Il diritto alla salute fra accreditamento sanitario, contenimento della spesa e operatività della clausola di salvaguardia

Diana Vitale 31/05/22
Nel sistema dell’accreditamento sanitario le clausole di salvaguardia sono funzionali alla tutela del diritto alla salute, quale bene superiore costituzionalmente garantito, e non sono foriere di indebita compressione del diritto di agire in giudizio dell’operatore privato, il quale ben può valutare il proprio interesse a coltivare il contenzioso in atto e, quindi, a non sottoscrivere la clausola, fermo restando che, anche sottoscrivendo la clausola, mantiene intatto il proprio diritto d’azione in giudizio, costituzionalmente garantito, in relazione alle sopravvenienze.

Adito per la riforma della sentenza resa dal Tar Lazio, Latina, sez. I, n. 404/2020 il Consiglio di Stato affronta il tema della spesa sanitaria, nel complesso sistema dell’accreditamento sanitario, permettendo così alcune riflessioni quanto alla validità, e all’operatività, della cd. clausola di salvaguardia.

Nel servizio sanitario nazionale il passaggio dal regime del convenzionamento esterno al regime (attuale) dell’accreditamento previsto ex art. 8 d.lgs. n. 502/1992 (s.m.i.) non ha modificato la natura del rapporto esistente tra l’Amministrazione e le strutture private, che rimane di natura sostanzialmente concessoria (Cass. civ., sez. I, ord., 6 settembre 2021, n. 24003).

Al tempo stesso il contratto per la regolamentazione delle prestazioni sanitarie è, a tutti gli effetti, un contratto di diritto privato che non concorre alla determinazione dell’azione autoritativa della P.A., bensì si pone a valle di essa recependo – quale contenuto vincolato – il budget fissato dagli atti amministrativi di programmazione (T.a.r. Calabria, Catanzaro, sez. II, 22 luglio 2021, n. 1510).

Con la precisazione secondo cui l’osservanza del tetto di spesa (sanitaria) rappresenta un vincolo ineludibile che costituisce la misura delle prestazioni sanitarie che il s.s.n. può erogare e che può permettersi di acquistare da ciascun erogatore privato (accreditato), con la conseguenza che deve considerarsi giustificata (anche) la mancata previsione di criteri di remunerazione delle prestazioni extra budget per la necessità di dover comunque rispettare i tetti di spesa e, quindi, il vincolo delle risorse disponibili (Cons. Stato, sez. III, 8 gennaio 2019, n. 184; Cass. civ., sez. III, 29 ottobre 2019, n. 27608).

L’inserimento, nell’accordo contrattuale de quo (tra amministrazione sanitaria e struttura privata accreditata), della cd. “clausola di salvaguardia” impone all’operatore di accettare incondizionatamente il budget assegnato dall’azienda sanitaria locale.

Tale clausola è ritenuta legittima operando lo schema tipico dell’acquiescenza, per cui l’operatore, con la sottoscrizione della stessa, rinuncia, sul piano sostanziale, alla posizione giuridica lesa dal provvedimento e, sul piano processuale, al proprio diritto a ricorrere in giudizio (Cons. Stato, sez. III, 28 ottobre 2020, n. 6569).

Ciò in particolare nelle regioni sottoposte al piano di rientro dal disavanzo sanitario (e ai successivi programmi operativi) dove l’accettazione della clausola di salvaguardia da parte della struttura privata equivale all’assunzione di un impegno al rispetto degli stringenti vincoli di programmazione economico-finanziaria e di spesa imposti dallo Stato (Cons. Stato, sez. III, 10 gennaio 2022, n. 165; T.a.r. Lombardia, Milano, sez. III, 14 gennaio 2022, n. 79; Trib. Vasto, 6 aprile 2021, n. 94;).

La clausola di salvaguardia è, quindi, meramente ricognitiva dell’effetto preclusivo dell’iniziativa impugnatoria che si produce, per generale opinione giurisprudenziale, nel caso in cui il soggetto pregiudicato dal provvedimento ponga in essere atti, comportamenti o dichiarazioni univoci che dimostrino la chiara e incondizionata volontà dello stesso di accettarne gli effetti e l’operatività (T.a.r. Lazio, Roma, sez. III, 3 maggio 2018, n. 4968).


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La giurisprudenza amministrativa, con l’affermazione della legittimità di tale clausola, ne protegge la duplice finalità ad essa sottesa (Cons. Stato, sez. III, 22 febbraio 2017, n. 836; Cass. civ., sez. III, 6 luglio 2020, n.13884) e cioè a dire:

– da una parte, garantire il necessario contenimento della spesa sanitaria nelle regioni che presentino un deficit economico finanziario;

– dall’altra, evitare che il rispetto dei vincoli finanziari, attuato con la sottoscrizione di accordi contrattuali compatibili con le risorse regionali disponibili, possa essere esposto ad iniziative in sede giurisdizionale in grado di compromettere o porre in pericolo gli obiettivi perseguiti dalla Regione.

L’adesione volontaria all’accordo, alla cui stipula l’operatore economico non è affatto costretto, suggella quindi la priorità dell’esigenza di contenimento della spesa pubblica, funzionale alla continuità dell’erogazione di prestazioni sanitarie.

L’interessato infatti, qualora ritenga insufficiente il budget assegnatogli dalla Regione, può scegliere di operare in regime di libera concorrenza, accettando il rischio d’impresa connesso alle normali dinamiche competitive del mercato, rispetto alle quali una attività economica privata svolta a fini di lucro, ma in regime protetto di riserva, e sostenuta da un finanziamento pubblico, costituisce una fattispecie del tutto speciale.

Se è vero, dunque, che la stipulazione degli accordi in esame è condizione imprescindibile per l’erogazione di prestazioni sanitarie con oneri a carico del servizio sanitario, non può non valere anche il reciproco, ovvero che una volta siglato lo stesso, peraltro senza alcuna riserva, le prestazioni erogabili a carico del pubblico erario sono quelle e solo quelle ivi ritenute compatibili con gli atti di programmazione generale vigenti in relazione all’attuale stato della spesa pubblica, colpito da stringenti restrizioni finanziarie.

Dalla non negoziabilità dei vincoli finanziari imposti dal piano di rientro discende che agli operatori privati – come anticipato –  si pone unicamente l’alternativa se accettare le condizioni derivanti da esigenze programmatorie e finanziarie pubbliche (e dunque il budget assegnato alla propria struttura) onde permanere nel campo della sanità pubblica, ovvero se collocarsi esclusivamente nel mercato della sanità privata.

Sul versante della parte pubblica sottoscrittrice del contratto, è parimenti evidente che – in difetto di una valida accettazione della clausola di salvaguardia da parte dell’altro contraente – non sarebbe possibile programmare efficacemente la spesa sanitaria nell’incertezza degli effettivi tetti di spesa (Cons. Stato, sez. III, 11 gennaio 2018, n. 137).

La stretta compenetrazione tra profili pubblicistici e privatistici, che connota la gestione del servizio sanitario regionale, implica dunque la prevalenza del primo e della conseguente fase di programmazione e quantificazione delle risorse, su quella di ottimizzazione del profitto imprenditoriale.

Ci si è interrogati, ancora, sulla possibilità, o meno, di formulare una domanda condanna, ex art 2041 c.c., a titolo di indebito arricchimento della ASL (sempre in riferimento alle prestazioni erogate extra budget).

In attuazione di una importante pronuncia delle S.U. della Cassazione (n. 10798 del 26 maggio 2015) si è precisato che, anche in materia di prestazioni rese a vantaggio della P.A., il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicché il depauperato che agisce ex art. 2041 c.c. nei confronti della P.A. ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, esso potendo, invece, eccepire e provare che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole, e che si trattò, quindi, di arricchimento imposto.

L’imposizione non comporta indennizzo alcuno a chi l’imposizione abbia effettuato, secondo i principi generali contrari alla coazione/costrizione nei rapporti tra i soggetti.

Al fine di ravvisare l’imposizione è sufficiente che la P.A. abbia deliberato un tetto di spesa adempiendo ai suoi obblighi di legge di sana gestione delle finanze pubbliche e lo abbia comunicato agli interessati, in ciò ravvisandosi in modo inequivoco il suo diniego a sostenere una spesa superiore, quindi il suo non accettare prestazioni che siano ulteriori rispetto a quelle che generano un corrispettivo nei limiti di spesa (Cass. civ., sez. un., 18 giugno 2019, n.16336).

In conclusione, dal punto di vista della ratio, la clausola di salvaguardia deve ritenersi funzionale a definire ogni ipotesi di conflitto, già in essere o potenziale, relativa a concrete e definite questioni che possano contrapporre l’amministrazione alla struttura privata operante nell’ambito della sanità pubblica.

Viene in rilievo un prevalente interesse pubblico munito di preminente valore costituzionale perché implicante un difficile equilibrio tra la preservazione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), nel suo nucleo irriducibile, e le esigenze di contenimento della spesa nel settore della sanità pubblica (art. 81 Cost., come sostituito dalla L. Cost. n. 1/2012).

Sentenza collegata

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