Definizioni e presupposti giuridici
La possibilità di risarcire un danno alla salute psichica in sede giudiziaria è un’acquisizione in parte recente, che attende un sollecito intervento per garantire responsi decisivi. Il lento sviluppo di questa materia in ambito giurisprudenziale è in gran parte dovuto alla necessità di arginare preventivamente richieste risarcitorie pretestuose. Il problema del risarcimento del danno alla persona va inteso come un atto di giustizia che tuteli le condizioni di compromissione dell’integrità psico-fisica, in seguito ad un evento lesivo dell’equilibrio psicologico e della vita relazionale. Il risarcimento non può riparare completamente quanto subito ripristinando le condizioni antecedenti, è inteso piuttosto un come un atto consolatorio. A questo proposito ben si presta l’interpretazione del diritto romano che sostituisce il termine risarcimento con sanzione, perché “non può essere dato un risarcimento per ciò che non è risarcibile”.
Se da un lato la valutazione del danno psichico vede una diatriba storica fra diritto e psicologia, dall’altro il diritto deve costantemente confrontarsi con l’evoluzione della cultura sociale in relazione alla sensibilità che la società mostra rispetto a tematiche emergenti: richieste di risarcimento acustico e ambientale, mobbing sul lavoro, errori di natura medico-chirugica e incidenti stradali, che costituiscono la casistica di risarcimenti più numerosa.
La nozione di danno psichico, viene citata per la prima volta in materia giuridica con la sentenza del 1986 (Corte Cost. 184/1986) con la definizione di “lesione all’integrità psico-fisica della persona”, che sottolinea non solo la dimensione fisica del soggetto leso, ma anche quella psichica. La conseguente genericità della norma ha prodotto negli ultimi anni battaglie interpretative sulla nozione di danno, secondo un orientamento che distingueva fra danno patrimoniale, biologico e morale. In particolare, in sede di giudizio la risarcibilità del danno morale era prevista solo se l’evento causa del danno costituiva reato (art. 2059 c.c.). La svolta arriva nel 2003 con le sentenze della Corte di Cassazione (8827-8828) e della Corte Costituzionale (233) con il ricollocamento dei concetti di danno. Il danno morale diviene risarcibile anche se il fatto non costituisce reato, in quanto l’evento ha inciso sull’intangibilità degli affetti, la famiglia e sulla libera esplicazione della libertà della persona umana. Vengono prese in considerazione quelle forme di danno alla persona per natura diverse dal danno patrimoniale: il danno alla sfera sessuale, il danno estetico, il danno alla vita di relazione, il danno al peggioramento della capacità lavorativa, oltre alle violazioni psico-fisiche. Su questa linea la distinzione fondamentale compiuta è quella tra danno patrimoniale e non patrimoniale:
1) Il danno patrimoniale di regola si distingue in “danno emergente” e “danno da lucro cessante”. Il primo consiste nella diminuzione del patrimonio in attinenza a beni o situazioni produttive cagionate da un fatto lesivo, il secondo interessa il risarcimento del mancato guadagno causato dell’evento dannoso che ha interrotto l’attività produttiva.
2) Il danno non patrimoniale include nella sua classificazione il danno biologico, il danno morale e il danno esistenziale. Il danno può essere diretto, determinato da un danno di natura fisica (trauma, ictus, ecc…), psichica (da morte, estetico, lavorativo ecc…), o in diretto costituito dagli effetti dell’evento lesivo.
Il danno biologico, il danno morale e il danno esistenziale
Il danno biologico di natura psicologica, o danno psicologico, “consiste in una patologia psichica, che insorge dopo un evento traumatico o un logoramento sistemico di una certa entità e di natura dolosa o colposa; che si manifesta attraverso sintomi e che si stabilizzano, a seconda del tipo di evento, in un periodo variabile da uno a due anni” (Pajardi, Macrì, Merzagora Betsos, 2006). Il danno biologico è un danno primario, rappresenta il primo effetto pregiudizievole del fatto illecito. Da questa enunciazione si desumono due sostanziali conseguenze: ogni danno, fisico o psichico, con rilievo giuridico costituisce un danno biologico, in assenza di lesioni fisiche o psichiche alla persona non ci sarà danno biologico.
Il danno biologico, si prospetta come danno alla salute (art. 32 Cost.) che da un punto di vista psicologico va ben oltre la nozione di tipo medico, bensì sottolinea l’articolazione del rapporto tra individuo e contesto. Si configura così un danno in riferimento ad un concetto di salute in senso lato, ben oltre la categoria del danno patrimoniale che sottintende l’attitudine dell’individuo a produrre reddito. L’introduzione del danno non patrimoniale e nello specifico del danno biologico di natura psicologica colma le lacune del danno morale che per il suo carattere “transuente” non considera eventuali modificazioni permanenti dell’equilibrio psico-fisico della vittima del reato.
Il danno psicologico rappresenta un’alterazione dell’integrità psichica e dell’equilibrio di personalità provocata da un evento traumatico di natura dolosa o colposa, limitando fortemente l’esplicazione di alcuni aspetti della personalità nel regolare svolgimento della vita quotidiana. Il danno è comunque sempre provocato dalla correlazione tra l’evento traumatico e la struttura psichica di base dell’individuo. Non essendo la psiche osservabile o misurabile la valutazione del danno può essere fatta solo in base al suo funzionamento e quindi dalla possibilità di descrivere l’alterazione di determinati processi mentali rispetto alla condizione antecedenti al fatto illecito. La valutazione del danno psichico può evidenziarsi a seguito di tre diversi eventi illeciti (Pajardi, 2006):
1) una lesione fisica specifica (es. trauma cranico);
2) una lesione fisica aspecifica (stato depressivo conseguente all’amputazione di un arto);
3) un danno psichico “puro” (senza un danneggiamento fisico-organico es. depressione da lutto).
Il danno morale consiste nel turbamento soggettivo patito, un dolore, un disagio, una sofferenza psico-fisica che si manifesta come danno-conseguenza all’evento lesivo di natura transitoria destinata ad essere riassorbita in un breve lasso di tempo senza lasciare conseguenze di tipo patologico. La Corte Costituzionale (n. 233/2003) definisce il “danno morale come transuente turbamento dello stato d’animo della vittima”. In questo caso si parla di un danno secondario che rende difficoltoso un momento particolare della vita della persona senza comprometterne il proseguo nei suoi aspetti principali. L’accertamento del danno morale viene comprovata dalla presenza di due elementi, uno oggettivo, il fatto dannoso, il secondo soggettivo, lo stato d’animo negativo conseguente al danno.
Il risarcimento del danno morale viene liquidato dal giudice per via equitaria e non per una restituito in integrum, come avviene con il risarcimento dei beni materiali, in considerazione principalmente di tre fattori:
1) le effettive sofferenze patite dall’offeso,
2) la gravità dell’illecito di rilievo penale,
3) tutte le circostanze peculiari del caso concreto.
Il risarcimento del danno morale viene perciò definito pretium doloris, o pecunia doloris.
Il danno esistenziale costituisce una nuova voce in tema di danno risarcibile che delinea“la compromissione della qualità della vita normale del soggetto o uno stato di disagio psichico che non arriva a configurarsi come un quadro clinico patologico” (Pajardi, Macrì, Merzagora Betsos, 2006). Mentre il danno morale esprime un “sentire”, il danno esistenziale definisce una perdita di chances, un “non poter più fare” inficiando le azioni realizzatrici della persona come i rapporti familiari, affettivi, sociali, le attività di svago ed intrattenimento. Il danno morale e il danno esistenziale hanno in comune l’evento iniziale, per il resto le conseguenze sono profondamente diverse. A differenza del danno biologico, il danno esistenziale non riguarda la lesione del bene salute in senso stretto, piuttosto l’aggravamento oggettivamente riscontrabile dei presupposti di esistenza di una persona.
Il danno esistenziale pone l’individuo innanzi ad un cambiamento negativo e duraturo dello stile di vita cagionando un peggioramento della qualità della vita stessa. Si pensi al caso della nascita indesiderata di un figlio malformato, la perdita di un feto in seguito ad un incidente stradale, al danno esistenziale da violenza sessuale, al danno per immissioni rumorose eccedenti la normale tollerabilità, al danno all’immagine, alla riservatezza, alla reputazione, da denuncia infondata, da carcerazione ingiusta o al danno esistenziale a seguito dell’evento morte. Mentre nel danno biologico di natura psichica è possibile riscontare un elemento patologico-psichico, nel danno esistenziale si evidenzia un disagio psichico che non sfocia nella malattia. Con la sentenza n. 2050/2004 della quarta sezione penale (pres. Olivieri, rel. Brusco) si precisa che il “il danno esistenziale è cosa diversa dal danno biologico e non presuppone alcuna lesione fisica o psichica, né una compromissione della salute della persona, ma si riferisce ai già indicati sconvolgimenti delle abitudini di vita e delle relazioni interpersonali provocate dal fatto illecito”. Per tali ragioni il danno esistenziale viene efficacemente definito “abiologico” (Cendon P., 2001).
La vittima di danno esistenziale può manifestare alterazioni comportamentali, provare disinteresse per attività prima piacevoli, maggior affaticamento, tendenza alla passività, disturbi del sonno, riduzione dell’appetito, dell’attività sessuale, ecc. Nella categoria del danno esistenziale può essere riconosciuto il “danno riflesso”, ovvero soggetti diversi da coloro che hanno subito il fatto illecito, ma per lo stretto legame di natura affettivo-parentale patiscono un danno riflesso. Ad esempio, nel caso di un errore chirurgico che comprometta la capacità di procreazione, il danno diretto è subito dalla vittima, quello riflesso dal coniuge che vede pregiudicata anche la sua possibilità di mettere al mondo un figlio con il proprio partner. Come nel danno morale, anche in quello esistenziale l’elemento soggettivo ricopre un ruolo importante, ne consegue l’assenza di oggettivi parametri di valutazione tecnica. A differenza nel danno biologico le menomazioni psico-fisiche sono manifeste da segni e sintomi che consentono una oggettiva quantificazione percentuale del danno.
Di fronte ad un veloce evolversi della materia assistiamo ad un susseguirsi di opinioni che in itinere modificano l’interpretazioni sopra citate. E’ evidente come le due tipologie di danno esistenziale e biologico di natura psichica possano co-esistere qualora un fatto lesivo crei delle conseguenze sulla vita socio-relazionale di un soggetto tanto da sfociare in una compromissione di tipo psichico. Allo stesso tempo la nozione di danno esistenziale può essere inglobata in quella di danno morale. Se pur dotati di vita propria, autonomi e indipendenti il danno biologico, morale ed esistenziale non vanno identificati come compartimenti stagni bensì come elementi che possono essere compresenti e sovrapporsi all’interno della classificazione di danno non patrimoniale.
Diagnosi e nesso causale
Ai fini della richiesta risarcitoria è necessario accertare la sussistenza di un danno psicologico a seguito del verificarsi di un fatto illecito. E’ difatti fondamentale dimostrare sia “l’apprezzabilità giuridica”, ovvero un danno almeno di minima entità, sia il rapporto cronologico, cioè il nesso causale tra il danno subito e l’evento lesivo. Come recita l’art. 40 c.p. “…nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione o omissione…”. L’evento stesso deve essere ritenuto la condizione necessaria, sine qua non del danno psichico cagionato. Tra evento lesivo e danno psichico deve intercorrere, il criterio d’esclusione, vale a dire eliminare ogni altra possibile causa del danno.
Nella scienza forense è quindi di primaria importanza dimostrare il nesso causale ricorrendo al legame tra causa, concausa e occasione (quest’ultimo è un concetto recentemente poco utilizzato):
1) Causa come evento lesivo inteso deve avere in sé insite alcune caratteristiche:
– antecedenza: la causa deve precedere l’effetto;
– necessità: si esclude la presenza di un altro avvenimento causa del danno;
– sufficienza: l’attitudine a cagionare un effetto.
2) Concausa è l’elemento che agisce in concomitanza con altri fattori, ma che da solo non è sufficiente a cagionare il fatto lesivo.
3) Occasione come circostanza favorevole a generale l’evento (es. uno spavento può provocare la morte in un cardiopatico, non ha conseguenze su un soggetto sano).
Il lavoro del consulente consiste allora nel “poter individuare e valutare l’esistenza e la qualità del nesso causale; si tratta di effettuare una ricostruzione dei fatti e dei vissuti ora per allora” (Petruccelli F., Petruccelli I., 2004). La valutazione del danno psicologico deve tenere conto della successione temporale, della situazione antecedente il fatto, della presenza di patologie preesistenti, attraverso una ricostruzione narrativa dei fatti che analizzi la condotta comportamentale dell’individuo prima e dopo l’evento lesivo, anche con l’acquisizione di testimoni privilegiati, congiunti o altre figure informate sui fatti. Inoltre il consulente deve considerare quei fattori che contribuiscono all’evoluzione del disturbo:
1) gli eventi concernenti il fatto dannoso (la gravità del fatto stesso, la durata temporale dell’evento traumatico);
2) gli eventi antecedenti, (deficit cognitivi o disturbi di personalità già esistenti, “fattori di rischio” come un contesto familiare multiproblematico o un contesto ambientale sfavorevole);
3) gli eventi che seguono il fatto (l’accesso a mezzi economici, legali o terapeutici e a risorse affettive, sociali e relazionali possono sostenere positivamente il soggetto che ha vissuto un evento traumatico).
Per la valutazione del danno occorre prendere in considerazione anche gli aspetti multifattoriali che sono all’origine di un disturbo quali i fattori biologici, genetici, sociali senza trascurare la risposta personale all’evento critico. Ogni individuo elabora l’esperienze in modo soggettivo sia rispetto al vissuto personale, sia al significato che attribuisce ad un particolare avvenimento. Di fatti una situazione che può risultare stressante per alcuni può essere eccitante per altri come ad esempio un giro sulle montagne russe, un salto con il bungee jumping. La variabilità delle reazioni individuali si evince ancora osservando come soggetti sottoposti a lunghi periodi di stress non riportino alcun disturbo psichico reattivo, a differenza di altri soggetti che dinanzi ad avvenimenti con un livello di stress minimo evidenziano particolari disturbi psichici reattivi. Di fronte ad un evento stressante è d’obbligo l’accertamento delle possibili risposte che possono includere modificazioni fisiologiche, cognitive, emozionali e comportamentali. Anche un evento luttuoso come la morte di un animale domestico correlato ad una fragilità psichica può dare luogo ad un episodio depressivo. Sia l’identificazione di una patologia della personalità, sia l’alterazione di una o più funzioni dell’Io a seguito di un evento traumatico sono il risultato di un’insieme di fattori esogeni ed endogeni che variano da persona a persona. Precisando che non occorre un fattore predisponente nel soggetto al fine di riscontrare un danno psicologico, l’esperto ha il compito di appurare:
a) se il disturbo è causa esclusiva dell’evento dannoso,
b) se il disturbo si è aggiunto ad altri senza aggravare complessivamente le condizioni della persona,
c) se il disturbo ha favorito manifestazione di sintomi che altrimenti sarebbero rimasti celati,
d) non vi è alcun disturbo o questo si è risolto in un breve lasso di tempo senza riportare conseguenze.
Come sostiene Castiglioni (1996): “ciascuno ha diritto alla integrità della propria salute fisica-psichica, così come è, che goda della proverbiale salute di ferro, sia che soffra di un fragile equilibrio psichico”.
Altri criteri importante che il consulente deve prendere in considerazione nel suo operato sono la permanenza e la temporaneità del danno in termini probabilistici in relazione alla possibilità che la situazione patologica si stabilizzi o continui ad evolversi. Per questo i tempi di stabilizzazione possono variare da uno a due anni, tale variazione si basa sia sulla tipologia di evento che sul tipo di danno subito. Ad esempio per un incidente stradale grave è possibile effettuare una valutazione anche dopo un anno, mentre in caso di mobbing o burn-out il periodo di stabilizzazione dei sintomi si protrae fino a due anni proprio per il carattere di logoramento nel tempo che queste tipologie di danno presentano. Questo accade anche in un quadro depressivo dopo un lutto, in quanto per diagnosticare una patologia bisogna attendere i tempi di una elaborazione da lutto fisiologico. “Bisogna giudicare, secondo un criterio cronologico, se il tempo trascorso dall’azione lesiva fino alla comparsa delle prime manifestazioni di un quadro morboso sia compatibile o meno con l’esistenza di una relazione causale” (Pernicola C., 2008).
Il criterio cronologico deve seguire certamente la causa-evento senza trascurare manifestazioni di reazioni tardive al trauma che si possono verificare sia nel danno da lutto, sia nel riconoscimento del Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS).
All’interno delle relazioni causali il consulente deve saper distinguere fra le diverse fasi:
a) il verificarsi di un evento,
b) la causa dell’evento,
c) le reazioni emozionali,
d) la tipologia del danno,
e) l’entità del danno,
f) le conseguenze del danno.
Simulazione e “nevrosi da indennizzo”
La simulazione e l’enfatizzazione dei sintomi sono episodi che possono verificarsi nel corso di una consulenza peritale per ottenere risarcimenti finanziari, per sottrarsi ai procedimenti penali, per procurarsi farmaci e il consulente deve essere in grado di riconoscerli e smascherarli attraverso gli strumenti diagnostici a sua disposizione. La simulazione consiste nella creazione volontaria di sintomi fisici o psicologici falsi, o enfatizzati motivati da incentivi esterni. Innanzitutto è necessario conoscere i differenti meccanismi di simulazione che il soggetto sottoposto a perizia può mettere in atto (Pajardi D., Macrì L., Merzagora Betos I., 2006):
– creazione: il simulatore manifesta i sintomi di un determinata malattia secondo quelle che sono le opinioni delle immaginario collettivo. Di norma questo tipo di simulazione è la più facile da identificare;
– rievocazione: è una forma di simulazione che si fonda su una conoscenza diretta della sintomatologia che il soggetto ha avuto in passato;
– imitazione: l’individuo tende ad imitare i sintomi di una malattia che ha osservato in altri soggetti;
– fissazione: l’individuo continua a simulare i sintomi di una malattia anche quando questa si è conclusa positivamente.
Occorre menzionare i casi di enfatizzazione, nei quali il soggetto tende ad aggravare e prolungare i sintomi di una malattia da cui è realmente affetto per favorire degli incentivi come l’indennizzo economico.
I Disturbi Fittizi rappresentato, invece, una psico-patologia nella quale l’individuo simula consapevolmente i sintomi di una certa malattia spinto non dall’idea di ottenere un risarcimento finanziario, ma da un impulso compulsivo di assumere il ruolo del malato.
Un’altra patologia, è la nevrosi da indennizzo che porta l’individuo a manifestare i sintomi di una malattia sia a fini economici che simbolico-relazionali. In questo caso qualora i medici confermino determinati sintomi la persona rafforza l’idea del suo malanno, si sente giustificata ad esigere un indennizzo e di conseguenza i sintomi tendono a cronicizzarsi.
L’arma più efficace che il consulente ha a sua disposizione per smascherare le enfatizzazioni e le simulazioni è la coerenza fra i dati anamnestici e clinici, il colloquio e l’osservazione clinica, i risultati ai diversi test, la comunicazione verbale e non verbale. Il consulente può notare le prime avvisaglie a conferma di una simulazione proprio quando il confronto fra i dati a disposizione risulta incongruente. Ad esempio, quando i punteggi dei test sono discrepanti con il profilo comportamentale, i sintomi sono isolati e non ricollegabili ad un quadro clinico, il soggetto mostra basso autocontrollo e poca collaborazione, il comportamento verbale è discordante da quello non verbale. Di fronte a un dubbio di un caso di simulazione, il consulente può ricorrere a diverse strategie per accertare ed identificare il fenomeno traendo in inganno il simulatore con l’utilizzo di strumenti specifici. Si può sottoporre il presunto simulatore a prove con un grado di apparente difficoltà, che in realtà sono estremamente facili anche per soggetti con deficit cognitivi, si può proporre un test inducendo il soggetto a credere che la difficoltà sia commisurata al tempo di esecuzione, si possono far svolgere dei compiti nell’intervallo fra una prova e l’altra spingendo il simulatore a credere che vi sia una relazione. I test costituiscono indubbiamente una risorsa in più, occorre distinguere caso per caso. Ad esempio, i questionari abitualmente adoperati nella valutazione del danno da mobbing hanno una formulazione talmente palese da rendere impossibile la distinzione fra sintomi veri o simulati. Al contrario il test MMPI 2 è efficace nello svelare comportamenti enfatizzati, dove i simulatori solitamente ottengono punteggi elevati negli item ovvi e bassi in quelli più sottili.
Così l’approccio multi-metodo consente all’esperto di acquisire indicazioni da più fonti e dare più legittimità agli esiti dell’analisi.
Il consulente deve condurre il colloquio evitando di interrompere la narrazione del periziando, ottenere una descrizione minuziosa dei sintomi, osservare il comportamento non verbale del soggetto che dovrà essere coerente con i sintomi descritti, avvalersi di strumenti standardizzati, identificare testimoni privilegiati che possano avvalorare o meno le dichiarazioni del soggetto. Il simulatore nella manifestazione del suo comportamento nella maggioranza dei casi descrive sintomi slegati fra loro che non rispecchiano uno quadro patologico, è poco coerente nelle sue esternazioni con risposte insensate, richiama l’attenzione del consulente elencando i propri disturbi e accentuandoli, rifiuta terapie farmacologiche, i disturbi non hanno un’evoluzione lineare, drammatizza, manifesta amnesia principalmente su fatti a lui sfavorevoli, rifiuta giudizi prognostici positivi (Fornari, 2004).
A questo proposito la letteratura clinica non è unanime nel considerare gli episodi di simulazione rari o poco probabili. Se per alcuni il maggior numero di simulatori rientrano nella casistica più facile da smascherare, ovvero coloro che tendono a creare una sintomatologia in base a erronee conoscenze stereotipate condivise dal senso comune, per altri la simulazione è un fenomeno abbastanza frequente che non deve essere sottovalutato.
Riferimenti bibliografici
American Psychiatric Association, DSM-IV-TR Manuale diagnostico e statistico dei disturbi
mentali, Masson, Milano, 2001.
Buzzi F., Vanini M., Guida alla valutazione psichiatrica e medicolegale del danno biologico di
natura psichica, Giuffrè Editore, Milano, 2006.
Cendon P., (a cura di), Trattato breve dei nuovi danni, CEDAM, Padova, 2001.
Dominici R., (a cura di), Il danno psichico ed esistenziale, Giuffrè Editore, Milano, 2006.
Fornari U., Trattato di psichiatria forense, Utet, Torino, 2004.
Gulotta G., (a cura di), Elementi di psicologia giuridica e di diritto psicologico, Giuffrè Editore,
Milano, 2000.
Gulotta G., Il vero e il falso mobbing, Giuffrè Editore, Milano, 2007.
Mariotti P., Toscano G., Danno psichico e danno esistenziale, Giuffrè Editore, Milano, 2003.
Pajardi D., Macrì L., Merzagora Betos I., Guida alla valutazione del danno psichico, Giuffrè
Editore, Milano, 2006.
Pernicola C., Guida alla valutazione del danno biologico di natura psichica, Franco Angeli,
Milano, 2008.
Petruccelli F., Petruccelli I., (a cura di), Argomenti di psicologia giuridica, Franco Angeli,
Milano, 2004.
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