L’usura consiste nello sfruttare il bisogno di denaro o di altre utilità di un altro individuo per procurarsi un ingiusto guadagno.
L’etimologia del termine usura deriva dal latino usus che indica l’utile che va riconosciuto al creditore in aggiunta alla restituzione del bene mobile o del denaro ottenuto in prestito.
La condanna dell’usura: dall’Antico Testamento al Medioevo.
Uno dei primi riferimenti documentari relativi all’usura risale al Vecchio Testamento: “se presti denaro al mio popolo, al povero che abita con te …”, si legge nel Libro dell’Esodo, “…non lo vesserai come un esattore, né l’opprimerai con le usure” e nel Levitico “non darai il tuo denaro ad usura al tuo fratello, e non esigerai un sovrappiù di frutti”.
Nel Vangelo rilevante è il famoso precetto di Cristo: “date mutuum, nihil inde sperantes”, ossia “concedete prestiti senza sperarne nulla”, contenuto nel “Discorso della montagna” (Luca 6, 35).
Così scrive al riguardo Pietro di Giovanni Olivi, teologo francescano, alla fine del Duecento, nel suo “Super Lucam”: “Cristo non dice “niente di ineguale o niente di usurario”; dice “niente” in senso assoluto. Egli vuole dunque che non speriamo niente, neanche una cosa uguale”. Il divieto di usura, dunque, è sottinteso a fortiori, dal momento che coloro che intendono seguire la vita evangelica devono prestare senza sperare nel rimborso.
L’Olivi, inoltre, coglie un aspetto positivo del comandamento evangelico allorché precisa, alla fine delle pagine che dedica a questo versetto, che vi sarebbe un precetto, insito nel Discorso della montagna, di prestare a coloro che ne hanno bisogno, cioè “gli indigenti, e quelli che chiedono, ragionevolmente, allo scopo di sostenere una vita”. L’usura, dunque, secondo l’Olivi è un peccato di particolare gravità perché contraddice una domanda di carità: consentire un prestito caritatevole è un’azione di grazia; chiedere un prezzo per questa grazia è un peccato abominevole.
E’ stato osservato che l’analisi dell’Olivi porterebbe al cuore della dottrina cristiana dell’usura (Sylvain Piron, “I paradossi della teoria dell’usura nel medioevo”, atti del convegno su “L’uomo e il denaro”, Milano 3 aprile 2006). Il Concilio di Vienna (1311-1312), infatti, dichiara eretica l’affermazione secondo cui l’usura non sarebbe peccato.
D’altra parte già Aristotele condannava l’usura ritenendola “la forma di acquisto che più di ogni altra può dirsi contro natura” ( v. Italo Cubeddu, Aristotele e l’economia, in Isonomia 2006 ). Egli, infatti, riteneva che la proprietà avesse due usi, l’uno proprio della cosa posseduta, l’altro per effettuare scambi, e che conseguentemente vi sarebbero due modi di guadagnare: lo scambio o baratto e l’accumulazione. Ne discende, sempre secondo il grande filosofo, che il modo più riprovevole di procurarsi un guadagno è quello in cui l’individuo si serve della moneta stessa al fine di accumulare altra moneta. Infatti, per Aristotele la vera funzione della moneta è quella che si ha nello scambio, e non quella per cui la moneta si accresce mediante l’interesse. Infatti, la moneta sarebbe per sua stessa natura sterile; con l’usura si moltiplica ed è per questo che l’usura è il modo più innaturale di guadagnare.
In linea con tale impostazione religiosa e filosofica gli usurai sono collocati da Dante nel VII cerchio dell’Inferno, al terzo girone, tra i violenti contro Dio e contro la natura.
L’usura nel diritto romano.
Nel diritto romano antico, la legge delle dodici tavole puniva l’usuraio, cioè chi avesse fatto prestiti ad un tasso superiore a quello legale, fissato, a quel che sembra, nel cento per cento annuo, con l’obbligo di restituire il quadruplo di quanto avesse ricevuto.
Più tardi l’azione penale fu sostituita da un’azione civile di ripetizione dell’indebito, limitata all’ammontare degli interessi.
A quanto riferiscono alcuni autori (Manzini), sembra che Cesare imperatore avesse ordinato la repressione criminale dell’usura, che tuttavia poco tempo dopo venne abolita o cadde in desuetudine.
La legislazione giustinianea, invece, disciplinò la materia degli interessi attraverso dei “massimali” su base annua. In pratica venne stabilito che i senatori non potessero chiedere più del 4%, la maggior parte della popolazione non più del 6%, mentre per gli uomini d’affari ara fissato il limite dell’8%; ma per i prestiti marittimi, ad alto rischio, si poteva giungere sino al 12%.
Tuttavia, “…sebbene l’usura fosse contraria alla moralità medievale, la proibizione di prestare a usura [di fatto] era molto rara a Bisanzio. Le esigenze dell’economia monetaria, molto sviluppata nell’impero, ignoravano i precetti della morale e il prestito a usura era stato in ogni tempo molto diffuso a Bisanzio”1.
Il delitto di usura nella legislazione degli Stati italiani preunitari e nel Codice Penale del 1859.
Negli stati italiani preunitari l’usura era punita dal Codice Penale del Regno di Sardegna del 1839 e nel Codice Penale del Granducato di Toscana, il cui articolo 408 disponeva “chiunque, abusando del bisogno di una persona che chiedeva un imprestito pecuniario, le ha dato, invece di danaro, e valutandole per una somma determinata di esso, altre cose che il ricevente fosse costretto a rivendere per fare denaro, soggiace, a querela di parte, come colpevole di scrocchio …”. Il colpevole era punito con la perdita del credito e con la multa, ma nei casi più gravi si aggiungeva il carcere da un mese ad un anno. Il debitore peraltro doveva pagare il credito, che veniva devoluto alla Cassa delle multe, consegnando le cose ricevute od il prezzo ritrattone.
Il delitto di usura era altresì preveduto dal codice parmense del 1820 (abituale esigenza di interessi superiori al legale e consegna di cose mobili in luogo del denaro) ed estense del 1855, nonché nel regolamento pontificio del 1832 (eccesso notevole nella misura degli interessi comunemente osservata nei luoghi dei rispettivi contratti, ecc.) e nella legge napoletana del 7 aprile 1828 (usura abituale)2.
Nel Codice Penale italiano del 1889, ispirato ai principi economici liberistici, il reato di usura non era previsto, a differenza del Codice Penale del 1859.
Il delitto di usura nell’ordinamento penale italiano.
Dal 1925 al 1930 Vincenzo Manzini e Alfredo Rocco lavorano al progetto del nuovo Codice Penale.
Per Manzini la punizione dell’usura deve essere limitata ai casi di strozzinaggio, in cui la vittima è appunto strozzata, presa per il collo dall’usuraio che approfitta del suo stato di bisogno.
Per Rocco “l’usura è in fondo una forma di circonvenzione: si circuisce la libertà di contrattazione che diventa viziata da questa forma di frode…”. Per lui la locuzione “profittando dello stato di bisogno”, recepita nel progetto, potrebbe rendersi anche diversamente, con la formula dell’attuale art. 643 del Codice Penale, relativo alla circonvenzione di persone incapaci3.
In seno alla Commissione ministeriale per il progetto di riforma del Codice Penale, peraltro, sono tutti d’accordo: l’usura è un fenomeno di “parassitismo sociale” che “abusa dell’inesperienza dei minori, o sospinge gli adulti a coltivare i vizi più abbietti o s’insinua nei segreti dolori delle famiglie…”. Essa poi è spesso gestita da “organizzazioni a fondo economico e teppistico insieme” (id est le organizzazioni di tipo mafioso, camorristico, ecc. che vengono identificate in modo sprezzante) e può cagionare danno all’economia nazionale, dunque deve essere estirpata4.
Manzini e alcuni commissari sostengono l’opportunità di subordinare l’incriminabilità al requisito dell’abitualità. Ma Alfredo Rocco, guardasigilli in carica, non è d’accordo: la tutela penale della vittima deve essere assicurata anche se il colpevole non è un usuraio abituale. La consuetudine del reato, osserva, opera su di un diverso piano ed importa per l’autore la qualifica di delinquente abituale o professionale, con tutte le conseguenze che ne derivano5.
Il nuovo Codice Penale, che finalmente vede la luce nel 1930, segna pertanto il ritorno del delitto di usura nell’ordinamento penale italiano.
Dal punto di vista sistematico il delitto di usura viene collocato al libro secondo, al titolo XIII, fra i delitti contro il patrimonio, nel Capo II, dal titolo: “Dei delitti contro il patrimonio mediante frode.
Il testo dell’art. 644 del Codice Penale (usura) del 1930 è dunque il seguente: “Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’articolo precedente, approfittando dello stato di bisogno di una persona, si fa da questa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o d’altra cosa mobile, interessi o altri vantaggi usurari, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da lire mille a lire ventimila.
Alla stessa pena soggiace chi, fuori dei casi di concorso nel delitto preveduto dalla disposizione precedente, procura ad una persona in stato di bisogno una somma di denaro o un’altra cosa mobile, facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario”.
Il delitto di usura, com’è configurato nel Codice del 1930 ed anche nell’attuale versione, modificata dalla legge 108 del 1996, è dunque un reato di danno, e non di pericolo: infatti, anche la sola promessa di interessi usurari costituisce un danno patrimoniale per il soggetto passivo6.
Soggetto passivo era chiunque si trovasse in stato di bisogno.
Il soggetto attivo, peraltro, doveva essere a conoscenza dello stato di bisogno.
Nell’attuale formulazione tale elemento non è sempre essenziale, ai fini della consumazione del reato, ma è considerato una aggravante.
La recente giurisprudenza ha evidenziato come lo stato di necessità si ravvisi “… in una condizione, anche provvisoria di effettiva mancanza di mezzi idonei a sopperire ad esigenze definibili come primarie, cioè relative a beni comunemente considerati come essenziali per chiunque” (Cass. N. 4627/00).
Al riguardo, si osserva che, già in sede di lavori preparatori la Commissione evidenziò come l’usura potesse anche avere origine dal vizio del soggetto passivo, non essendo previsto dalla norma incriminatrice, ai fini della consumazione del reato, alcun giudizio morale riguardo a quest’ultimo (v. Cass. N. 5079/97 e 7770/97). Infatti, la repressione dell’usura è interesse pubblico a prescindere da qualsiasi valutazione inerente la moralità della vittima.
Dunque, nella formulazione originaria, ai fini della consumazione del reato, la norma richiedeva la presenza di tre condizioni:
1) la dazione o promessa di interessi o atri vantaggi usurari;
2) lo stato di bisogno della vittima;
3) l’approfittamento dello stato di bisogno della vittima.
La norma presentava, come già accennato, degli evidenti punti di contatto con la corrispondente formulazione civilistica dell’azione generale di rescissione per lesione (art. 1448 Cod. Civ.), soffrendo delle medesime difficoltà applicative sul versante della prova della consapevolezza dello stato di bisogno da parte dell’agente, difficilmente assorbibile nella consapevolezza dell’anomala utilità conseguita rispetto a quella ordinariamente ritraibile.
Peraltro, secondo alcuni “la rilevante entità della misura degli interessi pattuiti o corrisposti dà prova anche dello stato di bisogno della persona offesa e della consapevolezza di tale stato da parte dell’agente” (Cass. n. 44899 del 2 dicembre 2008), con conseguente rovesciamento della prospettiva nel senso che l’elemento oggettivo, ossia l’entità degli interessi, assumerebbe carattere preminente rispetto a quello soggettivo, riguardante lo stato di bisogno e l’approfittamento di esso, che assumerebbe valore meramente consequenziale, finendo per essere sostanzialmente assorbito. Il che francamente lascia alquanto perplessi, anche in considerazione del fatto che lo stato di bisogno della vittima, nell’attuale formulazione della norma, come sarà precisato, costituisce una specifica circostanza aggravante.
Le recenti scelte legislative, infatti, nel prendere atto delle cennate difficoltà, hanno, almeno in parte, rimosso dalla formulazione della norma l’elemento soggettivo costituito dalla conoscenza dello stato di bisogno della vittima, relegandolo fra le circostanze aggravanti specifiche.
Si è parlato in proposito di rilettura in senso oggettivo della norma da parte del legislatore del ’967, precisando però che non si tratterebbe di responsabilità oggettiva, perché è necessario che l’agente sia cosciente di applicare un tasso d’interesse che va oltre quello consentito dalla legge.
Il delitto di usura, nell’attuale formulazione dell’articolo 644 del Codice Penale, a seguito delle modifiche ad esso apportate dall’ art. 1, primo comma, della Legge 108 del 1996, è così configurato: “Chiunque, fuori dei casi previsti dall’articolo 643 [circonvenzione di persone incapaci]., si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari, è punito con la reclusione da due a dieci anni e con la multa da euro 5.000 a euro 30.000.
Alla stessa pena soggiace chi, fuori del caso di concorso nel delitto previsto dal primo comma, procura a taluno una somma di denaro od altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario.
La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari. Sono altresì usurari gli interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria.
Per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito…”
Dalla lettura del testo normativo, a parere di chi scrive, emerge abbastanza chiaramente che quando gli interessi sono considerati usurari, anche se inferiori al limite stabilito dalla legge, perché sproporzionati, è necessario che il debitore sia in condizioni di difficoltà economica o finanziaria e che l’agente intenda approfittarne. In tal caso dunque, ai fini della consumazione del reato, è necessario il dolo specifico dell’agente.
Viceversa, la conoscenza delle difficoltà del debitore e l’intento di approfittarne non sono affatto richiesti, o per meglio dire sono presunti dalla legge, allorché il predetto limite legale sia superato. Qui pertanto è prevista ed opera pienamente la responsabilità oggettiva dell’agente, che prescinde da qualsiasi indagine in ordine all’elemento soggettivo del reato, relativo al dolo o alla colpa, per cui, ai fini della punibilità del reo è sufficiente che egli abbia agito con coscienza e volontà.
La ratio di tale distinzione è la seguente: il legislatore non ha voluto lasciare privi di tutela quei casi in cui, pur non essendo superati i limiti legali, vi è una sproporzione fra le prestazioni dell’agente e del soggetto passivo, ma in tal caso ha richiesto che sia data la prova dell’approfittamento di situazioni di difficoltà economico o finanziaria. Tale prova, invece, non è necessaria quando i tassi soglia previsti per legge sono stati oltrepassati.
Dinanzi a difese volte a far valere l’ignoranza inevitabile da parte di usurai inconsapevoli, perché ignari delle tecniche di determinazione degli interessi usurari, la Cassazione si oppone in termini apodittici, giustificabili dalla necessità di evitare un vulnus nella portata sanzionatoria della norma: “…l’errore di diritto scusabile, ai sensi dell’art. 5 cod. pen. è configurabile soltanto in presenza di una oggettiva ed insuperabile oscurità della norma o del complesso di norme aventi incidenza sul precetto penale. Ne consegue che non è scusabile l’errore riferibile al calcolo dell’ammontare degli interessi usurari sulla base di quanto disposto dall’art. 644 cod. pen., trattandosi di interpretazione che, oltre ad essere nota all’ambiente del commercio, non presenta in sé particolari difficoltà” (Cass. 36346 del 22 settembre 2003).
La determinazione del c.d. tasso soglia avviene con le modalità previste dall’art. 2 della legge 108 del 1996, come da ultimo modificato dal DL n. 70 del 2011: “Il Ministro del tesoro, sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi, rileva trimestralmente il tasso effettivo globale medio, comprensivo di commissioni, di remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse, riferito ad anno, degli interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari iscritti negli elenchi tenuti dall’Ufficio italiano dei cambi e dalla Banca d’Italia ai sensi degli articoli 106 e 107 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, nel corso del trimestre precedente per operazioni della stessa natura. I valori medi derivanti da tale rilevazione, corretti in ragione delle eventuali variazioni del tasso ufficiale di sconto successive al trimestre di riferimento, sono pubblicati senza ritardo nella Gazzetta Ufficiale.
La classificazione delle operazioni per categorie omogenee, tenuto conto della natura, dell’oggetto, dell’importo, della durata, dei rischi e delle garanzie è effettuata annualmente con decreto dei Ministro del tesoro, sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi e pubblicata senza ritardo nella Gazzetta Ufficiale…
Il limite previsto dal terzo comma dell’articolo 644 del codice penale, oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, è stabilito nel tasso medio risultante dall’ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ai sensi del comma 1 relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato aumentato di un quarto, cui si aggiunge un margine di ulteriori quattro punti percentuali. La differenza tra il limite e il tasso medio non puo’ essere superiore a otto punti percentuali”.
I commi successivi dell’attuale testo dell’art. 644 riguardano le aggravanti specifiche (ad effetto speciale) e la confisca dei beni del reo per un importo pari al valore degli interessi o degli altri vantaggi o compensi usurari.
In particolare:
“Le pene per i fatti di cui al primo e secondo comma sono aumentate da un terzo alla metà:
1) se il colpevole ha agito nell’esercizio di una attività professionale, bancaria o di intermediazione finanziaria mobiliare;
2) se il colpevole ha richiesto in garanzia partecipazioni o quote societarie o aziendali o proprietà immobiliari;
3) se il reato è commesso in danno di chi si trova in stato di bisogno;
4) se il reato è commesso in danno di chi svolge attività imprenditoriale, professionale o artigianale;
5) se il reato è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale durante il periodo previsto di applicazione e fino a tre anni dal momento in cui è cessata l’esecuzione.
Nel caso di condanna, o di applicazione di pena ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei delitti di cui al presente articolo, è sempre ordinata la confisca dei beni che costituiscono prezzo o profitto del reato ovvero di somme di denaro, beni ed utilità di cui il reo ha la disponibilità anche per interposta persona per un importo pari al valore degli interessi o degli altri vantaggi o compensi usurari, salvi i diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento dei danni”.
Di rilievo anche l’art. 644 – ter: “la prescrizione del reato di usura decorre dal giorno dell’ultima riscossione sia degli interessi che del capitale” per cui “…nel caso in cui il capo di imputazione faccia riferimento ad un fatto temporale limitato, la disposizione di cui all’art. 644-ter cod. pen. non consente di spostare in avanti la protrazione del reato in difetto di una modifica dell’imputazione o di contestazioni suppletive” (Cass. n. 45993 del 10 dicembre 2007).
Conclusioni
Come si è visto, l’attuale formulazione del reato di usura è frutto di un lungo cammino che però non può ancora dirsi concluso. La vigente formulazione soffre forse di eccessivo tecnicismo. La rilevanza del tasso soglia è probabilmente più adatta ad operare sul piano privatisitco dei rapporti, con effetti liberatori per l’onerato, che sul piano penalistico, vengono invece relegate ad un ruolo marginale quelle “concrete modalità del fatto” (violenze, minacce, ecc.) che segnano uno degli elementi più salienti dell’usura e delle organizzazioni criminali che la praticano, ma che rimangono per così dire sullo sfondo, senza contribuire alla identificazione del delitto in esame.
1 Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Einaudi, p. 171
2 v. Manzini, Diritto Penale Italiano, UTET, vol. IX, p. 752.
3 Verbale n. 57 della Commissione ministeriale per il progetto del Codice Penale.
4 v. Relazione del Presidente delle Commissione ministeriale per il progetto del Codice Penale, p. 550.
5 Verbale n. 57 cit.
6 v. Manzini, Diritto Penale Italiano, cit., p. 755.
7 F. SFORZA in E. GALANTI, Diritto delle banche e mercati finanziari, 2008, Wolters Kluver Italia, p. 1241 e ss.
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