L’autodeterminazione e il diritto alla procreazione
Quando facciamo riferimento al diritto all’autodeterminazione, viene in rilevo la libertà di espressione dell’uomo, la sua sfera più intima, la sua libera scelta negli aspetti di vita relazionale. Ad oggi è importante sottolineare come questo concetto stia attraversando una fase di evoluzione – un vero e proprio work in progress – che ne ha ampliato notevolmente la portata. Si tratta di un diritto – quello all’autodeterminazione – che ha rappresentato una vera e propria lotta sociale ma che inizialmente era un diritto solo “su carta”; solo di recente – finalmente – ha trovato uno spazio e un riconoscimento nella vita dei consociati. Pensiamo alla Legge 40 del 2004[1], che ha introdotto e regolamentato la procreazione medicalmente assistita (pma) in Italia e che ha permesso alle coppie sterili o infertili di vedere garantito il loro diritto “ad avere un figlio”, ma soffermiamoci anche sulla Legge 194 del 1978[2] relativa all’interruzione della gravidanza: se mettiamo a confronto le due Leggi in questione, viene in rilievo come, se da un lato, si garantisce il diritto della coppia ad accedere ad un percorso di pma per riuscire ad avere un bambino (quando la stessa coppia sia impossibilitata ad averne in modo “naturale” a causa di problemi riproduttivi), dall’altro, si garantisce il diritto a non diventare genitore in presenza di determinati rischi per la gravidanza o per patologie del feto. In questo senso, l’articolo 1[3] della Legge 194 del 1978 parla di tutela della “vita umana dal suo inizio” e di riconoscimento del “valore sociale della maternità”. Quindi, se da un lato la coppia sterile o infertile può tentare di ottenere la tanto e “agognata” gravidanza, accedendo ad un percorso caratterizzato da una serie di cicli di pma, dall’altro, la madre può decidere di interrompere la gravidanza qualora questa comporti problemi per la gestante stessa o per il feto che ad esempio non abbia possibilità di una vita autonoma e dignitosa (artt. 6 e 7 l. 194/78). Il concetto di genitorialità ad oggi sembra essere sempre più lontano dal legame “di sangue” e questo è particolarmente evidente nella pma eterologa e nella gestazione per altri. In particolare, con riguardo alla prima, nella sua originaria formulazione, la Legge 40 del 2004 vietava nel nostro Paese il ricorso alla fecondazione eterologa (mediante utilizzo di gameti provenienti da donatori esterni rispetto alla coppia), consentendo solo la procreazione medicalmente assistita tramite l’uso di ovuli, spermatozoi o gameti della coppia stessa. Tale divieto è stato superato con la storica sentenza 162 del 2014[4] della Corte Costituzionale, con la quale i magistrati italiani hanno superato un ostacolo all’effettivo esercizio del diritto del singolo all’autodeterminazione. Invece, nel caso della GPA o gestazione per altri (detta anche surrogazione di maternità), l’embrione che viene impiantato nell’utero della “portatrice” può anche essere il frutto della combinazione di gameti di donatori esterni rispetto alla coppia richiedente. Ci sono ordinamenti che la regolamentano e ne ammettono alcune forme (come l’Ucraina) mentre altri ordinamenti – come il nostro – la sanzionano a livello penale (art. 12 l. 40/2004). La Corte Costituzionale è intervenuta più volte su tale pratica, dichiarando come la tecnica in questione “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”[5]. Tuttavia, il tema della GPA è molto affrontato nella giurisprudenza italiana perché, nonostante tale pratica sia vietata nel nostro ordinamento, ci sono coppie italiane che, desiderando un figlio, si sono recate all’estero (nei Paesi dove tale pratica è ammessa e regolamentata) e hanno dovuto affrontare il problema di ottenere la registrazione all’anagrafe italiana dell’atto di nascita del bambino nato all’estero mediante questa tecnica. La genitorialità ha mille sfaccettature e questo è ben evidente nel concetto di “omogenitorialità” su cui si segnala una pronuncia recente della Corte Costituzionale a seguito di una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Venezia; nello specifico, la vicenda parte dalla richiesta di due donne (unite civilmente) di essere registrate entrambe come madri nell’atto di nascita di un minore. In particolare, il bambino era nato in Italia grazie alla fecondazione assistita perfezionata all’estero e, di conseguenza, era desiderio della madre intenzionale essere considerata genitore a tutti gli effetti esattamente come la madre biologica. La Corte, in particolare ammette che è vero che “la genitorialità del nato a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita è legata anche al consenso prestato, e alla responsabilità conseguentemente assunta, da entrambi i soggetti che hanno deciso di accedere ad una tale tecnica procreativa, […] ma occorre pur sempre che quelle coinvolte nel progetto di genitorialità così condiviso siano coppie «di sesso diverso»”[6]. La Corte, in sostanza, fa leva sull’art. 5 l. 40/2004 che tra i requisiti per accedere alle tecniche di pma prevede che la coppia sia composta da soggetti di “sesso diverso”[7]. Ancor più di recente, sul tema, si ritiene opportuno segnalare le sentenze 32 e 33 del 2021 della Corte Costituzionale nelle quali si torna nuovamente sul tema del riconoscimento del rapporto di filiazione (e in particolare del rapporto tra genitore e figlio) in riferimento alla figura del genitore intenzionale. In ambedue le sentenze, la Corte chiarisce come nel nostro ordinamento ci sia un vero e proprio vuoto normativo in materia e ribadisce come “il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, dovrà al più presto colmare il denunciato vuoto di tutela, a fronte di incomprimibili diritti dei minori. Si auspica una disciplina della materia che, in maniera organica, individui le modalità più congrue di riconoscimento dei legami affettivi stabili del minore, nato da PMA praticata da coppie dello stesso sesso, nei confronti anche della madre intenzionale”[8]. Con sentenza 32 del 2021 la Corte dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8 e 9 l. 40/2004 e 250 c.c. (sollevate in riferimento agli artt. 2, 3, 30 e 117, primo comma, della Costituzione) e la stessa afferma che “i nati a seguito di PMA eterologa praticata da due donne versano in una condizione deteriore rispetto a quella di tutti gli altri nati, solo in ragione dell’orientamento sessuale delle persone che hanno posto in essere il progetto procreativo. Essi, destinati a restare incardinati nel rapporto con un solo genitore, proprio perché non riconoscibili dall’altra persona che ha costruito il progetto procreativo, vedono gravemente compromessa la tutela dei loro preminenti interessi”[9]. La vicenda relativa alla sentenza 33 del 2021 della Corte Costituzionale riguarda una coppia omosessuale (avente nazionalità italiana) che si era unita in matrimonio in Canada e decideva di ricorrere alla maternità surrogata; ciò che veniva richiesto, una volta che la coppia faceva ritorno in Italia, era il riconoscimento del provvedimento canadese che attribuiva la genitorialità ad entrambi gli uomini. Sottolineando ancora una volta l’esistenza di un vuoto normativo su questa importantissima tematica, la Corte Costituzionale afferma che “il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata – nel contesto del difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori […]- non può che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco”[10]. Se in passato si tutelava essenzialmente il rapporto di filiazione – e in particolare il rapporto genitore-figli – basato sul legame “di sangue”, ad oggi il panorama giurisprudenziale apre le porte ad un lento (ma graduale) “cambio di passo”. Infatti, alla base delle recenti pronunce si ritrova il cosiddetto concetto di “best interest of the child”, criterio fondamentale nelle controversie concernenti i minori. In tal senso si è espressa la Convenzione ONU sui diritti dei minori (CRC) firmata a New York nel 1989[11].
L’autodeterminazione e il diritto a morire “dignitosamente”
Inoltre, il diritto all’autodeterminazione viene in rilievo anche in riferimento alle ipotesi del c.d. “suicidio assistito”. A tal proposito, si ritiene opportuno menzionare la vicenda di Marco Cappato, il quale aveva aiutato Fabiano Antoniani (detto Fabo) ad andare in Svizzera per praticare il suicidio assistito in quanto lo stesso versava in una condizione di tetraplegia a seguito di un gravissimo incidente stradale. Si tratta sicuramente di una vicenda che ha una forte componente etica. La svolta relativa a questa situazione viene in rilievo con la sentenza n. 242 del 2019, con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento)[…], agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”[12]. In casi come questi viene in rilievo il diritto a morire con dignità, il diritto di scegliere come e quando morire e, di conseguenza, il diritto di scegliere per la propria vita. Ad oggi si è messo un punto a questa vicenda, ma è anche vero che il cammino è stato lungo e faticoso. Inizialmente, infatti, la Corte Costituzionale aveva invitato il Parlamento italiano a legiferare sul tema del suicidio assistito, anche se poi, di fronte all’inerzia parlamentare si è pronunciata con la declaratoria di incostituzionalità sopracitata. Questa tecnica del “passare parola” al Parlamento è stata poi utilizzata dalla Corte altre due volte: una relativamente al reato di diffamazione a mezzo stampa in cui la Corte[13] ha concesso un anno di tempo al Parlamento italiano (termine che scadrà il 22 giugno 2021) per legiferare e rendere la disciplina interna relativa a questo reato compatibile con l’art. 10 CEDU nonché con la giurisprudenza stessa della Corte EDU, e un’altra, relativamente alla tematica dell’ergastolo ostativo in cui la Corte[14] ha sottolineato l’incompatibilità della relativa disciplina con gli articoli 3 e 27 della Costituzione nonché con l’art. 3 CEDU.
La pronuncia n. 141/2019 della Corte Costituzionale
Il diritto all’autodeterminazione, in questo senso, viene in rilievo anche in una pronuncia della Corte Costituzionale, con la quale la stessa si è pronunciata su una questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3 della nota Legge Merlin[15] con riferimento agli articoli 2, 3, 13, 25 (secondo comma), 27 e 41 Cost., nella parte in cui la stessa Legge prevede come illecito a livello penale il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione qualora quest’ultima sia “volontariamente e consapevolmente esercitata”[16]. La Corte tuttavia, ha ritenuto non fondate le questioni sollevate anche con riferimento al concetto di autodeterminazione; infatti, ha sostenuto come «non può essere certamente condiviso l’assunto del giudice rimettente, stando al quale la prostituzione volontaria rappresenterebbe una “modalità autoaffermativa della persona umana, che percepisce il proprio sé in termini di erogazione della propria corporeità e genitalità (e del piacere ad essa connesso) verso o contro la dazione di diversa utilità”»[17]. Inoltre, la Corte sottolinea come “l’offerta di prestazioni sessuali verso corrispettivo non rappresenta affatto uno strumento di tutela e di sviluppo della persona umana, ma costituisce – molto più semplicemente – una particolare forma di attività economica”[18].
La declinazione del diritto alla vita
È importante sottolineare come il diritto alla vita sia sempre stato considerato come un diritto indisponibile nel nostro ordinamento giuridico. Se consideriamo gli articoli 2, 3 e 13 della Costituzione viene in rilievo come lo Stato appresti una forte tutela al diritto alla vita poiché da questo si sviluppano gli altri diritti inerenti alla persona umana e lo stesso si pone come fondamento dei diritti inviolabili dell’uomo. Se consideriamo la vicenda del caso Cappato viene in rilievo il diritto di scegliere come morire, il diritto di scegliere se continuare a vivere. Molto recentemente (fine Aprile 2021) si è messo un punto alla vicenda che coinvolge Walter De Benedetto (che è stato assolto) il quale fece utilizzo della cannabis a fini terapeutici. Nello specifico, si tratta di un uomo che, affetto da una forma di artrite reumatoide molto grave, traeva dei benefici dall’utilizzo di questa sostanza. Anche in questa vicenda viene in rilievo il diritto alla cura e il diritto all’autodeterminazione della persona. In conclusione, potremmo dire come il diritto alla vita trovi una regolamentazione e una vera e propria estrinsecazione nel diritto all’autodeterminazione: si può scegliere di vivere ma si può anche scegliere quando cessare di farlo qualora vengano meno le condizioni per una vita dignitosa. Così come si può scegliere di diventare genitore nonostante impedimenti di tipo “naturale”, allo stesso tempo si può decidere di interrompere una gravidanza per evitare problemi di tipo fisico o psichico per la gestante o per il feto. Ancora una volta, con il diritto all’autodeterminazione si tutela la vita.
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Note
[1] “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”
[2] “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”
[3] Art. 1 l. 194/78: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutelala vita umana dal suo inizio”.
[4] Corte Cost., 162/2014, in www.cortecostituzionale.it
[5] Corte Cost., 272/2017, in www.cortecostituzionale.it
[6] Corte Cost., 230/2020, in www.cortecostituzionale.it
[7] Art. 5 l. 40/2004
[8] Corte Cost., 32/2021, in www.cortecostituzionale.it
[9] Ibidem
[10] Corte Cost., 33/2021, in www.cortecostituzionale.it
[11] Art. 3, comma I, Convenzione sui diritti dell’infanzia approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre del 1989 e ratificata dall’Italia con Legge 27 maggio n. 176 del 1991
[12] Corte Cost., 242/2019, in www.cortecostituzionale.it
[13] Corte Cost., ordinanza 132/2020, in www.cortecostituzionale.it
[14] Comunicato Corte Cost., 15 aprile 2021, in www.cortecostituzionale.it
[15] Legge n. 75 del 1958 (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui)
[16] Corte Cost., 141/2019, in www.cortecostituzionale.it
[17] Ibidem
[18] Ibidem
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