Il diritto alla disoccupazione nel caso di dimissioni per “giusta causa” del lavoratore

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 Indice:

  1. Il recesso per giusta causa nel codice civile. Interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali.
  2. Le dimissioni per giusta causa del lavoratore secondo la giurisprudenza
  3. Chiarimenti dell’Istituto nazionale della Previdenza sociale
  4. Volume consigliato

 

  1. Il recesso per giusta causa nel codice civile. Interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali.

La dottrina dei primi del ‘900 tendeva a considerare la giusta causa come “una violazione della fiducia posta a fondamento del rapporto di lavoro, riconducibile a fatti non necessariamente inerenti all’inadempimento contrattuale”. [1]

La prima fonte normativa all’interno della quale è possibile scorgere le “tracce” del recesso per giusta causa è la legge sull’impiego privato (R.D.L. 13.11.1924, n. 1825), secondo la quale era consentito recedere, ripetiamolo – per giusta causa – quando vi era “mancanza così grave da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto”. Dunque, la predetta legge enucleava – per la prima volta – il concetto di recesso, oltreché quello di giusta causa.

Il codice civile, che in un certo senso conserva la stessa natura corporativa della legge poc’anzi citata, riprende la tipizzazione legale di giusta causa del ‘25 nelle poche righe dell’articolo 2119, secondo il quale: “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente.

Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto la liquidazione coatta amministrativa dell’impresa. Gli effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro sono regolati dal codice della crisi e dell’insolvenza”. [2]

Secondo la teoria oggettiva di alcuna autorevole dottrina,[3] nella nozione di giusta causa si ricomprendono, oltre a tutti quei comportamenti che costituiscono un grave inadempimento contrattuale, anche quei fatti e comportamenti idonei a ledere il rapporto fiduciario intercorrente tra datore e prestatore di lavoro.

Sostenendo quanto asserisce la dottrina dianzi richiamata, la letteratura giurisprudenziale conferma che sono ricompresi nella nozione di giusta causa, non solo i gravi inadempimenti contrattuali, ma anche tutti quei comportamenti che vanno – in ogni caso – a ledere la fiducia sottesa al rapporto di lavoro. [4]

In netta antitesi rispetto alla suindicata teoria, si pone quella contrattuale – di altra non meno autorevole dottrina -, secondo la quale “la giusta causa alluderebbe unicamente a fatti inerenti ad un inadempimento contrattuale colpevole”. [5] I sostenitori della teoria contrattuale ritengono che nella giusta causa rientrino esclusivamente quelle condotte che integrano le fattispecie di grave inadempimento contrattuale, poste in essere con dolo o colpa dal prestatore, escludendo – pertanto –  tutte quelle condotte estranee alla disciplina pattizia attinenti alla sfera privata o riconducibili al rapporto personale tra datore di lavoro e lavoratore. [6] Ad ogni modo, nel caso di licenziamento per giusta causa, il comportamento del lavoratore deve essere valutato sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo. [7]

La giurisprudenza, inoltre, enuncia un ulteriore requisito al quale deve soggiacere il recesso per giusta causa, ovverosia l’immediatezza della irrogazione della sanzione espulsiva rispetto all’infrazione contestata.[8] Il requisito dell’immediatezza, pur non essendo esplicitamente inserito nella norma di riferimento, discende direttamente dalla gravità degli addebiti contestati, i quali, per definizione, escludono una prosecuzione anche solo provvisoria del rapporto contrattuale ed è ritenuto dalla giurisprudenza un elemento costitutivo della giusta causa. [9]

Si legga anche:

  1. Le dimissioni per giusta causa del lavoratore secondo la giurisprudenza

Tra le condotte del datore che possono essere ascritte alla giusta causa, vi rientrano quella concernenti al mancato pagamento della retribuzione. [10]

Vi sono, inoltre, una serie di comportamenti che la giurisprudenza ha qualificato come idonei ad integrare la giusta causa, tra cui: 1) il comportamento ingiurioso posto in essere dal superiore gerarchico nei confronti del dipendente; 2) il mancato rispetto delle norme poste a tutela della salute del dipendente; 3) l’aver subito molestie sessuali nei luoghi di lavoro; 4) l’essere destinatario di modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative o di trasferimento senza che ricorrano le “comprovate esigenze tecnico, produttive e organizzative” di cui all’art. 2103 cc; 5) l’ essere vittima di mobbing, ossia di crollo dell’equilibrio psico-fisico del lavoratore a causa di comportamenti vessatori da parte dei superiori gerarchici o dei colleghi (spesso, tra l’altro, tali comportamenti consistono in molestie sessuali o “demansionamento”, già previsti come giusta causa di dimissioni); 6) l’aver sopportato notevoli variazioni delle condizioni di lavoro a seguito di cessione ad altre persone (fisiche o giuridiche) dell’azienda; 8) il comportamento ingiurioso posto in essere dal superiore gerarchico nei confronti del dipendente .[11]

  1. Chiarimenti dell’Istituto nazionale della Previdenza sociale

In tema di dimissioni per giusta causa e relativa corresponsione dell’indennità di disoccupazione (oggi Naspi- Mini Naspi), l’ente previdenziale altro non fa che accogliere l’orientamento della sentenza n. 269/2002 della Corte Costituzionale. Nello specifico, l’istituto – in linea con quanto stabilito dal giudice delle leggi – chiarisce che verranno accolte le domande di richiesta dell’indennità ordinaria di disoccupazione, solo nelle ipotesi di dimissioni per giusta causa, sinora individuate dalla giurisprudenza. Inoltre, le predette domande dovranno essere corredate dalla documentazione “da cui risulti almeno la sua volontà di difendersi in giudizio nei confronti del comportamento illecito del datore di lavoro (allegazione di diffide, esposti, denunce, citazioni, ricorsi d’urgenza ex articolo 700 c.p.c., sentenze ecc. contro il datore di lavoro, nonché ogni altro documento idoneo), impegnandosi a comunicare l’esito della controversia giudiziale o extragiudiziale. Laddove l’esito della lite dovesse escludere la ricorrenza della giusta causa di dimissioni, si dovrà procedere al recupero di quanto pagato a titolo di indennità di disoccupazione, così come avviene nel caso di reintegra del lavoratore nel posto di lavoro successiva a un licenziamento illegittimo che ha dato luogo al pagamento dell’indennità di disoccupazione”. [12]

Le casistiche giurisprudenziali rapidamente passate in rassegna nel paragrafo precedente e che interessano i casi nei quali l’ente deve concedere, previa esibizione della documentazione summenzionata, l’indennità ordinaria di disoccupazione, riguardano anche la disoccupazione agricola.

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Note

[1] Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, Milano, 1901.

[2] L’art. 376 del dlgs. n. 14 del 2019 (che ai sensi del Decreto-Legge 24 agosto 2021, n. 118 entrerà in vigore il 16/05/2022) ha disposto la sostituzione del comma 2 dell’art. 2119 cc, con il seguente: “Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto la liquidazione coatta amministrativa dell’impresa. Gli effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro sono regolati dal codice della crisi e dell’insolvenza”.

[3] Cfr. Santoro Passarelli, Giusta causa, in NN.D.I., VII, Torino, 1961; Carinci, De Luca Tamajo, Tosi, Treu, Diritto del lavoro, Torino, 1997, 388

[4]Cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 07/11/2000, n. 14466; Cass. civ., 05/01/1980, n. 43; Cass. civ., 24/07/1968, n. 2688, Leggi d’Italia

[5] Riva Sanseverino, Diritto del lavoro, Padova, 1958, pag. 449 cit.

[6] Cfr. Fabio Mazziotti, Il licenziamento illegittimo, Napoli, 1982; Edoardo Ghera, Diritto del lavoro, Bari, 2002

[7] Cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 21/11/2000, n. 15004; Cass. civ. Sez. lavoro, 23/06/2000, n. 8568; Cass. civ. Sez. lavoro, 04/04/2000, n. 4138, Leggi d’Italia

[8] L’articolo 7 dello statuto dei lavoratori (L. 20 maggio 1970 n. 300) dispone che al lavoratore deve essere preventivamente contestato l’addebito. Questi, dalla contestazione dell’inadempimento, ha 5 giorni di tempo (o altro termine migliorativo individuato dalla contrattazione collettiva) per fornire riscontro al datore o chiedere audizione. Solo dopo il riscontro del prestatore, e in ogni caso decorso inutilmente il termine dei 5 giorni, il datore potrà procedere alla irrogazione della sanzione – nel caso di specie – espulsiva.

[9] Cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 06/09/2006, n. 19159 (rv. 592369); Cass. civ. Sez. lavoro, 20/06/2006, n. 14115 (rv. 590336); Cass. civ. Sez. lavoro, 20/06/2006, n. 14113 (rv. 590330); Cass. civ. Sez. lavoro, 15/05/2006, n. 11100 (rv. 590787), Leggi d’Italia

[10] La sentenza del Tribunale di Genova, Sez. lavoro, 11/06/2004, ha ritenuto che le dimissioni del lavoratore, presentate dopo 23 mesi dalla mancata corresponsione dell’emolumento, sono accompagnate da giusta causa con relativo diritto alla percezione dell’indennità sostitutiva del preavviso.

[11] Cfr. sent. Tribunale Torino Sez. lavoro, 03/04/2004; Cass. civ. Sez. lavoro, 01/08/1995, n. 8419; (Corte di Cassazione, sentenza n. 1074/1999; Corte di Cassazione, sentenza n.5977/1985

[12] Circolare Inps n. 163 del 20 ottobre 2003

Dott. Domenico Giardino

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