Il diniego del lavoratore di trasferirsi presso altra struttura lavorativa equivale all’ipotesi di dimissioni volontarie dal posto di lavoro.
Qualora si controverta sulle modalità della risoluzione del rapporto di lavoro, licenziamento orale o dimissioni, il giudice di merito deve rigorosamente esaminare l’intero quadro probatorio sicché, in ipotesi di legittimo trasferimento ad altra unità produttiva, il rifiuto di prendere servizio appare indicativo della volontà di non voler più fornire la propria prestazione lavorativa, circostanza che escluderebbe qualsivoglia ipotesi di licenziamento orale.
Ed invero, una volta accertato che il trasferimento risulta giustificato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, così come richiesto dall’art. 13, L. 300/1970, il rifiuto di aderirvi da parte del lavoratore legittima il datore di lavoro a ritenere che, tale diniego, implichi le dimissioni del dipendente o comunque una condotta tale da risultare equiparabile ad un atto di recesso dal contratto di lavoro.
E’ il caso del lavoratore raggiunto da un ordine di servizio in virtù del quale se ne disponeva il trasferimento presso un’altra unità produttiva.
La decisione veniva contestata dal dipendente, che si rifiutava di prendere servizio nella nuova sede operativa di talché il datore di lavoro, con una nota allo stesso indirizzata, desumeva la volontà di questi di rassegnare le proprie dimissioni.
Il lavoratore allora impugnava il provvedimento espulsivo dinnanzi al Tribunale di Cosenza, ritenendo il licenziamento illegittimo, siccome comminato oralmente; resisteva in giudizio la ditta datrice che eccepiva le dimissioni del dipendente.
Il giudice di prime cure accoglieva il ricorso per impugnativa di licenziamento, qualificando tuttavia il provvedimento espulsivo quale licenziamento per giustificato motivo, ritenendolo nondimeno illegittimo.
Sul gravame proposto dalla società resistente, la Corte d’Appello di Catanzaro, in parziale riforma della sentenza di primo grado, riteneva si fosse al cospetto di un licenziamento orale, in considerazione del fatto che la nota della ditta datrice era indicativa della volontà della stessa di non avvalersi più delle prestazioni lavorative del dipendente, pur tuttavia alla stessa non seguiva alcuna formale intimazione di licenziamento.
Il giudice d’appello, dopo aver ritenuto comunque giustificato il trasferimento, in considerazione del fatto che la società si era trasferita definitivamente in un’altra città, nella quale aveva appunto spostato la propria sede e presso la quale il dipendente sarebbe stato addetto, accertava il diritto dello stesso alla prosecuzione del rapporto di lavoro, con condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni.
Propone ricorso per la cassazione della sentenza la società datrice, la quale affida lo stesso a quattro motivi di diritto, tra cui, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2 della L. 604/1966, per avere la Corte d’Appello ritenuto – una volta accertata la legittimità del trasferimento – si vertesse nell’ipotesi di licenziamento orale, e ciò nonostante la volontà del lavoratore di non ottemperare al trasferimento e, pertanto, nella vigenza delle sue dimissioni volontarie.
Ha resistito con ricorso incidentale, affidato a due motivi di diritto, il lavoratore.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6225, pubblicata in data 31.03.2016, previa riunione dei ricorsi, accoglie quello della ditta datrice, cassando la decisione di secondo grado e rinviando alla medesima Corte territoriale, in diversa composizione, per l’applicazione del principio di diritto appresso riportato.
Premette la Suprema Corte che: “E’ consolidato l’orientamento, per il quale, nell’ipotesi di controversia in ordine al quomodo della risoluzione del rapporto (licenziamento orale o dimissioni), si impone un’indagine accurata da parte del giudice di merito, che tenga adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie (cfr., fra le altre, Cass. 20 maggio 2005, n. 10651)”.
Ritiene, quindi, che una siffatta verifica non sia stata compiutamente svolta dal Giudice di secondo grado che, a dire della Corte di legittimità, ha circoscritto la propria indagine alla sola nota della ditta datrice con la quale la stessa dava atto del rifiuto del proprio dipendente a trasferirsi presso la nuova unità produttiva, desumendo che la stessa fosse “indicativa della volontà di non volersi ricevere la prestazione lavorativa”.
Così facendo, tuttavia, “la sentenza ha di fatto completamente espunto dall’indagine in oggetto la questione della legittimità del trasferimento del lavoratore, pur avendo tale legittimità esplicitamente affermato in altra parte della motivazione ed altresì espressamente statuito nel dispositivo”.
Pertanto, la sentenza impugnata risulta errata “sotto il profilo della falsa applicazione di norme di diritto, avendo la Corte di appello ricondotto la fattispecie concreta nell’area del licenziamento senza che gli elementi acquisiti e (non compiutamente) valutati a tal fine le consentissero di pervenire alla suddetta conclusione”.
Nella nuova emananda decisione, quindi, la Corte territoriale stante l’anzidetto principio di diritto, dovrà anche uniformarsi ai dettami relativi alla distribuzione dell’onere probatorio tipico della disciplina delimitante i licenziamenti.
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