Il difficile equilibrio tra giustizia e politica

Nella visione illuminista della disciplina dei poteri pubblici, il rapporto tra politica e magistratura è quello di un modello di netta separazione. Farsi carico della polis determinando le scelte collettive è cosa diversa dall’applicazione di quelle scelte alle controversie che possono nascere tra i membri di una comunità.
In ogni caso, sono le costituzioni liberali ad affermare chiaramente che la politica deve fare le leggi e la magistratura applicarle: due compiti, chiari e distinti a cui si deve legare la “responsabilità”, che costituisce invece il valore principale per ispirare i comportamenti di tutti gli attori costituzionali in un sistema di legalità democratica.
La regola del diritto è prodotta dalla politica ma è applicata dalla magistratura, ragion per cui, tutte le ipotesi che cercano di eliminare o confinare il ruolo dell’uno o dell’altro potere sono destinate a fallire nella pratica, ad alimentare una violenta conflittualità istituzionale nonché una esasperata sovrapposizione nelle diverse aree di competenza.
Parimenti, la storia del costituzionalismo liberale avvalora la tesi secondo cui, un sistema democratico improntato all’equilibrio tra gli organi istituzionali e ispirato alla rigida separazione tra i poteri dello Stato, conosce al suo interno delle interferenze funzionali del tutto inevitabili, quantunque il bilanciamento tra i poteri stessi rappresenti un baluardo tipico della natura realmente democratica di un Paese.
La reciproca delimitazione delle sfere di attribuzione, il corretto esercizio delle funzioni attribuite a ciascun potere, la difesa delle prerogative degli organi con funzioni apicali a presidio del funzionamento della vita pubblica ed istituzionale costituisce, infatti, una condizione necessaria per garantire che nessuno prevalga sugli altri e che le decisioni pubbliche latu sensu e l’esercizio del potere, siano il frutto effettivamente della convergenza e del bilanciamento tra istanze diverse.
In questa prospettiva, la Costituzione italiana, delinea un sistema complesso di pesi e contrappesi diretto a garantire la reciproca limitazione dei poteri e, conseguentemente, la loro leale cooperazione nell’interesse pubblico, attribuendo peraltro alla Corte costituzionale il compito di dirimere eventuali controversie tra i poteri dello Stato nell’esercizio delle loro rispettive funzioni.
Invece, da qualche decennio in Italia, assistiamo ad una persistente anomalia e cioè: il costante richiamo al fumus persecutionis, la delegittimazione della magistratura, il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro da parte di inquisiti eccellenti, o comunque di soggetti forti.
Queste strategie di contestazione tese a condizionare l’iter processuale e a stravolgerne l’esito (cioè la difesa dal processo in luogo della difesa nel processo) sono inconciliabili con sistema di stretta legalità. Anzi, secondo Gian Carlo Caselli e Livio Pepino autori di un interessante libro “Ad un cittadino che non crede nella giustizia” per Laterza editore “questo neogarantismo strumentale, diretto a depotenziare la magistratura nei confronti del potere politico ed economico, e il parallelo garantismo selettivo (che gradua le regole in base allo status sociale dell’imputato) costituiscono la negazione del garantismo classico, secondo il quale le garanzie o sono veicolo di eguaglianza o si degradano a strumento di sopraffazione e privilegio”.
Al fine di “sanare” l’attuale rottura degli equilibri, ripristinando un sistema di relazioni tra i diversi poteri pubblici che possa ritenersi parimenti rispettoso dei principi dello stato di diritto e del principio democratico, non serve soltanto aver approvato la legge Alfano che prevede forme di immunità per i titolari delle più alte cariche politico-rappresentative dello Stato, ma è necessario affrontare il nodo di una organica riforma della magistratura, della sua organizzazione e dell’effettiva garanzia del corretto esercizio delle funzioni giudiziarie, cercando di favorire il dialogo con gli operatori del sistema giudiziario e soprattutto con l’organo di autogoverno della magistratura.
Il deficit di “imparzialità” che progressivamente è venuto a connotare la percezione esterna della figura e del ruolo del magistrato sia requirente sia giudicante poggia su due questioni fondamentali: da un lato, l’apparente “contiguità” di chi svolge ruolo di pubblico ministero con i magistrati giudicanti, la quale finisce per mettere a rischio l’effettiva “parità delle parti” e la “imparzialità e terzietà” del giudice nel processo penale, in contrasto con l’art. 111, c. 2, Cost.; dall’altro, il problema dell’esercizio delle funzioni requirenti in relazione al principio costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale, che troppo spesso rischia di apparire compromesso da scelte discrezionali dei singoli magistrati circa i procedimenti da trattare.
Tutte questioni legittime, ma che possono essere risolte non attraverso una marcata separazione tra funzioni giudicanti e requirenti, ma con un meccanismo conforme e rispettoso del principio costituzionalmente compatibile di semplice distinzione delle funzioni, in cui il passaggio dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa viene consentito, ma restando comunque subordinato alla frequenza di un corso di qualificazione professionale e ad un severo giudizio di idoneità. Invece, è urgente porre la questione sulle carenze ed incapacità strutturali di un sistema giustizia che oggi non è in grado ad assicurare che i processi si concludano in tempi ragionevoli.
L’imparzialità è disinteresse personale, estraneità rispetto agli interessi coinvolti nella controversia, non anche indifferenza alle idee e ai valori. Fanno parte integrante della magistratura la partecipazione al confronto culturale di un Paese, perché non sono le idee, i valori, ma le appartenenze a ridurre l’imparzialità e il magistrato ha diritto a confrontarsi e ad essere parte integrante del dibattito pubblico. Il buon magistrato non persegue e non giudica idee, ma solo l’operato di persone chiamate a rispondere su fatti specifici.
Solo in questo modo sembra possibile ottenere il duplice risultato di creare le premesse per il ripristino dei necessari equilibri istituzionali, riconoscendo l’essenzialità delle garanzie di indipendenza ed autonomia previste dalla Carta costituzionale e, al tempo stesso, per salvaguardare il ruolo indispensabile e insostituibile che in tutti gli ordinamenti di democrazia costituzionale deve essere riconosciuto alla giurisdizione come unica istanza di terzietà e imparzialità per la tutela dei diritti dei cittadini.
 
Dott. Domenico Annunziato Modaffari

Modaffari Domenico Annunziato

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento