A cura della dott.ssa Filomena Farina e della dott.ssa Fabiana Vaino
Scopo di questo articolo è quello di porre innanzitutto in evidenza il processo di adesione compiuto dal legislatore al cd. ‘right to know’ del cittadino, dapprima passando dall’accesso documentale all’accesso civico, per poi introdurre l’accesso civico generalizzato, pienamente strumentale all’interesse individuale alla conoscenza della ‘cosa pubblica’ da parte dei privati. Si esamina, altresì, il diritto di accesso in relazione alla fase esecutiva dei contratti di appalto, analizzando il dictum del recentissimo pronunciamento dell’Adunanza Plenaria del 2020.
L’accesso documentale come ‘need to know’ del privato: interesse legittimo o diritto soggettivo?
Disciplinato dagli artt. 2 e ss. della legge n. 241/1990, l’accesso documentale rappresenta l’archetipo del diritto di accesso e si sostanzia nella possibilità riconosciuta ai privati di chiedere alla Pubblica Amministrazione di visionare ed estrarre copia di atti e documenti da essa detenuti, laddove ne abbiano un interesse diretto, attuale e concreto.
Come evidenziato da autorevole dottrina, l’accesso documentale è stato lo strumento mediante il quale si è attuato il processo garantistico di trasformazione della PA da struttura ‘impermeabile’ a ‘casa di vetro’, il cui contenuto diviene cioè conoscibile ai privati.
Trattasi di un diritto ‘servente’ rispetto ad alcuni diritti costituzionalmente garantiti, quali il diritto di informazione ex art. 21 Cost. e il diritto di difesa ex art. 24 Cost.; nonché di un diritto ‘funzionale’ a garantire il buon andamento dell’Amministrazione di cui all’art. 97 Cost.
Condizione imprescindibile affinché il privato cittadino possa avanzare istanza di accesso documentale alla PA, è che egli abbia un ‘interesse diretto, attuale e concreto’ alla conoscenza del documento.
Il legislatore, dunque, non ha inteso tutelare il cd. ‘right to know’, ossia il diritto di conoscere, bensì il cd. ‘need to know’, e cioè il bisogno di conoscere allo scopo di salvaguardare un proprio diritto soggettivo o interesse legittimo.
L’accesso de quo, quindi, non viene protetto come un diritto fine a se stesso, ma come un diritto finalizzato a tutelare una situazione soggettiva.
Estremamente dibattuta è stata la natura giuridica del diritto di accesso documentale, atteso che la dottrina si è divisa tra coloro che sostengono si tratti di un interesse legittimo e coloro che invece ne affermano il carattere di diritto soggettivo.
Secondo i fautori della tesi della natura di interesse legittimo, il legislatore usa l’espressione ‘diritto’ di accesso in senso atecnico, solo per enfatizzarne il fondamento costituzionale, atteso il collegamento con gli artt. 21, 24 e 97 Cost..
Stando a questo filone di pensiero, il termine di trenta giorni per proporre ricorso al GA avverso il diniego opposto dalla PA all’istanza di accesso, è un termine decadenziale, in quanto tale incompatibile con la natura di diritto soggettivo della posizione del privato istante.
Secondo i fautori della tesi della natura di diritto soggettivo, occorre enfatizzare il dato letterale, ossia il fatto che il legislatore, nel riferirsi all’accesso, utilizza il termine ‘diritto’.
Tali autori ritengono che il termine di trenta giorni per ricorrere al GA avverso il diniego della PA non è affatto un termine di decadenza, per cui, una volta intervenuto il diniego, il diritto di accesso del privato non si consuma, e l’istanza può sempre essere rinnovata.
Ebbene, il dibattito sin qui analizzato è stato composto dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 6/20061, nella quale è stato espressamente affermato che l’accesso documentale è un diritto soggettivo, avente però una morfologia diversa rispetto a quella degli altri diritti soggettivi.
La Plenaria ha chiarito che esso non si sostanzia nell’aspirazione a conseguire un bene della vita inteso come ‘utilità finale’, ma a conseguire un bene della vita che è ‘strumentale’ alla tutela di un altro bene-interesse: l’accesso, infatti, mira ad ottenere la conoscenza di un documento o di un atto che è strumentale a tutelare un’altra posizione soggettiva del privato.
Quanto asserito dall’Adunanza Plenaria ha trovato conferma in una pronuncia del 2007 del Consiglio di Stato2, il quale ha precisato che la natura di diritto soggettivo dell’accesso documentale viene desunta, oltre che dal dato letterale utilizzato dal legislatore, anche dalla stessa natura dell’actio ad exhibendum che il privato esercita dinnanzi al GA entro trenta giorni dal diniego della PA: spiega il C.d.S. che il GA non verifica la legittimità o meno del diniego, ma la spettanza o meno del privato alla conoscenza del documento.
Con l’actio ad exhibendum non si instaura affatto un giudizio impugnatorio sulla legittimità dell’atto amministrativo, bensì un processo avente ad oggetto il rapporto tra privato e Amministrazione: il GA non si limita ad annullare il diniego, verificandone la illegittimità, ma indaga sul rapporto, sostituendosi alla PA nel valutare la spettanza del privato e, in caso positivo, emettendo un ordine di esibizione nei confronti della PA.
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Legittimazione attiva e passiva dell’accesso documentale; l’ambito oggettivo.
Legittimato a richiedere l’accesso documentale è chiunque dimostra di avere un interesse diretto, attuale e concreto alla conoscenza del documento, cioè chiunque sia titolare di una situazione soggettiva meritevole di tutela collegata al documento di cui si richiede l’esibizione.
L’unica ipotesi in cui il ‘quivis de populo’ può avanzare istanza di accesso documentale è quella in materia ambientale di cui al d.lgs. 195/2005, il quale – facendo eccezione alla disciplina sull’accesso documentale fissata dalla l. 241/90 – consente a chiunque, indipendentemente dalla dimostrazione dell’interesse, di accedere agli atti o ai documenti di un procedimento ambientale, attesa la straordinaria rilevanza della materia ambientale, tale da giustificare un controllo generalizzato.
Quanto ai legittimati passivi della richiesta di accesso documentale, l’art. 22 della legge sul procedimento amministrativo fa riferimento, oltre che agli enti pubblici, anche ai gestori di pubblici servizi, ossia ai soggetti di diritto privato che svolgono attività di pubblico interesse, ma solo limitatamente a siffatte attività.
Orbene, in relazione all’ambito oggettivo dell’accesso documentale, l’art. 22 l. 241/90 prevede che l’accesso in disamina debba avere ad oggetto ‘i documenti comunque detenuti dalla PA’: esso non può pertanto riguardare informazioni che non siano contenute in documenti.
La giurisprudenza3 ha precisato che il privato non può avanzare istanza di accesso alle sentenze, da qualunque organo giurisdizionale siano esse emesse; invece, ha ritenuto accessibili gli atti interni, quali i pareri obbligatori – che si riverberano sul contenuto del provvedimento finale – e gli atti che, seppur privi di rilevanza esterna, sono idonei ad influenzare concretamente lo svolgimento dell’attività amministrativa.
L’art. 24 della l. 241/90 pone alcune eccezioni all’accesso documentale, ossia annovera alcuni casi in cui il privato non può esercitare il diritto d’accesso ex art. 22.
Trattasi, segnatamente, dei procedimenti in materia tributaria, dei procedimenti di pianificazione e programmazione, nonché delle prove concorsuali in relazione ai documenti contenenti informazioni di carattere psico-attitudinale.
Proprio in riferimento alle prove concorsuali, in giurisprudenza si è posto il problema della possibilità o meno per il candidato di esercitare il diritto di accesso agli elaborati degli altri concorrenti.
Ebbene, i giudici di merito4 hanno fornito una risposta negativa al suddetto quesito, asserendo che se è vero che i temi riflettono una certa soggettività di ciascun concorrente, tuttavia è anche vero che nel momento in cui gli elaborati vengono consegnati, il loro contenuto fuoriesce dalla sfera soggettiva dei candidati che, consegnando, accettano di partecipare ad una pubblica competizione.
Sempre in relazione alle prove concorsuali, altro problema affrontato dalla giurisprudenza attiene alla necessità o meno di attendere l’espletamento del concorso, e quindi la correzione di tutti gli elaborati, per poter accedere alle prove scritte.
Il C.d.S.5 ha asserito che sono legittimi i regolamenti concorsuali che differiscono l’accesso al momento della conclusione del concorso, per evitare che le continue istanze di accesso possano bloccare il lavoro della Commissione.
Dinnanzi a tale postulato, però, la giurisprudenza dei TAR6 ha fatto delle importanti precisazioni, dicendo che la preoccupazione di bloccare il lavoro della Commissione non sussiste allorquando si intende fare accesso propri temi – e non a quelli degli altri candidati – se già corretti: in tal caso, il differimento sarebbe illegittimo.
Dal ‘need to know’ al ‘right to know’.
Autorevole dottrina ha evidenziato come il diritto amministrativo, negli ultimi anni, ha avuto un importante cambio di rotta, perché il legislatore ha acquisito consapevolezza di una immanente criticità dell’accesso documentale di cui agli artt. 22 e ss. della l. 241/90, vale a dire il fatto che, per accedere agli atti della PA, occorreva necessariamente dimostrare di avere un interesse concreto, diretto e attuale alla conoscenza di quegli atti.
A partire dagli anni ’10 del nuovo millennio, nel nostro ordinamento si è registrata una tendenza ad assecondare delle forme di accesso più allargate, svincolate dalla dimostrazione dell’interesse.
In particolare, si cominciava a riflettere su un dato importante, ossia sul fatto che l’informazione in possesso dell’Amministrazione è essa stessa un bene-interesse a cui il privato aspira, al fine di effettuare un controllo esplorativo generalizzato sull’operato della PA.
Ebbene, sulla scorta di tale rilievo, il legislatore ha introdotto delle nuove forme di accesso, la cui logica non è quella di tutelare il ‘need to know’, bensì il ‘right to know’, vale a dire il diritto del cittadino all’informazione sulla ‘cosa pubblica’, inteso come un diritto soggettivo meritevole di tutela sulla scorta dell’art. 10 della CEDU.
La predetta norma riconosce la libertà di espressione di ogni cittadino: la Corte di Strasburgo nel 20167 ha interpretato tale disposizione nel senso che la libertà di espressione include anche il diritto del cittadino ad essere informato, atteso che nel momento in cui egli incrementa il suo patrimonio conoscitivo acquista anche una migliore possibilità di interfacciarsi con la Pubblica Amministrazione.
Accesso civico ordinario e accesso civico generalizzato.
Ordunque, il ‘right to know’ è stato assecondato innanzitutto dal cd. decreto trasparenza n. 33/2013, che con l’art. 5 co. 1 ha introdotto l’accesso civico ordinario.
Non si tratta di un vero e proprio diritto di accesso, quanto più di un obbligo per la PA di pubblicare e diffondere sui propri siti istituzionali non documenti, bensì informazioni e notizie relative alla propria attività ed organizzazione, ai servizi erogati, alle risorse utilizzate, così da incrementare la conoscenza da parte dei cittadini dell’apparato organizzativo dell’Amministrazione.
Mentre l’accesso documentale riguarda i documenti cartacei in possesso della PA, per ottenere i quali bisogna dimostrare di averne l’interesse, l’accesso civico ordinario opera ad ampio raggio, riferendosi più in generale a notizie e informazioni in possesso della PA, per ottenere le quali non occorre provare l’interesse.
La Pubblica Amministrazione, infatti, è obbligata per legge alla diffusione di quelle notizie, sicché chiunque, a fronte della inadempienza della PA, può fare istanza di accesso civico al fine di ottenere la pubblicazione dell’informazione omessa.
La giurisprudenza8 ha precisato che se l’accesso documentale viene richiesto per un atto soggetto a pubblicazione obbligatoria, allora l’istanza si converte in quella di accesso civico ordinario.
Il passo definitivo compiuto dal legislatore verso l’affermazione del ‘right to know’ è stato quello dell’introduzione dell’accesso civico generalizzato o libero o universale, con il d.lgs. n. 97/2016, che ha inserito il co. 2 all’art. 5 del decreto trasparenza n. 33/2013.
L’accesso civico generalizzato consente a qualunque cittadino di accedere ad atti e documenti della PA senza essere tenuto alla dimostrazione di un interesse concreto, diretto ed attuale, al solo fine di partecipare al dibattito politico.
Il diritto d’accesso nella fase esecutiva dell’appalto: il caso e le questioni sollevate nel 2019 dal Consiglio di Stato all’Adunanza Plenaria.
Un’impresa seconda classificata all’esito di una gara di appalto, avanzava istanza di accesso agli atti di gara al fine di ottenere l’esibizione dei documenti inerenti l’esecuzione del contratto di appalto da parte dell’impresa aggiudicataria.
Lo scopo della seconda classificata era quello di verificare se vi erano state inadempienze nell’esecuzione dell’appalto, così da ottenere lo scorrimento in suo favore della graduatoria o il rinnovo della procedura di evidenza pubblica.
La stazione appaltante rigettava la richiesta di accesso sul presupposto che la seconda classificata non avesse un interesse diretto, attuale e concreto alla conoscenza dei documenti di gara, ma solo un interesse esplorativo non qualificato.
Secondo la stazione appaltante, inoltre, quand’anche si fosse voluto convertire l’istanza da accesso documentale ad accesso civico generalizzato, tuttavia anche quest’ultima avrebbe dovuto essere respinta, poiché l’accesso civico generalizzato non poteva operare in materia di contratti pubblici.
Orbene, come evidenziato da autorevoli autori, il caso sopra esplicato ha sollevato molti punti di domanda, che possono essere schematizzati in quattro questioni che nel 2019 il Consiglio di Stato9 ha rimesso all’Adunanza Plenaria.
In primo luogo, il C.d.S. si chiedeva se, nel momento in cui non sussistevano i presupposti per concedere l’accesso documentale, poteva dirsi sussistente un obbligo in capo alla PA o al GA di convertire la domanda del cittadino in quella di accesso civico generalizzato.
Sul punto, sussistevano due diversi orientamenti giurisprudenziali.
Secondo una prima tesi10, se il cittadino aveva fatto istanza di accesso documentale ai sensi dell’art. 22 l. 241/90 per far valere una sua posizione qualificata, allora la PA era tenuta a pronunciarsi solo su quella posizione, senza poter convertire la domanda in quella di accesso civico generalizzato in caso di diniego.
Secondo un’altra tesi11, invece, occorreva distinguere l’ipotesi in cui il cittadino non avesse etichettato la domanda, proponendo sic et simpliciter istanza di accesso: in tal caso la PA, laddove avesse ritenuto insussistente un interesse qualificato, ben poteva esaminare quella domanda anche come istanza di accesso civico generalizzato, e questo per il principio di economia processuale, atteso che in caso contrario il privato una volta ottenuto il diniego poteva sempre presentare apposita istanza di accesso civico generalizzato.
In secondo luogo, il C.d.S. chiedeva alla Plenaria di esprimersi in relazione alla questione se una impresa seconda classificata poteva dirsi titolare di un interesse concreto, diretto e attuale alla conoscenza di un documento della fase esecutiva di un contratto di appalto.
Anche su questo punto si contendevano il campo due orientamenti giurisprudenziali.
Da un lato12, vi era chi sosteneva che la seconda classificata non poteva avanzare istanza di accesso documentale perché non aveva alcun interesse qualificato alla conoscenza del documento.
Secondo questo filone di pensiero, l’impresa seconda classificata era titolare di un interesse soltanto ‘eventuale’: essa era interessata alla risoluzione del contratto di appalto e allo scorrimento della graduatoria o al rifacimento della gara, ma si trattava di un interesse solo eventuale perché l’impresa ancora non sapeva, nel momento in cui presentava la domanda di accesso, se c’era stato effettivamente un inadempimento dell’impresa aggiudicataria.
Un interesse effettivo ed attuale nasceva solo dopo aver avuto contezza del documento, nel caso in cui si riscontrava una inadempienza contrattuale: tuttavia, l’art. 22 l. 241/90 richiedeva che l’interesse fosse già esistente al momento della presentazione della domanda.
Dall’altro lato, in un’ottica più possibilista, vi era chi sosteneva che la seconda classificata ben poteva dirsi già titolare di un interesse qualificato, il quale era immanente nel fatto stesso si avere partecipato alla gara.
Se la seconda classificata, durante la procedura evidenziale, aveva la possibilità di accedere agli atti di gara, non si vedeva perché essa non potesse avere la stessa possibilità e, quindi, lo stesso interesse, anche nella fase esecutiva del contratto.
In terzo luogo, il C.d.S. rimetteva alla Adunanza Plenaria la questione se l’accesso civico generalizzato fosse compatibile o meno con la materia dei contratti pubblici.
La questione si poneva perché l’art. 53 Cod. App. rinviava espressamente all’art. 22 l. 241/90, senza alcun riferimento anche all’accesso civico di cui all’art. 5 co. 2 del decreto trasparenza 33/2013.
Si è così posto un problema di diritto intertemporale, atteso che la giurisprudenza si interrogava se il d.lgs. 97/2016 – introduttivo del co. 2 dell’art. 5 del decreto trasparenza -, essendo di poco successivo al Codice Appalti, non avesse in realtà abrogato l’art. 53.
Ebbene, una parte della giurisprudenza sosteneva che vi era stata abrogazione, per cui in materia di appalti poteva operare solo l’accesso civico generalizzato.
Altra parte della giurisprudenza negava, invece, l’intervenuta abrogazione, sul rilievo che l’art. 53 concerneva un settore altamente speciale, dominato da interessi speciali, che poco si prestava ad essere eterointegrato o soppiantato da norme generali come quella di cui all’art. 5 co. 2.
Vi era anche un ulteriore orientamento giurisprudenziale, che sosteneva invece che l’art. 5 co. 2 del decreto trasparenza era una norma generale integrativa di quella speciale di cui all’art. 53 Cod. App.
In quarto luogo, il C.d.S. si chiedeva se l’accesso civico generalizzato poteva considerarsi un ‘doppione’ dell’accesso documentale, con effetto di implicita abrogazione di quest’ultimo.
Secondo una prima tesi, dato che entrambe le forme di accesso avevano ad oggetto atti e documenti, e dato che l’accesso civico generalizzato era gratuito mentre quello documentale era oneroso, il cittadino finiva sempre per preferire l’accesso civico generalizzato, sicché quest’ultimo aveva implicitamente abrogato l’accesso documentale.
Secondo una diversa ricostruzione, non vi era stata alcuna implicita abrogazione perché i due accessi non erano affatto coincidenti, atteso che per quello documentale occorreva essere portatori di un interesse attuale, diretto e concreto.
La sentenza n. 10 del 2 aprile 2020 dell’Adunanza Plenaria.
L’Adunanza Plenaria, nella recentissima pronuncia n. 10/2020, ha fornito risposta alle prime tre delle questioni sottoposte al suo vaglio dal Consiglio di Stato.
Quanto alla prima questione, relativa alla possibilità di conversione della domanda di accesso documentale in accesso civico generalizzato, l’iter argomentativo della Plenaria prende le mosse da un dato di fatto, ossia che costituisce giurisprudenza ormai consolidata che una istanza di accesso agli atti possa essere anche cumulativa: il privato, cioè, può chiedere sia l’accesso documentale ex art. 22 l. 241/90, sia l’accesso civico generalizzato ex art. 5 co. 2 del decreto trasparenza.
Il cumulo può essere ‘formalizzato’, nel senso che il privato può fare esplicitamente richiesta al giudice o all’Amministrazione di esaminare entrambe le domande, sicché il GA o la PA dovrà esaminare l’istanza prima sotto il profilo dell’art. 22 e poi, in caso di rigetto, sotto il profilo dell’art. 5 co. 2; oppure può essere ‘implicito’, nel senso che il privato non fa espresso riferimento ad entrambe le forme di accesso, ma dall’esame complessivo della domanda e dal tenore delle parole adoperate dal privato si comprende che in realtà egli sta chiedendo un accesso ad ampio raggio (in effetti, se il privato non etichetta la sua richiesta, ma chiede sic et simpliciter di accedere a un documento, significa che implicitamente sta cumulando una richiesta ex art. 22 ed una richiesta ex art. 5 co. 2).
Orbene, afferma la Plenaria che in entrambi i casi il rigetto dell’istanza di accesso documentale comporta necessariamente l’esame della domanda di accesso civico generalizzato.
Tuttavia, l’Ad.Pl. precisa che, affinché si prospetti il cumulo delle istanze, occorre che il privato abbia un ‘interesse ancipite’, dalla doppia natura, tale da legittimare il privato ad avanzare tanto domanda di accesso documentale come portatore di un interesse qualificato, tanto domanda di accesso civico alla stregua di quivis de populo.
Bisognerà, quindi, verificare che l’interesse attuale, diretto e concreto dell’istante ad accedere ad un documento valga anche come interesse esplorativo al controllo generalizzato dell’operato della PA.
In relazione al caso di specie, a detta della Plenaria l’interesse dell’impresa seconda classificata a conoscere gli atti di gara è proprio un interesse ancipite: infatti, esso può valere tanto come interesse a subentrare nel contratto di appalto o a rifare la gara, quanto come interesse a controllare che l’esecuzione dell’appalto stia avvenendo a regola d’arte.
Tanto chiarito, la Plenaria afferma che quando non c’è cumulo, perché il privato ha etichettato la sua domanda come accesso documentale o come accesso civico, se la PA o il GA rigettano tale domanda, una sua conversione è inammissibile.
Si esclude che il GA, davanti al quale è stato impugnato il rigetto di una istanza di accesso etichettata, possa convertire d’ufficio l’istanza del privato, perché altrimenti andrebbe ad emettere una pronuncia ‘ultra petita’, rispondendo ad una domanda che il privato non ha mai avanzato.
Si esclude, altresì, che il privato possa lui stesso convertire la domanda davanti al GA adito avverso il rigetto, perché si violerebbe l’art. 34 co. 2 del CPA, secondo il quale in nessun caso il giudice amministrativo può pronunciarsi su poteri non ancora esercitati dalla PA: con la conversione in sede giurisdizionale si consentirebbe al GA di pronunciarsi su una questione che la PA non ha mai esaminato.
L’Adunanza Plenaria esamina, poi, la seconda questione relativa alla sussistenza in capo alla seconda classificata di un interesse qualificato alla conoscenza di un documento della fase esecutiva di un contratto di appalto.
Ebbene, la Plenaria ammette la possibilità che l’impresa seconda classificata possa accedere agli atti dell’esecuzione, ma a condizione che dia prova di avere un interesse diretto, concreto e attuale.
Spiega l’Ad.Pl. che è vero che la fase esecutiva è una fase privatistica, ma lo è solo in relazione agli aspetti economici afferenti all’esecuzione delle prestazioni contrattuali.
Essa, invero, ha anche una rilevanza pubblicistica, relativamente al controllo del rispetto di quanto programmato nella fase dell’evidenza pubblica.
Segnatamente, la fase esecutiva deve essere ‘lo specchio’ delle regole fissate durante la procedura evidenziale: essa, pertanto, deve essere conoscibile, al fine di verificarne l’esatta corrispondenza con quanto programmato nella fase dell’evidenza pubblica, per cui il privato è assolutamente legittimato a proporre istanza di accesso agli atti dell’esecuzione.
Una volta ammesso che la seconda classificata può accedere agli atti della fase esecutiva del contratto di appalto, la Plenaria prosegue asserendo che essa, affinché possa avanzare istanza di accesso documentale – che presuppone la sussistenza di un interesse qualificato -, è però tenuta a fornire alla stazione appaltante gli elementi che rendano certa o quantomeno probabile l’esistenza di un inadempimento imputabile all’aggiudicatario, a seguito del quale potrà ottenere lo scorrimento in suo favore della graduatoria o il rifacimento della gara.
Chiarisce l’Adunanza, infatti, che l’accesso non deve essere il mezzo per far nascere il bene della vita, ma il bene-interesse deve essere già tratteggiato con certezza o con elevato grado di probabilità anteriormente alla proposizione della istanza di accesso.
Se il privato non fornisce questi elementi alla PA, ma chiede di accedere per verificare interamente la sussistenza dell’inadempimento, allora il bene-interesse sorgerà solo successivamente all’accesso.
Allora, l’istanza di accesso documentale nella fase esecutiva è possibile purché l’esistenza di un inadempimento non venga tratteggiata in modo assolutamente ipotetico ed eventuale, occorrendo che quantomeno la situazione fattuale della inadempienza sia delineata con precisione dal privato, così da rendere certo o almeno probabile un diritto allo scorrimento o alla rinnovazione della gara.
In ultimo, l’Adunanza Plenaria affronta la questione se l’accesso civico generalizzato è compatibile o meno con la materia dei contratti pubblici.
La Plenaria afferma che l’accesso civico generalizzato deve essere inteso come ‘una regola di carattere generale’ del diritto amministrativo, che non contempla eccezioni diverse ed ulteriori rispetto a quelle di cui all’art. 5 bis co. 3 del decreto trasparenza 33/2013.
Il co. 3 dell’art. 5 bis prevede tre ipotesi in cui l’accesso civico generalizzato non opera, ossia nei casi coperti da segreto di Stato, negli altri casi di esclusione specificamente stabiliti dalla legge, nonché nei casi di cui all’art. 24 della l. 241/90, vale a dire i procedimenti tributari, i procedimenti di pianificazione e programmazione e le procedure concorsuali in relazione alle prove di contenuto psico-attitudinale.
L’Ad.Pl. chiarisce che la circostanza per cui l’art. 53 Cod. App. rinvia solo all’art. 22 l. 241/90, non è ‘un altro caso di esclusione’ dell’accesso civico generalizzato ex art. 5 bis co. 3 decreto trasparenza, per le ragioni che seguono.
Innanzitutto, quando l’art. 5 bis co. 3 parla di ‘altri casi stabiliti dalla legge’, questa locuzione va letta in sequenza alla prima ipotesi di esclusione fissata dalla norma, ossia quella dei casi coperti da segreto di Stato: gli ‘altri casi’ vanno intesi come altri casi di segreto previsti dalla legge oltre al segreto di Stato, quali ad esempio il segreto bancario, il segreto industriale, il segreto commerciale ecc.
Poi, la norma si riferisce ad altri ‘casi’: asserisce l’Ad.Pl. che se si andasse ad eccettuare l’appalto dall’accesso civico generalizzato, non si escluderebbe un mero caso, bensì un’intera materia, creando un’intera zona franca dalla trasparenza.
Allora, il settore dei pubblici appalti non è affatto impermeabile all’accesso civico generalizzato, atteso che quest’ultimo opera sempre, salvo dei singoli casi specifici nell’ambito del settore de quo, fissati dai commi 2 e 5 dell’art. 53 Cod. App., in relazione ai quali non opera nessun tipo di accesso.
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Note
1 Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza, 18 aprile 2006, n. 6
2 Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza, 22 febbraio 2007, n. 929
3 Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza, 13 settembre 2016, n. 3856
4 Cfr. T.A.R. Lazio, Sezione III Ter, sentenza, 17 novembre 2016, n. 11450
5 Consiglio di Stato, Sezione III, sentenza, 2 marzo 2012, n. 2172
6 Cfr. T.A.R. Lazio, Sezione III, sentenza, 11 ottobre 2012, n. 8408
7 Corte EDU, sentenza, 19 gennaio 2016, ricorso n. 17429/10
8 Consiglio di Stato, Sezione III, sentenza, 5 giugno 2019, n. 3780
9 Consiglio di Stato, Sezione III, ordinanza, 16 dicembre 2019, n. 8501
1 0 cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 1406 del 28 marzo 2017 e Sez. V, n. 1817 del 20 marzo 2019
1 1 Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza, 20 marzo 2019, n. 1817
1 2 Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza, 11 giugno 2012, n. 3398
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