Il danno morale terminale sussiste anche in caso di breve lasso di tempo tra l’evento lesivo e il decesso del paziente, purchè quest’ultimo sia lucido e consapevole del proprio stato.

 

Il fatto.

La vicenda che ha dato origine alla decisione oggetto del presente commento riguarda la richiesta di risarcimento dei danni proposta dagli eredi di un paziente successivamente al decesso di quest’ultimo.

Il soggetto in questione successivamente ad un incidente stradale era stato trasportato in autoambulanza presso il pronto soccorso dell’ospedale di Urbino, dove i medici, dopo aver immobilizzato le fratture, avevano effettuato alcuni prelievi che facevano sorgere il sospetto di una probabile emorragia interna. Tale possibile situazione patologica del paziente rendeva necessario un esame ecografico, tuttavia non eseguito in quella struttura a causa della mancanza di un professionista in grado di effettuarlo.

Per questo motivo, il paziente veniva trasferito presso un’altra struttura sanitaria con diagnosi di shock ipovolemico in politraumatizzato e stato di agitazione.

Successivamente ad un esame ecografico effettuato d’urgenza, emergeva la presenza di un marcato versamento all’interno del cavo addominale, che rendeva indispensabile un intervento chirurgico in emergenza durante il quale si verificava un arresto cardiaco irreversibile e il decesso del paziente.

Gli eredi di quest’ultimo, dunque, convenivano in giudizio l’azienda sanitaria di Urbino e l’azienda sanitaria di Rimini che aveva eseguito l’intervento, per sentirle condannare al risarcimento dei danni subiti in conseguenza al decesso del loro congiunto.

In particolare, gli attori adducevano la responsabilità delle due strutture per non avere innanzitutto sottoposto il paziente, sin da subito, ad un esame ecografico che avrebbe consentito un tempestivo riscontro della lesione e per la mancata tempestiva esecuzione di un drenaggio toracico una volta accertata la ricorrenza di un pneumotorace iperteso.

Le aziende sanitarie si costituivano in giudizio, respingendo ogni addebito e chiedevano di chiamare in causa i medici dei rispettivi nosocomi.

Il tribunale respingeva le domande proposte dagli eredi e dichiarava le spese di lite compensate tra le parti, ponendo quelle per il CTU a carico, in pari misura, degli attori e dei convenuti. In particolare, il giudice di prime cure osservava che i CTU avevano individuato la causa della morte nello stato di shock per la rottura della milza e sottolineava la grave carenza amministrativa della struttura sanitaria che non aveva potuto eseguire l’esame ecografico, per la mancanza di un medico reperibile in grado di provvedere.

Tuttavia il Tribunale, dopo aver valutato l’impossibilità di prevedere uno standard di riferimento degli strumenti di cui una struttura sanitaria deve dotarsi, non ravvisava alcuna colpa nella condotta dei medici e concludeva che non poteva ritenersi provato che il decesso del paziente derivasse dalla mancata possibilità di esecuzione dell’esame ecografico o di un tempestivo intervento chirurgico.

Gli eredi proponevano quindi appello avverso la sentenza, insistendo per la richiesta di accertamento della responsabilità a titolo contrattuale o extracontrattuale delle aziende sanitarie e il risarcimento dei danni.

La corte d’appello con sentenza non definitiva dichiarava la responsabilità dell’azienda sanitaria di Urbino per la morte del paziente e la condannava al risarcimento dei danni nei confronti degli eredi, negava la liquidazione del danno tanatologico e rimetteva la causa in istruttoria per determinare il danno patrimoniale per lucro cessante. Infine, la corte d’appello, con sentenza definitiva, condannava l’azienda sanitaria di Urbino al risarcimento del danno da lucro cessante quantificato in euro 55.872,98 a favore della vedova e di euro 13.968,24 a favore del figlio.

In ragione del mancato riconoscimento del danno tanatologico e della non sufficiente liquidazione del danno patrimoniale, gli eredi del paziente deceduto impugnavano la decisione di seconde cure dinanzi alla Corte Suprema. L’azienda sanitaria di Urbino, a propria volta, proponeva ricorso incidentale avverso la sentenza di secondo grado, sostenendo che non sarebbe stato configurabile un contatto sociale tra la vittima e la struttura.

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La decisione della Cassazione

In primo luogo, i ricorrenti hanno denunciato il mancato riconoscimento del danno terminale nonostante l’accertato periodo trascorso dal paziente in lucida agonia, evidenziando in particolare l’erroneità della decisione della Corte di Appello laddove ha escluso la liquidazione del danno biologico trasmissibile agli eredi in considerazione del breve arco di tempo intercorso tra l’evento lesivo e la morte della vittima (precisamente di 7 ore), nonostante fosse emerso che il paziente si trovasse in pieno stato di coscienza.

La Corte di Cassazione ha ritenuto tale motivo fondato e ha affermato che il danno morale terminale deve essere tenuto distinto da quello biologico terminale, il primo si riferisce al pregiudizio subito dalla vittima a causa della sofferenza provata nel avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine, risarcibile a prescindere dall’intervallo di tempo trascorso tra le lesioni e il decesso; mentre il secondo richiede, ai fini della risarcibilità, che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo.

Nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva escluso la sussistenza del danno biologico proprio in ragione del breve lasso di tempo trascorso tra l’evento lesivo e la morte del paziente, senza tuttavia prendere in considerazione la lucida agonia del paziente che era stata accertata anche dalla CTU.

Gli Ermellini hanno quindi affermato che il danno non patrimoniale può essere ricondotto non tanto all’aspetto biologico, quanto alla sofferenza d’animo qualora venga provata la “corrente e lucida percezione dell’ineluttabilità della propria fine”, riconoscendone la risarcibilità.

Pertanto, la Corte Suprema ha ritenuto che i giudici di seconde cure avevano correttamente escluso la sussistenza di un danno biologico terminale in considerazione del breve lasso di tempo per cui la vittima era sopravvissuta dal momento dell’evento lesivo inadempiente dei medici. Tuttavia, la Corte territoriale aveva errato nell’escludere il danno morale terminale, in quanto era emerso che il paziente era lucido e consapevole e pertanto aveva maturato tale diritto (poi trasmesso per via ereditaria ai propri eredi).

Per quanto riguarda la contestazione relativa alla liquidazione del danno patrimoniale da parte degli eredi, gli Ermellini hanno invece ritenuto fondato il motivo del ricorso.

In primo luogo, la Corte di Cassazione ha stabilito che la perdita patrimoniale subita dai ricorrenti sotto il profilo del venir meno della quota parte del reddito della vittima, dovrebbe configurasi come danno emergente e non come danno futuro poiché già verificato ed apprezzabile nella sua consistenza.

Ciò detto, gli Ermellini, hanno ritenuto che la Corte d’Appello abbia errato nell’utilizzare per la liquidazione del danno la tabella allegata al Regio decreto n.1403 del 1992. Tale decisione, infatti, appare contrastante con quanto previsto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che ha, in più occasioni, specificato che tali coefficienti non assicurano un integrale ristoro del danno se non accompagnati dall’adozione di alcun correttivo.

Per quanto concerne il ricorso incidentale proposto dall’azienda sanitaria di Urbino, relativo alla non configurabilità di un contatto sociale tra la vittima e la struttura sanitaria (posto che il paziente non sarebbe stato consapevole circa la scelta del nosocomio dove era stato trasportato), gli Ermellini lo hanno ritenuto infondato.

In particolare, i giudici supremi hanno ritenuto che l’ospedale sia tenuto ad erogare la prestazione di assistenza poiché è chiamato all’adempimento di un dovere di prestazione direttamente discendente dalla legge e in tal modo realizza l’attuazione dell’obbligazione della mano pubblica di fornire servizio. Dunque, la cattiva esecuzione della prestazione dà luogo a responsabilità contrattuale, nel senso di responsabilità nascente dall’inadempimento di un obbligo preesistente o della sua cattiva esecuzione e non nel senso di responsabilità per inadempimento di un contratto.

In ogni caso, qualificandosi come rapporto a carico della struttura del SSN il singolo nosocomio ha l’obbligo di rifiutare la richiesta di cura nel caso in cui abbia consapevolezza della propria carenza strutturale ed organica oltre ad attivarsi per indirizzare il paziente verso una struttura in grado di garantire la migliore prestazione possibile.

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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