudenziali.
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