Con l’avvento dell’era digitale, la pervasiva diffusione dei social network ha determinato l’incontrollata condivisione di notizie, talvolta inesatte e lesive della reputazione altrui, ponendo rilevanti problemi interpretativi relativi alla possibilità di estendere la portata applicativa delle norme codicistiche alle condotte criminose realizzate nel cyberspazio.
In particolare, nell’ambito delle fattispecie virtuali configurabili su Internet, si pone il problema di stabilire se la diffamazione commessa anche per via telematica sia idonea ad integrare gli elementi costitutivi del delitto punito dall’art. 595 cod. pen.
Per un corretto inquadramento della questione, si rende necessaria una preliminare ricostruzione della tradizionale fattispecie criminosa, per poi individuare le condotte concretamente configurabili online.
Al riguardo, il delitto di diffamazione è previsto dall’art. 595 cod. pen., nell’ambito del Libro II (“Dei delitti in particolare”), Titolo XII (“Dei delitti contro la persona”), Capo II (“Dei delitti contro l’onore”) e punisce la condotta di colui che, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione.
Dopo aver delineato nel primo comma l’ipotesi criminosa base, con un parziale rinvio al delitto di ingiuria di cui al precedente art. 594 cod. pen. (“fuori dai casi indicati nell’articolo precedente”), l’art. 595 cod. pen. individua nei successivi commi una serie di specifiche circostanze aggravanti della fattispecie (rispettivamente costituite dall’offesa consistente in un fatto determinato ex comma 2; dall’offesa recata con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità ex comma 3; dall’offesa recata ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario ex comma 4), che comportano un incremento del trattamento sanzionatorio.
La norma configura un reato comune (come si evince dalla locuzione “Chiunque”) e di evento, che si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione ingiuriosa.
Gli elementi costitutivi del delitto di diffamazione sono tradizionalmente individuati nell’offesa all’onore o al decoro altrui, nella comunicazione con più persone e nell’assenza della persona offesa: a differenza del delitto di ingiuria ex art. 594 cod. pen., infatti, il delitto di diffamazione può essere consumato solo in assenza della persona offesa.
Oggetto della tutela penale del delitto di diffamazione è l’interesse dello Stato all’integrità morale della persona, in quanto il bene giuridico protetto dalla norma è la reputazione dell’uomo, comprensiva sia dell’onore sia del decoro e intesa come il senso della dignità personale nell’opinione degli altri, ossia della stima di cui l’individuo gode nel contesto sociale in cui vive, tutte le volte in cui le affermazioni diffamatorie risultino lesive dell’altrui reputazione e non possano essere considerate legittime manifestazioni della libertà di pensiero ex art. 21 Cost.
L’orientamento interpretativo prevalente della Cassazione ricostruisce in modo particolarmente ampio l’ambito di operatività del delitto di diffamazione previsto dall’art. 595 cod. pen., ritenuto sussistente tutte le volte in cui sia posta in essere una condotta lesiva dell’identità personale diretta a distorcere, alterare, travisare e offuscare il patrimonio intellettuale, politico, religioso, sociale, ideologico o professionale dell’individuo, mediante l’offesa della sua reputazione (Cass., Sez. V, sentenza del 2011, n. 37383).
Peraltro, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, anche le sole espressioni dubitative, specie nella forma dell’insinuazione, possono integrare l’intento diffamatorio punito dalla norma, atteso che, qualunque sia la forma grammaticale o sintattica della frase offensiva, ciò che conta è la concreta capacità di ledere o di mettere in pericolo l’altrui reputazione, non solo mediante l’attribuzione di un fatto illecito posto in essere contro il divieto imposto da norme giuridiche, ma anche mediante la divulgazione di comportamenti che, alla luce dei canoni etici condivisi dalla generalità dei consociati, siano suscettibili di incontrare la riprovazione della communis opinio (Cass., Sez. V, sentenza del 2014, n. 18982; Cass., Sez. V, sentenza del 1991, n. 4383; Cass., Sez. VI, sentenza del 1976, n. 1988).
Con specifico riferimento alla diffamazione a mezzo stampa, la valutazione del carattere diffamatorio di un articolo deve essere effettuata facendo riferimento all’intero contenuto, sia sotto il profilo letterale, sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data, tenuto conto di tutta l’informazione rappresentata dal testo, dalla sua interpretazione, dai titoli, dai sottotitoli, dal modo di presentazione e da ogni altro elemento utile (Cass., Sez. V, sentenza del 2009, n. 26531).
Naturalmente, ai fini della sussistenza del delitto di diffamazione a mezzo stampa, il significato delle parole dipende dall’uso che se ne fa e dal contesto comunicativo in cui si inseriscono, con la conseguenza che la lesione dell’altrui reputazione può verificarsi anche nel caso di un articolo corredato da un titolo di per sé offensivo, nel contesto di una pubblicazione che determini il mutamento del significato apparente di una o più frasi, altrimenti non diffamatorie, dando loro un contenuto allusivo percepibile dal lettore medio e persino mediante l’utilizzo di interrogativi e espressioni in forma dubitativa che siano suggestionanti, ambigue e insinuanti e, perciò, idonee ad ingenerare nella mente del lettore il convincimento dell’effettiva rispondenza a verità dei fatti narrati (Cass., Sez. V, sentenza del 2014, n. 41042).
L’elemento della comunicazione con più persone, richiesto dalla norma ai fini della sussistenza del delitto di diffamazione, non richiede che la propalazione delle frasi offensive venga posta in essere simultaneamente, potendo la stessa aver luogo anche in momenti diversi, purché risulti comunque rivolta a più soggetti (Cass., Sez. V, sentenza del 2011, n. 7408) e sussiste ove si accerti che il soggetto agente, anche eventualmente indirizzandosi ad una sola persona, abbia comunicato sostanzialmente con più persone presenti, parlando ad alta voce, cosicché la comunicazione lesiva dell’altrui reputazione risulti percepita da una pluralità di soggetti (Cass., Sez. V, sentenza del 1981, n. 10263).
Ai fini dell’integrazione dell’elemento psicologico, la Cassazione ritiene sufficiente la sussistenza del dolo generico, consistente nella volontà dell’agente di usare espressioni offensive, con la consapevolezza di offendere l’altrui onore o l’altrui reputazione (Cass., Sez. V, sentenza del 1997, n. 11663; Cass., Sez. V, sentenza del 1988, n. 6671; Cass., Sez. VI, sentenza del 1976, n. 2761).
Tale orientamento è stato confermato dalla più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui nel delitto di diffamazione (e in generale nei reati contro l’onore), deve escludersi la necessaria ricorrenza del cd. animus diffamandi e il dolo ha natura generica, potendo assumere anche la forma del dolo eventuale, essendo sufficiente che l’agente faccia consapevolmente uso di espressioni offensive, la cui idoneità sia idonea a raggiungere la sensibilità del soggetto passivo, il quale si percepisca come effettivo destinatario delle espressioni offensive (Cass., Sez. V, sentenza del 2011, n. 15060).
Ciò premesso, dopo aver ricostruito i connotati tradizionali della fattispecie criminosa prevista dall’art. 595 cod. pen., è interessante stabilire se la portata applicativa della norma sia idonea ad includere anche le condotte diffamatorie configurabili nello spazio virtuale della Rete Internet.
Negli ultimi anni la questione relativa alla ricostruzione del delitto di diffamazione in relazione alle fattispecie criminose online ha alimentato un vivace dibattito interpretativo che si inserisce nell’ambito della più generale problematica dell’estensione o meno della disciplina della stampa tradizionale alle pubblicazioni online.
L’orientamento oggi prevalente afferma la piena equiparazione tra giornale cartaceo e giornale online, mediante un’interpretazione estensiva e costituzionalmente orientata della nozione di stampa, coerente con il dettato costituzionale di cui all’art. 21 Cost. e direttamente desumibile dalla legge 7 marzo 2001, n. 62, che, nel configurare una nuova definizione di prodotto editoriale, sancisce espressamente l’estensione all’editoria online delle norme (ne abbiamo parlato in un’articolo dedicato all’approfondimento di queste specifiche tematiche).
In tale prospettiva, risulta del tutto evidente realizzare un’inevitabile adeguamento della norma codicistica alle nuove e inedite fattispecie virtuali configurabili su Internet, alla luce del crescente progresso tecnologico dell’era digitale, caratterizzata da una diffusione pervasiva dei social network, costituenti i principali strumenti di comunicazione immediatamente accessibili a tutti.
In particolare, si ritiene configurabile il delitto di diffamazione per via telematica, sussistendo anche in questo caso un’azione idonea a ledere il bene giuridico tutelato dalla norma, in considerazione del fatto che il comma 3 dell’art. 595 cod. pen., laddove configura l’offesa all’altrui reputazione con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, non ha circoscritto la portata applicativa della disciplina a specifici casi tassativamente previsti, delineando una norma elastica, aperta e, pertanto, estensibile a tutti i mezzi potenzialmente offensivi dell’interesse protetto, ivi compresi gli strumenti di comunicazione telematici ed informatici del web.
Pertanto, anche la Rete Internet è riconducibile alla locuzione onnicomprensiva “altro mezzo di pubblicità” utilizzata dall’art. 595 cod. pen., integrando, senz’altro, un’ipotesi di diffamazione aggravata.
Tali argomentazioni sono state espressamente riconosciute anche dalla recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui gli strumenti telematici sono soggetti agli stessi principi e divieti previsti dalla materia penale per tutti gli altri mezzi di comunicazione.
In particolare, la Corte di Cassazione, dopo aver ribadito che il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico, essendo sufficiente la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di almeno due persone, ha precisato che anche l’utilizzo dei social network può integrare il reato di diffamazione aggravata ex art. 595, comma 3 cod. pen.
Infatti, in questo caso la piattaforma virtuale rende la discussione accessibile ad una moltitudine indeterminata di soggetti con la sola registrazione al social network, a nulla rilevando la circostanza che in concreto la frase pubblicata sia stata letta online soltanto da una persona, in quanto ciò che conta è che il soggetto la cui reputazione sia lesa risulti individuabile da parte di un numero limitato di persone, indipendentemente dalla indicazione normativa (Cass., Sez. I, sentenza del 2014, n. 16712).
Tale principio di diritto è stato ulteriormente confermato dalla successiva giurisprudenza di legittimità, secondo cui la diffamazione via Internet è penalmente sanzionata ai sensi dell’art. 595, comma 3 cod. pen., perché commessa con altro mezzo di pubblicità (rispetto alla stampa), idoneo a determinare una maggiore diffusività dell’offesa che giustifica l’aggravamento del trattamento sanzionatorio previsto dalla norma.
Ne consegue che anche la semplice condotta di postare un commento sulla bacheca di Facebook realizza la pubblicazione, la diffusione e la circolazione del contenuto tra un gruppo di utenti comunque apprezzabile per composizione numerica e quindi potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o quantitativamente notevole di persone (Cass., Sez. V, sentenza del 2015, n. 6785; Cass., Sez. I, sentenza del 2015, n. 24431).
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