Il diritto di abitazione del coniuge superstite
Con l’apertura della successione il coniuge superstite acquista, ex articolo 540, secondo comma, del Codice Civile, il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare.
L’acquisto avviene a titolo di legato ex lege e pertanto il coniuge ne diviene titolare immediatamente all’apertura della successione senza necessità di accettazione[1], ferma restando la possibilità per lo stesso di dismettere tale diritto con uno specifico atto di rinuncia che, avendo ad oggetto un diritto immobiliare già acquisito nel patrimonio del coniuge medesimo per effetto della successione, dovrà rivestire la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata.
Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che si tratta dello stesso diritto disciplinato dagli articoli 1022 e seguenti del Codice Civile precisando però che per il coniuge superstite non trova applicazione la disposizione dell’articolo 1022 del Codice Civile che limita il godimento ai bisogni del titolare.
Tale eccezione viene giustificata dal fatto che il diritto di cui al secondo comma dell’articolo 540 del Codice Civile non viene riconosciuto al fine di far fronte alle esigenze abitative del coniuge superstite bensì al fine di soddisfare il suo bisogno, di natura non patrimoniale, di continuare ad abitare in quella che era la residenza familiare per conservare il legame affettivo ed abitudinario formatosi durante la vita coniugale, mantenere le relazione sociali preesistenti ed il tenore di vita goduto fino a quel momento.
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L’assegnazione della casa familiare in caso di separazione o divorzio
La casa coniugale è il teatro della vita familiare, fulcro degli interessi e delle abitudini in cui si realizza la vita della famiglia. La notevole complessità delle problematiche connesse all’abitazione si ripercuote inevitabilmente sulla sua assegnazione, in sede di separazione o divorzio.Non v’è dubbio, infatti, che, in occasione della crisi matrimoniale, l’assegnazione della casa adibita a residenza della famiglia rappresenti uno dei motivi di maggior conflitto, in quanto vengono a scontrarsi esigenze e diritti contrapposti, tutti oggetto di esplicita tutela costituzionale: da un lato, l’esigenza del coniuge, non proprietario, di continuare ad abitare nella casa che ha rappresentato il centro degli affetti e dell’organizzazione domestica; dall’altro, la necessità di tutelare il diritto, costituzionalmente garantito, alla proprietà privata.Il legislatore, nel regolamentare la materia – che non riesce a fornire un’apprezzabile soluzione a tutti i problemi sociali e giuridici –, ha spostato l’attenzione dai genitori alla famiglia, composta anche dai figli, i cui interessi devono essere prioritariamente privilegiati, all’evidente scopo di salvaguardare il bisogno dei minori (o anche dei figli maggiorenni non ancora economicamente autosufficienti o portatori di handicap) di mantenere inalterati i rapporti con l’ambiente in cui sono vissuti.Quindi solo l’interesse dei figli a non subire ulteriori cambiamenti dovuti alla crisi familiare e a conservare un minimo di continuità e regolarità di vita è l’unico motivo che può spingere a sacrificare (limitare) il diritto di proprietà.Giuseppe Bordolli, Consulente legale in Genova ed esperto di diritto immobiliare. Svolge attività di consulenza per amministrazioni condominiali e società di intermediazione immobiliare. È collaboratore del quotidiano Condominio 24 Ore on line e cartaceo e di varie riviste di diritto immobiliare. Autore di numerose pubblicazioni in materia di condominio, mediazione immobiliare, locazione, divisione ereditaria, privacy, nonché di articoli e note a sentenza. È mediatore e docente in corsi di formazione per le professioni immobiliari
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Presupposto oggettivo del diritto
Il diritto de quo ha ad oggetto, come espressamente previsto dalla norma che lo disciplina, la casa adibita a residenza familiare di proprietà del defunto o di entrambi i coniugi.
Richiamando la definizione di cui all’articolo 144 del Codice Civile, tale abitazione può essere individuata nel luogo in cui i coniugi hanno concordemente fissato “la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa”.
In merito la giurisprudenza di legittimità ha precisato che, coincidendo l’oggetto del diritto di abitazione mortis causa “con la casa adibita a residenza familiare, esso si identifica con l’immobile in cui i coniugi – secondo la loro determinazione convenzione assunta in base alle esigenze di entrambi – vivevano insieme stabilmente organizzandovi la vita domestica del gruppo familiare”.[2]
Ai fini dell’acquisto occorre pertanto che alla data di apertura della successione entrambi i coniugi dimorino effettivamente nell’abitazione.
Il soggetto titolare del diritto
Il soggetto a favore del quale si produce l’acquisto del diritto de quo, secondo l’articolo 540 del Codice Civile, è il coniuge.
Quindi, implicitamente, resta escluso dall’acquisto colui che non era legato al defunto da un vincolo di coniugio.
La lettera di questa norma ha portato la costante giurisprudenza di legittimità ad affermare che il convivente more uxorio, in quanto tale, non può divenire titolare del diritto previsto dal secondo comma dell’articolo 540 del Codice Civile.[3]
Lo stesso dicasi anche per il partner dell’unione civile, fermo restando che costui, in forza dell’articolo 1, comma 42, della legge 20 maggio 2016 n. 76, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza acquista il diritto di continuare ad abitarla seppure per un periodo limitato di tempo.
Ovviamente l’esclusione opera anche in caso di scioglimento del matrimonio e di cessazione degli effetti civili dello stesso posto che in forza di tali pronunce il preesistente vincolo coniugale si estingue.
L’esclusione del coniuge separato senza addebito dall’acquisto del diritto di abitazione
Dubbi interpretativi sono invece sorti per il coniuge separato ed in particolare per il coniuge separato senza addebito.
L’articolo 548, primo comma, del Codice Civile equipara il coniuge separato senza addebito al coniuge non separato stabilendo che il primo ha gli stessi diritti successori del secondo.
L’equiparazione di cui alla predetta norma sembra permettere l’acquisto del diritto di abitazione anche in capo al coniuge separato senza addebito considerato anche il fatto che il vincolo di coniugio, nonostante la separazione, è ancora in essere.
Ma uno degli effetti propri della separazione personale, indipendentemente dall’imputabilità o meno della stessa, è quello di sospendere l’obbligo di coabitazione.
Pertanto, in caso di coniugi separati, l’apertura della successione interviene in un momento in cui, vivendo essi separatamente, risulta difficile individuare la residenza familiare.
Manca quindi il presupposto oggettivo previsto dal secondo comma dell’articolo 540 del Codice Civile per l’acquisto del diritto di abitazione nel senso sopra richiamato di casa in cui i coniugi “vivevano insieme stabilmente organizzandovi la vita domestica del gruppo familiare “.
In questo senso si è espressa la Corte di Cassazione che con ordinanza n. 15277 del 5 giugno 2019 ha ritenuto di dover dare continuità al principio già affermato dalla stessa giurisprudenza di legittimità secondo il quale “In caso di separazione personale dei coniugi e di cessazione della convivenza, l’impossibilità di individuare una casa adibita a residenza familiare” fa “venire meno il presupposto oggettivo richiesto ai fini dell’attribuzione dei diritti in parola”.
Gli Ermellini hanno precisato inoltre che l’acquisto è altresì negato laddove la casa già adibita a residenza familiare sia stata assegnata in sede di separazione al coniuge superstite poichè anche in questo caso manca l’effettiva coabitazione dei coniugi alla data di apertura della successione.
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Note
[1] Cassazione Sezioni Unite 27 febbraio 2013 n. 4847; Cassazione Civile 9 aprile 2019 n. 9890.
[2] Cassazione Civile 12 giugno 2014 n. 13407.
[3] Cassazione Civile 27 aprile 2017 n. 10377.
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