Il diritto di critica scriminante

Alessia Fraino 10/07/19
Sommario: 1. Breve ricostruzione torico-sistematica delle cause di giustificazione nel sistema penale; 2. L’esercizio del diritto e la libera manifestazione del pensiero; 3. L’ultimo arresto della Suprema Corte: la sentenza n. 21145 del 2019.

  1. Breve ricostruzione teorico-sistematica delle cause di giustificazione nel sistema penale

Le cause di giustificazione sono situazioni a fronte delle quali l’ordinamento non punisce un fatto che astrattamente sarebbe qualificabile come reato in quanto la condotta posta in essere dall’agente è consentita, autorizzata o addirittura imposta dalla legge.

Tale definizione si fonda sul principio di non contraddizione, secondo il quale “uno stesso ordinamento non può, nella sua unitarietà imporre o consentire e ad un tempo vietare, il medesimo fatto senza rinnegare se stesso e la sua pratica possibilità di attuazione[1].

Se questo è il fondamento logico-giuridico delle scriminanti[2] occorre altresì chiarire la portata politico-sostanziale delle cause di giustificazione. Esso va ravvisato, secondo la dottrina oggi dominante, nel principio dell’interesse prevalente e dell’interesse mancante od equivalente.

Tale modello, detto pluralistico, tende a ricondurre le scriminanti a principi diversi. Ed infatti, secondo tale teoria, l’interesse prevalente si dirige verso l’esercizio del diritto, l’uso legittimo delle armi, l’adempimento del dovere, la legittima difesa e lo stato di necessità. L’interesse mancante si spiega verso il consenso dell’avente diritto in quanto viene meno l’interesse da tutelare per effetto della rinuncia del titolare del diritto medesimo[3].

Al modello pluralistico appena descritto, si contrappone quello monistico secondo il quale le scriminanti rispondono tutte ad un unico principio che viene rintracciato ora, nel criterio del mezzo adeguato per il raggiungimento dello scopo[4] ora, nella prevalenza del vantaggio sul danno[5].

Per ciò che concerne la collocazione sistematica delle cause di giustificazione nella sistematica del reato[6], si sono da sempre contrapposte la teoria bipartita[7] e la teoria tripartita. L’inquadramento dogmatico delle le cause di giustificazione cambia a seconda che si aderisca all’una o all’altra teoria.

Secondo la teoria bipartita, le cause di giustificazione sono elementi negativi del fatto cosicché esse non devono essere presenti affinché il reato esista[8]. Per tale teoria[9] l’antigiuridicità non è una componente del reato, vale a dire un elemento costituente dell’illecito. Essa è molto di più e si identifica con l’essenza, l’in se, la natura intrinseca del reato. L’illiceità deve considerarsi carattere del reato e non anche elemento che concorre a formarlo. In tale stato di cose, l’assenza di cause di giustificazione è indispensabile perché sussista l’antigiuridicità penale e quindi il reato. Il verificarsi di una di queste cause non fa venire meno l’antigiuridicità ma fa sì che essa non sorga.

Secondo la teoria tripartita invece, le cause di giustificazione devono essere collocate sotto l’antigiuridicità obiettiva quale elemento autonomo del reato. In altri termini, l’antigiuridicità viene meno nel momento in cui, una norma non incriminatrice e ricavabile dall’intero ordinamento giuridico, facoltizza od impone il comportamento scriminante. Dunque, la presenza di cause di giustificazione (o scriminanti) non nega il fatto ma solo la sua illiceità in quanto viene meno il contrasto tra un fatto astrattamente conforme alla fattispecie di reato e l’intero ordinamento giuridico[10].

Volume

  1. L’esercizio del diritto e la libera manifestazione del pensiero

L’esercizio del diritto è previsto e disciplinato dall’art. 51, primo comma, c.p., il quale stabilisce che “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”.

Occorre comprendere, per ciò che qui interessa, i limiti del diritto scriminante ed i rapporti con il delitto di diffamazione punito dall’art. 595 c.p.

La causa di giustificazione in parola, espressione massima del principio di non contraddizione, esclude la punibilità di chi abbia commesso un fatto astrattamente previsto dalla legge come reato, ma consentito od autorizzato dall’ordinamento giuridico[11].

Secondo parte della dottrina, l’art. 51 c.p., avrebbe natura dichiarativa nel senso che non farebbe altro che confermare esplicitamente quanto già previsto implicitamente dall’ordinamento giuridico[12] unitariamente considerato.

L’individuazione della norma scriminante andrebbe oltretutto a creare un problema di antinomie in quanto sarebbe necessario individuare quale norma prevalga sull’altra.

I conflitti detti, sorgerebbero nel momento in cui vi sono norme che consentono ed allo stesso tempo vietano determinate condotte. Si pensi ad esempio all’art. 896 c.c che consente al proprietario del fondo vicino di tagliare le radici che invadono il proprio fondo. Tale norma si porrebbe in contrasto con l’art. 635 c.p che punisce il danneggiamento. Ne consegue che, valutati gli interessi in gioco, il vicino che recide le radici provenienti dall’altrui fondo, non è punibile. Così come non risponderà di sequestro di persona il soggetto che esegua un arresto nelle forme e nel rispetto della legge (anche se tale ipotesi sarebbe più aderente alla scriminante dell’adempimento del dovere).

L’art. 51, da alcuni considerata norma superflua, andrebbe a porre una regola in bianco cui entrerebbero a far parte tutti i diritti scriminanti previsti dall’ordinamento giuridico penale ed extrapenale.

La risoluzione delle antinomie tra le norme che entrano in gioco potrebbe sicuramente risolversi medianti i classici criteri individuati dalla dottrina costituzionalistica[13], quali il criterio gerarchico, il criterio cronologico, il criterio di specialità ed il criterio di competenza, ma occorre comunque tenere ben presenti gli interessi concreti che entrano in contrasto tra loro.

Tali ultime difficoltà emergono soprattutto in riferimento ai reati culturalmente orientati in cui si ha  da un lato, una norma penale che incrimina un determinato fatto e dall’altro, una norma (il più delle volte, religiosa) che culturalmente autorizza o addirittura, impone una certa condotta.

La giurisprudenza di legittimità, tende a non riconoscere la scriminante culturale sulla base argomentativa secondo la quale vi è lo “sbarramento invalicabile” delle norme costituzionali che riconoscono i diritti inviolabili dell’uomo e primi fra tutti, la vita e l’integrità fisica[14].

Si è detto, in particolare, che il gruppo minoritario non può pretendere che la sua cultura sia globalmente accolta nella società di arrivo senza le dovute distinzioni effettuate alla stregua della Costituzione.

Recentemente la giurisprudenza di legittimità[15] ha affrontato nuovamente il tema con riguardo al caso di un indiano Sikh che deteneva il kirpan, il pugnale rituale costituente uno dei simboli del proprio culto. L’imputato è stato condannato dai giudici di merito ai sensi dell’art. 4, co. 2, l.  110/1975 (reato di porto abusivo d’armi) e la Cassazione ha confermato la decisione, rilevando che l’immigrato avrebbe il dovere di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale.

Non sarebbe – secondo i giudici di legittimità – tollerabile che la società multietnica portasse “arcipelaghi culturali confliggenti” ostandovi l’unicità del tessuto culturale della nostra società che individua nella pubblica sicurezza un valore preminente. In altre parole, l’organo nomofilattico ha optato per la prevalenza della pubblica sicurezza e della pubblica incolumità a scapito dell’esercizio del diritto inquadrabile, in tale fattispecie, nell’esercizio della fede religiosa ex art. 19 Cost.[16].

Il diritto scriminante andrebbe dunque ricercato nell’ambito dell’intero sistema giuridico tendendo ben presente gli interessi che entrano in conflitto.

In relazione alle fonti del diritto scriminante, esse sono state identificate nella Costituzione[17], nella legge ordinaria dello Stato[18], nelle norme penali ed extrapenali, nei regolamenti, nonché negli atti pubblici ed anche quelli di autonomia privata ai quali la legge attribuisce l’effetto di produrre situazioni giuridiche soggettive attive (es. contratti, provvedimenti giurisdizionali)[19]. Secondo alcuni anche la consuetudine potrebbe assurgere a fonte di diritto scriminante[20].

Circa i criteri di risoluzione dei possibili conflitti tra le varie fonti sopra citate, è stato giustamente osservato[21] che l’art. 51 non indica quando la norma attributiva del diritto debba ritenersi prevalente rispetto alla norma incriminatrice. Vi sono casi ad esempio, in cui la norma crea fattispecie che, dalla generalità dell’ordinamento, sono autorizzate. Si pensi all’art. 423 c.p che, a tutela della pubblica incolumità, punisce l’incendio di cosa propria nonostante l’art. 832 c.c preveda che il proprietario può disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo.

In relazione ai diritti scriminanti in linea generale, è stato detto[22] che esso va ricercato nei diritti soggettivi, nelle facoltà e nelle potestà, e comunque in ogni attività giuridicamente autorizzata.

Altra questione problematica attiene alla modalità di esercizio del diritto in quanto essa costituirebbe il primo limite implicito[23] all’esimente in discorso.

L’esercizio del diritto deve essere legittimo: ciò vuol dire che non potrebbe mai essere scriminata una condotta che, seppur autorizzata dall’ordinamento, costituisca espressione dell’abuso del diritto.

Quest’ultimo può essere inteso come l’esercizio distorto del diritto legalmente riconosciuto, esercitato con l’unico scopo di ledere gli altrui interessi e raggirare le norme dell’ordinamento.

In tal senso, l’uso esorbitante del proprio diritto, non scrimina la condotta posta in essere. Ciò si riscontra, attraverso un’analisi della casistica giurisprudenziale, soprattutto in tema di diffamazione. In questi casi infatti, è tendenza frequente difendersi adducendo la presenza dell’esercizio del diritto ex art. 21 Cost., attraverso un uso distorto del diritto di cronaca, di satira e di critica.

Con particolare riferimento a quest’ultimo, si è pronunciata la quinta sezione penale della Cassazione con sentenza del 15 maggio 2019, n. 21145, oggetto del presente lavoro.

Prima di analizzare la recente pronuncia della Suprema Corte, è opportuno procedere ad una breve analisi dell’esercizio del diritto nella forma della liberà manifestazione del pensiero.

Occorre richiamare l’art. 10 CEDU che sancisce la libertà di espressione di ogni persona. Allo stesso modo, l’art. 11 della Carta di Nizza prevede che ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione (…).

Infine, l’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del cittadino del 1948 recita: “Ogni individuo ha diritto alla libertà d’opinione e d’espressione, il che implica il diritto di non venir disturbato a causa delle proprie opinioni e quello di cercare, ricevere e diffondere con qualunque mezzo di espressione, senza considerazione di frontiere, le informazioni e le idee”.

Ricostruito il quadro normativo sovranazionale, occorre procedere con l’analisi dell’art. 21 Cost. il quale stabilisce che tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

Questa libertà negativa[24] costituisce il fondamento stesso della società democratica. Infatti la democraticità di un ordinamento è direttamente proporzionale al grado di in cui la libera manifestazione del pensiero viene riconosciuta ed attuata concretamente[25].

In concreto, proprio il diritto di cronaca e di critica fanno sì che tale libertà, espressamente riconosciuta a livello nazionale e sovranazionale, sia attuata.

L’esercizio di questi diritti trova dei limiti per far sì che, a livello penale, siano giustificate le condotte offensive della reputazione e dell’altrui onore (beni, questi ultimi, protetti dall’art. 595 c.p che punisce il delitto di diffamazione).

La critica, in generale, deve intendersi come libertà di dissentire ed opporsi alle opinioni espresse da altri. La giurisprudenza, in un primo momento, aveva sostanzialmente ricondotto il diritto di critica al diritto di cronaca. Successivamente, ha riconosciuto la sostanziale autonomia del diritto in discorso ma vi è comunque una piena coincidenza dei limiti.

Il primo limite all’esercizio del diritto di critica è certamente quello già enunciato ed avente carattere generale, dell’abuso del diritto. Quest’ultimo impedisce certamente l’operatività della scriminante.

In secondo luogo, il diritto di critica, per avere efficacia scriminante[26] deve essere pertinente e continente: ciò vuol dire che l’opinione dissenziente deve essere attinente alle altrui idee, anch’esse liberamente espresse.  A tal proposito, la critica non può trasmodare in attacchi di carattere personale che esulino dal contenuto del pensiero esplicato dall’avversario; inoltre deve poter costituire uno spunto di riflessione per l’opinione pubblica: deve cioè avere un’utilità sociale. Altro limite all’esercizio del diritto di critica è la correttezza delle espressioni utilizzate.

Posta in questi termini la questione circa il rapporto tra l’art. 51 c.p. e l’art. 21 Cost., si può sostenere che la scriminante codificata dell’esercizio del diritto, in specie, il diritto di critica, trovi la sua piena esplicazione nella norma costituzionale quale l’art. 21. Ciò vale a confermare la tesi secondo la quale l’art. 51 c.p costituisce una norma penale in bianco, capace di assorbire al suo interno, i più svariati contenuti espressi dall’unitarietà dell’ordinamento giuridico.

Approfondisci:”In materia di diffamazione, cosa occorre considerare per verificare il requisito della continenza ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica”

  1. L’ultimo arresto della Suprema Corte: la sentenza n. 21145 del 15 maggio 2019

Con la sentenza n. 21145 del 15 maggio 2019, la V Sezione della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul delitto di diffamazione nonché sulla sottile linea che intercorre tra questa e la libera manifestazione del pensiero ex 21 Cost., che andrebbe a scriminare la condotta nella forma dell’esercizio del diritto, in specie, esercizio del diritto di critica.

Come si è accennato sopra, al diritto di critica viene riconosciuta efficacia giustificativa se esercitato attraverso modalità tali non non confluire in attacchi personali ed offensivi al destinatario.

Ciò è stato confermato dagli ermellini nella sentenza in commento.

La V Sezione, riprendendo gli orientamenti giurisprudenziali passati, ha affermato che «in tema di diffamazione, non può trovare applicazione la scriminante del diritto di critica quando la condotta dell’agente trasmodi in aggressioni gratuite, non pertinenti ai temi in discussione ed integranti l’utilizzo di “argumenta ad hominem”, intesi a screditare l’avversario mediante la evocazione di una sua presunta indegnità od inadeguatezza personale, piuttosto che a criticarne i programmi e le azioni. La critica presuppone fatti che la giustifichino, ovvero un contenuto di veridicità limitato alla oggettiva esistenza di dati assunti a base delle opinioni e delle valutazioni espresse. La libertà di esprimere giudizi critici trova il solo limite nell’esistenza di un sufficiente riscontro fattuale».

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi su un ricorso introdotto dall’imputato e la cui condanna era stata confermata in sede di Appello, dal Tribunale di Agrigento.

Il Tribunale, in particolare, non aveva riconosciuto al ricorrente la presenza dell’esimente e per tale motivo aveva confermato la condanna emessa dal Giudice di Pace.

Il giudice di secondo grado, aveva ritenuto sussistente il delitto di diffamazione di cui all’art. 595 c.p., sulla base delle dichiarazioni espresse dall’imputato. Nella specie, quest’ultimo, in qualità di funzionario preposto alla gestione dei contratti di fornitura e servizi, aveva inviato (alla persona offesa, nella qualità di Direttore Generale, al Collegio dei Revisori ed al Direttore amministrativo) tre missive con le quali si lamentava del comportamento del comportamento dei soggetti “quantomeno inficiato da vizio di incompetenza” tenuto dal Direttore Generale, nonché dell’assenza di “significativi atti di governo” da parte del funzionario di vertice.

Infine, si doleva dell’abitudine di questi di incontrare fornitori e rappresentanti delle ditte con i quali contrattava prezzi prima della gara, in spregio alle norme di disciplina dei pubblici contratti; auspicava un possibile procedimento penale a carico del direttore generale per i delitti di abuso di ufficio, falso in atto pubblico e turbata libertà degli incanti; denunciava infine il “mare di illegalità nel quale era venuta ad annegare la ASP”.

Il Tribunale affermava l’offensività delle espressioni utilizzate dall’imputato. Specificamente, le descriveva come idonee a screditare l’opinione che l’ambiente sociale aveva della persona offesa. 

Il Tribunale di Agrigento riconosceva quindi il dolo nella coscienza e volontà dell’imputato, di screditare la reputazione professionale della vittima delle dichiarazioni; nell’ingiustizia delle condotte tenute, posto che il diritto di critica che le avrebbe animate era insussistente, perché non erano stati allegati, né provati, fatti illeciti attribuiti al destinatario delle dichiarazioni che infatti era stato prosciolto dai reati addebitatigli.

L’imputato, nel ricorso per Cassazione, contestava l’insussistenza dell’elemento soggettivo atteso che le dichiarazioni espresse erano state mosse dall’intento di denunciare a funzionari o uffici dotati di poteri di controllo. Comportamenti che si erano rivelati verosimili, dal momento che avevano stimolato l’instaurazione nei confronti del destinatario delle critiche, di procedimenti amministrativi sanzionatori (rilievi in sede contabile da parte della Corte dei Conti; destituzione assessorale dalla funzione di Direttore Generale della ASP) e di un processo penale, pur conclusosi con l’assoluzione.

Secondo la tesi difensiva, l’imputato aveva quindi agito in presenza della scriminante di cui all’art. 51 c.p. e specificamente, nella forma del diritto diritto di critica, quale attuazione della libera manifestazione del pensiero.

La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso dell’imputato fondato, annullando senza rinvio la sentenza perchè il fatto non costituisce reato essendo la condotta scriminata dall’esercizio del diritto di critica.

Nell’argomentare la decisione, i giudice della V Sezione penale ripercorrono la giurisprudenza relativa alle caratteristiche del diritto di critica avente efficacia scriminante, analizzata nel paragrafo precedente.

Le modalità di esercizio, a detta della Corte, devono riguardare il particolare oggetto di critica  che può essere politico, giurisdizionale, professionale e scientifico ma mai trasmodare in attacchi personali atti a screditare la dignità della persona.

Nel caso di specie a detta del Supremo Consesso,  sussiste la detta esimente nel caso in cui un soggetto portatore di interessi di rilevanza collettiva indirizzi una o più missive a persone dotate di specifici poteri funzionali, con le quali si censurano le scelte di un pubblico funzionario, preposto un servizio di rilevanza pubblica, ponendone in dubbio la regolarità e denunciando favoritismi (di tale avviso, Sez. V n. 38962 del 04/06/2013, P.C. in proc. Di Michele, Rv. 257759; Sez. 5, n. 32180 del 12/06/2009, Dragone, Rv. 244495).

Emerge dagli atti – a detta della Corte – che nessuna delle espressioni, ascritte all’imputato e reputate come offensive, si rivolge alla parte civile in quanto persona, attaccandolo nella sua dimensione privata, tutte concernendo, piuttosto, la funzione svolta e il suo modo di gestire la ASP. In effetti le critiche espresse dall’imputato erano rivolte agli organi dotati di responsabilità politica e poteri di gestione e controllo e si limitavano a denunciare la mal gestione in cui stava sfociando l’attività della ASP.

Il passaggio della sentenza che chiarisce ancora una volta le modalità del diritto di critica scriminante si concentra sulla portata delle espressioni.  “La critica – scrive la Corte –  si concretizza nella manifestazione di un giudizio valutativo e presuppone un fatto che è assunto ad oggetto o a spunto del discorso critico”.

Fondamentale, come detto anche nei termini generali sopra riportati, la riflessione circa la veridicità. La Corte afferma infatti che il giudizio valutativo è diverso dal fatto da cui trae spunto e a differenza di questo non può pretendersi che sia ‘obiettivo’ e neppure, in linea astratta, “vero” o “falso” La critica postula, insomma, fatti che la giustifichino e, cioè, un contenuto di veridicità limitato alla oggettiva esistenza dei dati assunti a base delle opinioni e delle valutazioni espresse.

Così si era espressa anche la Corte Edu del 27.10.2005 caso Wirtshafts – Trend Zeitschriften – Verlags Gmbh c. Austria ric. n. 58547/00).

In tale occasione, i giudici di Strasburgo infatti, avevano chiarito che la libertà di esprimere giudizi critici quali “giudizi di valore” trova il limite, non superabile nell’esistenza di un “sufficiente riscontro fattuale” in quanto la materialità dei fatti può essere provata, l’esattezza dei giudizi di valore non sempre si presta ad essere dimostrata.

Per ciò che concerne i profili della continenza, la Corte ha distinto tra continenza sostanziale, che atterrebbe alla natura dei fatti riferiti e delle opinioni espresse, in relazione all’interesse pubblico alla comunicazione o al diritto-dovere di denunzia e continenza formale  che riguarderebbe, invece, al modo con cui il racconto sul fatto è reso o il giudizio critico esternato, e cioè alla qualità della manifestazione
In altri termini, le modalità espressive non devono essere gratuitamente offensive per far sì che l’esimente trovi applicazione.

In definitiva, le espressioni inserite nelle missive a firma dell’imputato possono anche integrare “asprezze ed esagerazioni”, ma, collocate nel più ampio contesto comunicativo del quale sono parte, che consente di intenderle nel loro giusto valore, rientrano certamente nel cono d’ombra della scriminante del diritto di critica, esercitato rispetto a valori ed interessi – il buon andamento, l’imparzialità e la trasparenza della pubblica amministrazione – che l’imputato ragionevolmente temeva potessero essere messi a repentaglio dai comportamenti del Direttore della ASP. Nel caso di specie, non pare che l’imputato abbia trasmodato le sue espressioni in attacchi personali in quanto chiaramente dagli atti è emerso che egli ha criticato il modo di operare e la funzione d’ufficio dei vari soggetti destinatari delle missive contenenti le espressioni ritenute, dal Tribunale di Agrigento, offensive. Deve quindi ritenersi corretta l’interpretazione fornita dalla Suprema Corte sul diritto di critica scriminante e la sua piena operatività in capo al soggetto imputato. Inoltre, correttamente non è stato sussistente l’elemento psicologico del reato di diffamazione in quanto le espressioni utilizzate non erano dirette, con coscienza e volontà, a screditare le persone coinvolte ma esprimevano semplicemente una critica legittima al modus operandi nella gestione e nel controllo della società[27]. Invero, l’instaurazione di procedimenti amministrativi e penali che, seppur conclusisi positivamente in capo ai soggetti denunziati, fanno ritenere fondatamente che le espressioni utilizzate rispondessero al requisito di veridicità, data la verosimiglianza dei fatti contestati.

Si può concludere il presente commento affermando dunque che l’esercizio del diritto di critica scriminante trova il suo più alto fondamento nell’art. 21 Cost. e nelle norme del diritto sovranazionale. Tuttavia, occorre stabilire di volta in volta i limiti dell’esercizio stesso in quanto il confine tra la critica e la libera manifestazione del pensiero è molto labile.

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Note

[1]MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 2017, p. 234.

[2]Le cause di giustificazione o scriminanti, sono cause di esclusione della pena, così come sancito espressamente dall’art. 59 c.p. Esse vanno tenute distinte dalle altre esimenti quali le scusanti e le cause di esclusione della punibilità in senso stretto. Le prime infatti, operano sulla colpevolezza mentre le seconde traggono il loro fondamento da ragioni di politica criminale per le quali lo Stato, per ragioni di opportunità, rinuncia alla sua pretesa punitiva. Sono qualificabili come cause di esclusione della pena in senso stretto le immunità. Sul punto si veda MANTOVANI, Diritto penale cit., p. 785; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte Generale, Milano, 2003, p. 146; GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Roma 207-2018, p. 319-320; si consenta di rinviare a FRAINO, Le immunità del Presidente della Repubblica: questioni penali e costituzionali, in Giurisprudenza penale Web, 4, 2019, p. 1-3.

[3]MANTOVANI, Diritto penale cit., p. 233; diversamente FIANDACA-MUSCO, Diritto penale cit., p. 258, secondo i quali nell’ambito dell’interesse mancante od equivalente andrebbe ricompreso anche lo stato di necessità.

[4]GRAF ZU DOHNA, Die Rechtswidrigkeit als allgemeingűltiges Merkmal im Tatbestände strafbarer Handlungen, 1905, p. 48.

[5]SAUER, Allgemeine Strafrechtslehre, 1955, p. 56.

[6]Secondo la concezione analitica del reato, questo va scomposto e studiato in tutti i suoi elementi costitutivi; a tale concezione se ne contrappone un’altra detta unitaria e secondo la quale “il reato è un tutto inscindibile”: per una rassegna in sulle concezioni unitaria ed analitica si veda MANTOVANI, Diritto penale cit., p. 99 ss; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Roma, 2009, p. 179; GAROFOLI, Manuale cit., p. 456.

[7]Per una breve ma utile rassegna sono per la teoria bipartita. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, vol. I, 1877; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale cit., p. 194; MANTOVANI, Diritto penale cit., p. 101 ss. Per la tripartizione: FIANDACA-MUSCO, Diritto penale cit., p. 179; PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 2013. Per una specifica trattazione sulla collocazione delle scriminanti ed in aderenza alla teoria tripartita si veda SCHIAFFO, Le situazioni quasi scriminanti nella sistematica teleologica del reato, Napoli, 1988.

[8]GROSSO, voce Cause di giustificazione, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1988

[9]ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Milano, 2003, p. 194 ss.

[10]DOLCE, Lineamenti di una dottrina delle esimenti, Napoli, 1961; CONCAS, voce Scriminanti, in Noviss. Dig. it., vol. XVI, Torino, 1969

[11]MANTOVANI, Diritto penale cit., p. 233, il quale chiarisce che l’esercizio del diritto, e le scriminanti in genere, traggono fondamento dall’intero ordinamento giuridico stante l’unitarietà dell’ordinamento stesso. Pertanto il fatto scriminato è lecito tanto sotto il profilo penale tanto sotto il profilo extrapenale.

[12]Ancora, MANTOVANI, Diritto penale cit., p. 241, il quale qualifica tale norma come “sostanzialmente inutile”; MANTOVANI, voce Esercizio del diritto (dir. pen.),in Enc. Dir., Vol. XV, Milano, 1966, p. 632; contrariamente LANZI, La scriminate dell’art. 51 c.p e le libertà costituzionali, Milano, 1983, p. 5, il quale con visione critica ritiene che se è vero che l’esercizio del diritto poggia sul principio di non contraddizione, è pur vero che essa non sia altro la ratio dell’esimente in discorso. Secondo l’Autore, andrebbe rintracciata una norma nel rispetto del principio di legalità.

[13]Sul punto si veda BIN-PITRUZZELLA, Le fonti del diritto, Torino, 2009, p. 4-8.

[14]Sul punto, Cass, 24 novembre 1999, in Riv. Pen., 2000, p. 238; Pretore di Torino, 4 novembre 1991, richiamata da GAROFOLI, Manuale cit., p. 672.

[15]Cass. Sez. I, 31 marzo 2017, n. 24048.

[16]Sul punto, LANZI, La scriminante cit., p. 87 ss.

[17]Su tutti LANZI, a scriminante cit., p. 54.

[18]Appare ancora controverso se la legge regionale possa prevedere in generale, cause scriminanti di una fattispecie penale. E ciò perchè secondo alcuni, l’“ordinamento penale” di cui all’art. 117, co. 2, lett. l) comprenderebbe tutti gli aspetti della disciplina a prescindere dal fatto che siano norme di favore o sfavorevoli al reo e ciò in ossequio al principio della riserva di legge; al contrario, secondo la dottrina più recente, le scriminanti, essendo favorevoli al reo, potrebbero ben essere oggetto di legislazione regionale, quantomeno sulle materie cd trasversali che andrebbero comunque ad incidere sulle materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni ovvero, residuale delle Regioni.  Ciò è quanto è stato affermato, seppur timidamente da Corte Cost. n. 185 del 2004; Corte Cost., 13 marzo 2014, n. 46. Sull’argomento, GAROFOLI, Manuale cit., p. 94; RIVA, Diritto penale e leggi regionali, Milano 2012; nel dibattito pre-riforma, in giurisprudenza, si vedano Cass. Sez. Un., 31 ottobre 2001, n. 30; Corte Cost., 22 ottobre 1996, n. 355.

[19]GAROFOLI, Manuale cit., p. 668; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale cit., p. 272.

[20]FIANDACA-MUSCO, Diritto penale cit., p. 272.

[21]FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 272.

[22]GAROFOLI, Manuale cit., p. 667; MANTOVANI, Diritto penale cit., p. 242 ss.

[23]LANZI, La scriminate cit., p. 27 ss.

[24]MARTINES, Diritto costituzionale, Milano, 2010, p. 547, il quale magistralmente ritiene che le libertà negative rientrano fra quei diritti inviolabili che l’art. 2 Cost., riconosce e garantisce all’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali. Osserva poi l’Autore che, le limitazioni alle libertà costituzionali sono garantite dal nostro ordinamento in quanto siano dirette ad assicurare il rispetto reciproco delle varie sfere di autonomia privata e la pacifica coesistenza dei consociati. Da questa considerazione, va da sé, che nell’ambito del diritto penale, la libertà di espressione trova il suo limite implicito nella modalità di esercizio del diritto medesimo come ha osservato LANZI, La scriminate cit., p. 76 e secondo il quale il primo limite è quello della verità della notizia o dell’informazione diffusa. Criterio ripreso poi, anche dalla giurisprudenza, tra l’altro più recente, come Cass. Sez. V, 30 settembre 2016, n. 41099 per cui in tema di diffamazione a mezzo stampa, ricorre l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca qualora, nel riportare un evento storicamente vero, siano rappresentate modeste e marginali inesattezze che riguardino semplici modalità del fatto, senza modificarne la struttura essenziale.

[25]MARTINES, Diritto costituzionale cit., p. 565.

[26]GAROFOLI,  Manuale cit., p. 679. I limiti enunciati sono stati chiariti da Cass., sez. V, 5 marzo 2004, n. 19334, che ha sostenuto che nella diffamazione a mezzo stampa, se il discorso giornalistico ha meramente contenuto valutativo e si sviluppa nell’ambito di una polemica intesa e dichiarata, ha efficacia scriminante ex art. 21 Cost.; ancora, Cass., Sez. V, 20 settembre 2013, n. 38971, ha chiarito invece che il diritto di critica riguarda non solo i dibattiti politici ma anche l’esercizio della giurisdizione o un’attività scientifica, purché il tutto non sfoci in attacchi personali con i quali si intenda colpire esclusivamente la persona privata dell’offeso. A questo ultimo aspetto appare connessa la riflessione circa la portata soggettiva delle scriminanti. Secondo alcuni Autori infatti, le cause di giustificazione sarebbero sorrette dall’elemento soggettivo. Per un approfondimento sul punto si veda SPAGNOLO,  Gli elementi soggettivi nella struttura delle scriminanti, Padova, 1980.

[27]Sull’elemento soggettivo delle scriminanti SCHIAFFO,  Le situazioni quasi scriminanti cit., p. 103 ss, che riporta la teoria di BELING, Die Lehre vom Verbrechen, Tübingen, 1906, p. 141, secondo il quale “ai fini del giudizio sulla sia presenza o assenza – dell’elemento soggettivo – non hanno alcun rilievo gli scopi perseguiti dall’autore proprio perchè sono momenti soggettivi”.

Sentenza collegata

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Alessia Fraino

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