(Riferimenti normativi: Cod. pen., artt. 15; 640, L. fall., art. 218)
Il fatto
La Corte di Appello di Firenze parzialmente riformava la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Firenze del 24 marzo 2017 che, all’esito del giudizio abbreviato, aveva affermato la penale responsabilità dell’imputato per i delitti di concorso in ricorso abusivo al credito di cui all’art. 218 r.d. n. 267 del 1942 (capo A) e bancarotta fraudolenta patrimoniale (capo B, punti 1 e 2), unificati in un unico delitto di bancarotta fraudolenta impropria aggravato ai sensi dell’art. 219, secondo comma, n. 1, r.d. n. 267 del 1942 e per i delitti di concorso nelle truffe ai danni di P. G. (capo D), U. C. e G. P. (capo E) e della B. M. dei P. di S. (capo F), delitti tutti unificati dal vincolo della continuazione, condannandolo alla pena di giustizia oltre che al risarcimento del danno, da liquidarsi in sede civile, in favore delle parti civili.
In particolare la Corte di appello aveva applicato le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti riducendo la pena ad anni due di reclusione ed applicando il beneficio della sospensione condizionale della pena.
Nello specifico, all’imputato si addebitava di avere indotto V. B., imprenditore titolare della ditta G. (…), fallito il 5 giugno 2013, a ricorrere abusivamente al credito, sebbene già insolvente, emettendo fatture per operazioni inesistenti che erano state poi presentate, dal 2009 al 2012, alla filiale della B. M. dei P. di S. ove l’impresa intratteneva un conto anticipo fatture e della quale il R. era direttore; in tal modo il B. aveva ottenuto un anticipo pari al 80% dell’importo fatturato.
Al R. si addebitava pure di avere concorso con il B. nella distrazione di prestazioni rese dalla G. (…) per euro 20.000,00 e della somma di euro 14.000,00 facendosi firmare dal B. due fogli in bianco che erano stati utilizzati come distinte di prelevamento dal conto corrente bancario intrattenuto dall’impresa poi fallita.
Inoltre, al R. si imputava di avere indotto P. G., U. C. e G. P. a richiedere finanziamenti alla banca e a versare le somme così ottenute sul conto intrattenuto presso l’azienda di credito dalla G. (…) facendo falsamente credere loro ed al B. che quest’ultimo avrebbe presto conseguito un mutuo senior garantito dalla proprietà della sua abitazione pari a euro 250.000,00, somma che sarebbe stata impiegata per restituire loro le somme versate sul conto della ditta, mentre poi il mutuo non era stato erogato e le somme non erano state restituite.
Infine al R. si contestava di avere, in concorso con il B., indotto in errore la B. M. dei P. di S. attraverso l’utilizzo delle false fatture, inducendo l’azienda di credito ad anticipare alla ditta poi fallita un importo pari allo 80% delle somme fatturate.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso la suddetta sentenza ricorreva per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore, affidandosi a quattro motivi così formulati: 1) violazione degli artt. 42 e 110 cod. pen. e art. 218 I. fall. e manifesta illogicità della motivazione quanto al concorso nel delitto di ricorso abusivo al credito poiché nelle sentenze di merito era stato riconosciuto come egli non fosse stato l’ideatore del meccanismo attraverso il quale il B. aveva fatto abusivo ricorso al credito poiché tale meccanismo era stato utilizzato dal fallito già a partire dal 2006 e presso diverse aziende di credito mentre egli era divenuto direttore della filiale della B. M. dei P. di S. solo il 3 febbraio 2010 cosicché egli non aveva partecipato alle erogazioni dei finanziamenti relativi a fatture anteriori che erano state invece curate da F. P., diretto interlocutore del B.; l’imputato, quindi, ad avviso del ricorrente, non si era comportato diversamente dai direttori di filiale delle altre banche dalle quali il B. aveva ottenuto anticipazioni su fatture false fermo restando che la Corte di appello, da un lato, aveva affermato la sua penale responsabilità sulla base di presunte anomalie nelle procedure di erogazione delle anticipazioni che in realtà erano insussistenti rilevandosi in particolare che costui aveva omesso di inviare le raccomandate ai debitori ceduti mentre le indagini avevano consentito di accertare che tutti i debitori avevano ricevuto comunicazione della cessione dei crediti ma ad essa avevano omesso di rispondere così come neppure poteva ritenersi rilevante che i debitori non avessero pagato poiché da tale circostanza poteva desumersi la insolvenza degli obbligati e non quella della G. (…), dall’altro, non aveva adeguatamente motivato sulla attendibilità del B. atteso che quest’ultimo provava risentimento verso l’odierno ricorrente perché addebitava il fallimento della sua impresa proprio al R. che aveva chiuso i rapporti che essa intratteneva con la banca e aveva chiesto l’immediato rientro delle esposizioni, determinando in tal modo la chiusura dei rapporti bancari della impresa anche presso le altre banche mentre, se l’attendibilità del B. non poteva desumersi dalla natura autoaccusatoria delle sue dichiarazioni poiché la sua responsabilità per i delitti a lui contestati era già evidente, la motivazione in ordine alla attendibilità del coimputato era perfino illogica atteso che il B. era interessato a spostare sul R. le sue responsabilità e che la affermazione del B., secondo la quale egli, ricevuta dal R. la proposta di ottenere finanziamenti bancari attraverso l’utilizzo di fatture false, si sarebbe confidato con il P. che, venuto a conoscenza della proposta, avrebbe espresso stupore, era palesemente contraddetta dalla circostanza che il B. già ricorreva a tale espediente ancor prima che il R. divenisse direttore della filiale avvalendosi a tal fine proprio della collaborazione del P. e che pertanto non poteva essersi stupito; a loro volta le forniture effettuate dalla G. (…) a favore del R. avevano un valore di appena C 2.200,00 che certo non poteva costituire il prezzo del concorso nel ricorso abusivo al credito per un importo di circa C 250.000,00 mentre anche i prelevamenti attraverso i fogli firmati in bianco erano irreali e non consentiti dalla normativa neppure con l’avallo del direttore della filiale tenuto conto altresì del fatto che l’attendibilità delle deposizioni testimoniali dei truffati, essendosi questi costituiti parte civile, doveva essere valutata con particolare rigore mentre la Corte di appello, a fronte di ciò, non aveva dato risposta ai rilievi formulati nell’atto di impugnazione osservandosi in particolar modo che P. G. aveva partecipato alla formazione delle false fatture e che la stessa, come G. P., aveva interesse a figurare quale vittima di un inesistente raggiro nella speranza di poter recuperare quanto versato al B. così come neppure era credibile che il B., di età avanzata e pesantemente esposto verso le banche, potesse ottenere un mutuo garantito da ipoteca sulla abitazione pur non disponendo di redditi adeguati a far fronte alle rate del mutuo stesso mentre, quanto al P., egli era interessato ad allontanare da sé la responsabilità di avere curato le pratiche di anticipazione su fatture; il ricorrente, di conseguenza, alla stregua di quanto sin qui esposto, evidenziava come la Corte di appello, in relazione a tali rilievi, si fosse limitata ad affermare che era difficile credere che il B., il P., la G. e gli altri potessero essersi accordati allo scopo di calunniare il R., senza tenere conto che ognuno dei testi aveva ben più di un motivo per affermare il falso; 2) violazione degli artt. 42 e 110 cod. pen. e 216 I. fall. e manifesta illogicità della motivazione quanto al delitto di concorso in bancarotta fraudolenta patrimoniale visto che, ad avviso dell’impugnante, la modestia delle prestazioni conseguite dall’imputato rendevano inconsistente l’accusa e comunque egli non era a conoscenza della condizione di insolvenza in cui versava l’impresa, contraddetta dai suoi bilanci; 3) violazione dell’art. 640 cod. pen. e manifesta illogicità della motivazione quanto ai delitti di truffa dal momento che la Guardia di finanza non aveva sequestrato alcun documento relativo alla erogazione del finanziamento tramite il mutuo senior che il B. avrebbe dovuto conseguire e peraltro mai avrebbe potuto non essendo credibile che il B., di età avanzata e pesantemente esposto verso le banche, potesse ottenere ulteriore credito; in relazione a ciò, invece, la Corte di appello aveva creduto ai testi che a loro volta avevano affermato di essere stati raggirati dal R. osservando che essi potevano essere stati indotti a chiedere i finanziamenti e a mettere le somme così ottenute a disposizione del B. solo perché indotti a credere in una temporanea difficoltà dell’imprenditore che si sarebbe presto risolta con l’erogazione del mutuo mentre in realtà i testi erano tutti a perfetta conoscenza delle disperate condizioni in cui versava il B. e si erano indotti ad aiutarlo perché a lui legati da vincoli familiari (P.) o perché speravano di subentrare nella titolarità dell’impresa (G.) fermo restando che, inoltre, anche se il mutuo fosse stato erogato, il relativo importo sarebbe stato integralmente assorbito dai ben maggiori crediti che la banca vantava verso l’imprenditore cosicché non era sostenibile che essi confidassero nell’erogazione del mutuo per poter rientrare nella disponibilità delle somme date in prestito al B.; 4) violazione di legge sostenendosi, alla luce dei principi affermati dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017) e dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 200 del 2016, che la condotta descritta al capo A) dell’imputazione assorbe il reato di truffa ai danni della banca contestato al capo F) essendo identiche le due condotte e ricorrendo, quindi, un’ipotesi di concorso apparente di norme penali.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso veniva ritenuto fondato nei limiti di seguito esposti.
Si osservava prima di tutto come il primo ed il secondo motivo di ricorso fossero inammissibili avendo la Corte di Appello fornito ampia ed adeguata motivazione in ordine alle ragioni per le quali, pur a fronte dei rilievi contenuti nell’atto di appello, aveva ritenuto attendibili le dichiarazioni accusatorie del B., evidenziando che esse sono solo uno degli elementi che avevano condotto all’affermazione della sua penale responsabilità così come, anche in ordine alle deposizioni degli altri testimoni, la Corte di appello aveva illustrato le ragioni per le quali anch’esse risultano attendibili e riscontrate fornendo una motivazione esente da illogicità o contraddittorietà evidenti.
In relazione a tale quadro motivazionale, gli ermellini osservavano come all’opposto le censure del ricorrente risultassero essere attinenti esclusivamente al merito in quanto dirette a sovrapporre all’interpretazione delle risultanze probatorie operata dal giudice una diversa valutazione dello stesso materiale probatorio per arrivare ad una decisione diversa e, come tali, si ponessero all’esterno dei limiti del sindacato di legittimità dato che la decisione del giudice di merito non può essere invalidata da ricostruzioni alternative che si risolvano in una «mirata rilettura» degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione ovvero nell’autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili o perché assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006).
Infine, quanto al valore dei beni oggetto del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, i giudici di piazza Cavour facevano presente a loro avviso come la Corte di appello avesse illustrato le ragioni per le quali aveva ritenuto dimostrato il valore di euro 20.000,00 delle prestazioni rese dalla G. (…) in favore del R. in assenza di corrispettivo e provato che il R. fosse stato destinatario di somme prelevate dai C. correnti intestati alla ditta fallita così come, pure in relazione a tali aspetti, la motivazione della sentenza di appello, sempre secondo la Corte, non presentava illogicità o contraddizioni evidenti e comunque i giudici di secondo grado avevano avuto cura di precisare come la sussistenza del reato fosse indipendente dal valore dei beni oggetto di distrazione e che il R. ben sapeva che l’impresa versava in condizioni di insolvenza.
Anche il terzo motivo di ricorso veniva reputato inammissibile giacché, pure in questo caso, ad avviso del Supremo Consesso, il ricorrente si doleva della ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito e chiedeva alla Cassazione una non consentita rivalutazione del materiale istruttorio.
Veniva stimato al contrario fondato il quarto motivo alla luce delle seguenti considerazioni.
Si osservava prima di tutto come, prima che l’art. 32, comma 1, legge 28 dicembre 2005 n. 262 modificasse l’art. 218 del r.d. 16 marzo 1942 n. 267, non era possibile il concorso formale tra il delitto di ricorso abusivo al credito e quello di truffa atteso che il citato art. 218 conteneva una clausola di riserva che rendeva applicabile il delitto fallimentare solo in via sussidiaria nel caso in cui il fatto non costituisse un delitto più grave e, dunque, poiché il ricorso abusivo al credito era punito nel massimo con la pena di anni due di reclusione mentre il massimo edittale della truffa era pari ad anni tre di reclusione, nel caso in cui il fatto fosse ricaduto sotto la previsione di entrambe le norme incriminatrici, doveva ritenersi configurabile il solo delitto di truffa (Sez. 2, n. 5562 del 13/02/1986).
Pur tuttavia, avendo l’art. 32, comma 1, legge 28 dicembre 2005 n. 262 modificato l’art. 218 del r.d. 16 marzo 1942 n. 267 eliminando la clausola di sussidiarietà, sorgeva per la Cassazione il problema di verificare se sia configurabile il concorso formale dei reati e, in caso negativo, come debba essere risolto.
Si osservava a tal proposito che l’assunzione di ulteriore debito, da parte di chi esercita un’attività d’impresa e già versi in condizioni finanziarie e patrimoniali tali da rendere improbabile il suo futuro adempimento, è condotta che reca danno non solo al patrimonio del soggetto che concede il nuovo credito e che dovrà sopportare il danno derivante dell’eventuale inadempimento — come avviene nel caso della truffa -, ma anche agli interessi di coloro che sono divenuti creditori in virtù di un titolo anteriore poiché essi, in caso di insolvenza, concorreranno con il nuovo creditore e ciascuno di essi parteciperà in misura inferiore al riparto dell’attivo fallimentare e, di conseguenza, tale differenza giustifica la punibilità di ufficio del delitto di ricorso abusivo al credito.
A fronte di ciò si notava come questo illecito penale sussista solo nel caso in cui l’imprenditore, nel ricorrere o nel continuare a ricorrere al credito, abbia fatto ricorso ad un comportamento decettivo, dissimulando il proprio stato di dissesto o di insolvenza mentre non è necessario, invece, che egli, allo scopo di convincere il futuro creditore, non si sia limitato a nascondere le sue condizioni mantenendo l’altro contraente nella sua originaria condizione di ignoranza ma abbia fatto ricorso a veri e propri artifizi o raggiri allo scopo di indurre in errore l’altro contraente che, invece, sono essenziali per la sussistenza del delitto di truffa.
Si rilevava però al contempo che in entrambi i casi, comunque, ricorre un comportamento truffaldino atteso che, se nel ricorso abusivo al credito l’imprenditore approfitta della condizione di ignoranza in cui il creditore si trova, astenendosi dal comunicargli le cattive condizioni patrimoniali o finanziarie in cui egli si trova, la sua condotta è simile a quella dell’insolvenza fraudolenta di cui all’art. 641 cod. pen. che pure rientra tra i delitti contro il patrimonio commessi mediante frode.
Pur in presenza di tale tratto comune, gli ermellini evidenziavano però come gli elementi che, invece, caratterizzano il ricorso abusivo al credito sono la natura propria del delitto di cui al citato art. 218 – che può essere commesso solo dall’imprenditore e dagli altri soggetti previsti da detta disposizione e non da chiunque, come invece previsto dall’art. 640 cod. pen. — e la necessità, per la configurabilità del delitto fallimentare, dell’intervento della pronuncia di fallimento posto che, secondo la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, è ormai pacifico che il delitto di ricorso abusivo al credito, anche dopo la sua modifica per effetto dell’art. 32, comma 1, legge 28 dicembre 2005 n. 262, è punibile solo laddove intervenga la sentenza dichiarativa di fallimento (vedi Sez. 5, n. 44857 del 23/09/2014).
Orbene, sulla base di quanto sopra esposto, ad avviso della Corte, non vi è dubbio alcuno che tra le due norme sussista un rapporto di specialità che, ai sensi dell’art. 15 cod. pen., consente di individuare nell’art. 218 I.fall. la disposizione prevalente dato che il delitto di ricorso abusivo al credito ha un’oggettività giuridica più ampia di quello di truffa atteso che il disvalore di questo delitto viene assorbito in quello del reato fallimentare che è volto a tutelare non solo il patrimonio del nuovo creditore ma anche quello dei creditori preesistenti e comunque ad evitare, nell’interesse pubblico dell’economia nazionale, che soggetti destinati al fallimento facciano ricorso al credito distruggendo risorse economiche che potrebbero essere impiegate più proficuamente; proprio per tale ragione, di conseguenza, il delitto di cui al citato art. 218 si caratterizza per più elementi specializzanti rispetto alla truffa ossia per la particolare qualità che deve rivestire il soggetto attivo e la necessità che alla condotta segua la sentenza dichiarativa di fallimento, necessaria affinché il danno non resti limitato al soggetto che ha concesso nuovo credito.
Pertanto, una volta fatto presente che nel caso di specie la condotta che integra il delitto di cui al capo F) era la medesima contestata al capo A), se ne faceva conseguire che, in applicazione dei principi sopra esposti, il reato di cui al capo F) doveva ritenersi assorbito in quello contestato al capo A) e, pertanto, la sentenza impugnata dovesse essere annullata senza rinvio nella parte in cui condannava il ricorrente per il delitto di truffa ai danni della banca (capo F), assorbito nel delitto di cui all’art. 218 I. fall., e la pena dovesse essere rideterminata escludendo l’aumento di pena, per la continuazione con detto reato, in anno uno, mesi dieci e giorni venti di reclusione.
Da ultimo, si affermava come dovesse pure essere rilevata l’illegalità delle pene accessorie la cui durata è stata determinata, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 216 r.d. n. 267 del 1942, nella misura fissa di anni dieci dato che, avendo la Corte Costituzionale dichiarato, con la sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018, la illegittimità dell’art. 216, ultimo comma, r.d. n. 267 del 1942, nella parte in cui determina nella misura fissa di anni dieci la durata della pena accessoria da essa prevista, se ne faceva discendere come l’illegalità della pena, dipendente da una statuizione ab origine contraria all’assetto normativo vigente al momento consumativo del reato, è rilevabile d’ufficio nel giudizio di cassazione anche nel caso in cui il ricorso è inammissibile (Sez. 3, n. 6997 del 22/11/2017 – dep. 2018), per effetto di siffatta pronuncia, la pena accessoria inflitta con la sentenza impugnata era divenuta illegale cosicché la sentenza impugnata doveva, in tale parte, essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Firenze tenuto conto altresì del fatto che, sempre a seguito di tale pronuncia, le Sezioni Unite avevano recentemente affermato, con sentenza adottata all’udienza del 28 febbraio 2019, che la durata delle pene accessorie deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri fissati dall’art. 133 cod. pen. e non in misura pari a quella della pena principale ai sensi dell’art. 37 cod. pen..
Conclusioni
La sentenza in oggetto è assai interessante nella parte in cui esclude che il delitto di ricorso abusivo al credito concorra con quello di truffa essendo configurabile, in ossequio al rapporto di specialità di cui all’art. 15 c.p., solo il primo illecito penale, e non il secondo.
Tal che ne deriva che tale decisione deve essere presa nella dovuta considerazione ogni volta si venga a verificare una situazione giuridica di questo genere.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, dunque, proprio perché chiarisce tale tematica giuridica, non può che essere positivo.
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