A fronte delle quotidiani discussioni circa il grado di effettiva attuazione della Costituzione, con modestia, mi permetto di illustrare alcune considerazioni spassionate su un concetto dai contorni giuridici e pragmatici molto controversi che può inserirsi nel dibattito accennato: il diritto di resistenza.
Il concetto di resistenza reca in sé un immediato riferimento al movimento di liberazione italiano che nell’ultima epoca fascista e in seno al secondo conflitto mondiale ha contribuito in grande portata all’affermazione dell’odierno ordinamento statale. Associata, per ovvi motivi, ad un sentire politico in netto contrasto alla destra più estrema, la resistenza è sintesi di tragiche e veementi vicende dall’habitus eroico che, nei meccanismi e segreti e eclatanti del suo agire, è stata base fondamentale per l’affermazione della Costituzione Italiana.
A parte le definizioni attorniate a quella che è ormai la storia della nostra Repubblica, la resistenza è una parola che oggi troppo spesso viene segregata dalla comunità sociale in un contesto meramente didattico. Oltre a racchiudere le gesta dei giovani che hanno mirabilmente sacrificato le loro vite per consentire a noi, generazioni sopravvenute, una libertà concreta nel suo esercizio, la resistenza è anche diritto, nonché, in alcuni casi, dovere.
Con ordine.
Se parliamo di resistenza nella sua conformazione di diritto, la materia di riferimento, considerate le implicazioni storiche, non può non essere che quella costituzionale. Se partiamo dall’elementare considerazione che fu la resistenza, in un’ottica di regolarità causale, a portare all’attuale legge fondamentale dello Stato, giungiamo all’osservazione logica che la resistenza è indissolubilmente legata oggi alla Costituzione, alle sue libertà e ai suoi diritti. Eppure in nessuna edizione costituzionale, dal ’48 ad oggi, è possibile reperire una qualche norma che parli esplicitamente o anche solo marginalmente della resistenza. Questa è l’apparenza, diversa è la sostanza delle cose:
“ La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.”
Il secondo comma del primo articolo della nostra Costituzione, in maniera ormai nota, abbandona la concezione della sovranità come emblema di re e regine, per sancire la superiorità del popolo, nel cui nome si legifera, amministra e giudica, in quanto se è Repubblica è del popolo. Frutto del fondamentale referendum del ’46, la Repubblica diviene forma di governo dalla quale nasce l’attuale ordinamento vigente. Dov’è la resistenza in tutto ciò? E’ nella repubblica e nel suo ordinamento, è la sua madre. Una volta che il popolo giunge a configurare l’ordinamento repubblicano con le sue peculiari connotazioni, in esso nasce la titolarità di un diritto che permette di tutelare l’interesse per eccellenza: quello a mantenere e conservare la nostra Repubblica con i suoi valori. E’ arrivato quindi il momento di indicare una definizione più dottrinale e dai contorni lievemente più tecnici del diritto di resistenza: il diritto di resistenza è il diritto di reagire ad un potere illegittimo, esso spetta al popolo e nonostante non sia esplicitamente previsto nella Costituzione italiana, è considerato estrinsecazione e fondamento del principio di sovranità popolare di cui all’art. 1 Cost.
Definizione questa che si pone in piena armonia con le conclusioni di Giorgio Giannini (“Il diritto di resistenza nella Costituzione Italiana”), storico, ricercatore e socio fondatore del Centro Studi Difesa Civile. E’ scontato che siffatta definizione è riconducibile alla forma collettiva della resistenza, contrapposta a quella individuale dai contorni più tecnici e giuridicamente delimitati in ambiti quali il settore amministrativo, quello delle forze armate, ecc. La dimensione collettiva della resistenza rimanda, invece, ad un’azione di riaffermazione dei valori e dei principi chiave della Costituzione. Insomma una rivolta, una strigliata ai governanti, i quali colpevoli di un abuso e di una distorta valorizzazione del potere conferitogli, subiscono il ridimensionamento da chi è reale sovrano: i cittadini. Il sostrato di affermazione della resistenza è essenzialmente quello violento, che inizia con una tragica lesione dei principi e delle libertà costituzionali ad opera dei governanti e termina con l’affermazione maiuscola degli stessi principi e delle stesse libertà dai governati. Chiara è infatti la definizione prestata da Giuseppe Morbidelli quando scrive che “il diritto di resistenza comincia laddove ogni rimedio giuridico non è più consentito” (Diritto Pubblico Comparato di Morbidelli, Pegoraro, Reposo, Volpi – IV ed. Giappichelli – pag. 133). Anche Antonio Reposo, nel corso dei suoi studi per “La disciplina dell’opposizione anticostituzionale negli Stati Uniti d’America” (e riassumendo in Diritto Pubblico Comparato di Morbidelli, Pegoraro, Reposo, Volpi – IV ed. Giappichelli – pag. 131) conferma la visione di una forma di opposizione violenta operata dal popolo che, sfruttando metodologie concettualmente illegali, si impegna a raggiungere quella che è invece la reale legalità costituzionale. Un’altalenanza di vittime e carnefici quindi, che oggi non trova reale collocazione nel dibattito socio-politico italiano.
Membri di un Occidente che ha fatto della democrazia, del pluralismo e delle libertà fondamentali, i cardini del nostro vivere collettivo e civile, gli italiani possono essere oggi considerati titolari di una resistenza dalla caratterizzazione meno sanguinosa ma comunque carica di quel significato consono a quella che è la sua matrice originale?
Lo storico costituzionalista Prof. Giuliano Amato nel 1961 scriveva che i poteri che sono esercitati dallo Stato-governo “non fanno capo originariamente ad esso, ma gli sono trasferiti, magari in via permanente, dal popolo”. Pertanto, “l’esercizio di quei poteri deve svolgersi, per chiaro dettato costituzionale, in guisa tale da realizzare una permanente conformità dell’azione governativa agli interessi in senso lato della collettività popolare.”
Estrapolando lo scritto dal diretto riferimento ai moti siciliani del 1960 avverso il governo Tambroni, è possibile scorgere, nelle parole del Professore, un seppur minimo spazio di manovra per la definizione di un diritto di resistenza esercitato dal popolo a tutela dei suoi interessi costituzionalmente garantiti, con modalità assimilabili ad un controllo non necessariamente esercitato in modi violenti. D’altronde è la stessa Costituzione a fornirci le “armi” per ripristinare l’effettività dei principi caratterizzanti l’ordinamento dello Stato democratico. Se le associazioni, le manifestazioni, la cronaca, gli scioperi ci aggregano e compattano nella lotta per la nostra Costituzione, la dignità, l’equità, l’uguaglianza ci rinforzano individualmente. Ecco che allora a fronte di una direzione del paese scarsamente finalizzata al benessere del popolo nel suo esistere e divenire, sembrano intravedersi i semi di un qualcosa non molto difforme dall’esercizio del diritto di resistenza. Ogni famiglia in crisi economica e abbandonata a sé stessa, ogni studente calpestato da una meritocrazia solo formale e non sostanziale, ogni paziente costretto a mettere a rischio ulteriormente la sua salute per i deficit delle strutture sanitarie pubbliche, ha diritto a resistere contro chi permette e determina tutto ciò. Ed è peculiare reperire nella dottrina tedesca il fondamento di queste valutazioni. I tedeschi, forti di una delineazione della resistenza chiaramente espressa nella loro stessa Costituzione, sono sicuri nel considerarla come un caratteristico diritto pubblico da attuare contro atti e comportamenti dello Stato che, seppur sovrani, non si manifestano conformi al Diritto, nella sua accezione più alta.
Quindi, differentemente dalla rivoluzione che ha lo scopo di sovvertire e ribaltare l’ordinamento vigente per affermarne uno nuovo su valori essenzialmente contrapposti, la resistenza è il diritto della gente a ricordare che l’elite politica è figlia della sua legittimazione e come tale, posta al suo servizio. Ogni parlamentare, ogni ministro, presidente, governatore, ogni carica pubblica è posta al servizio del popolo in quanto da esso legittimata.
Ancora, procedendo nell’analisi di quello che potrebbe essere il versante più mansueto della resistenza, è molto utile osservare come, ad un approccio non violento di questo particolare diritto, pervengono Saverio Di Jorio e poi nuovamente Giorgio Giannini. Quasi insolito è infatti l’interessamento di un giurista ambientalista come Di Jorio, che nella sua monografia “Disciplina e tutela dei beni culturali e ambientali” dedica, al diritto di resistenza, una nutrita sezione. Invocando attenzioni e sollecitazioni individuali e collettive per garantire una sempre attuale, pragmatica ed effettiva protezione del nostro patrimonio ambientale e culturale, il giurista rimanda all’esercizio di una resistenza dai contorni sicuramente più civili e compìti di quelli classici, ma altrettanto marcati nella concretezza del suo manifestarsi. Letteralmente: “In questo quadro il diritto all’ambiente e i diritti dell’ambiente, nell’ambito dei diritti fondamentali dell’uomo, imprescindibili ed irrinunciabili, connessi ed intrecciati con il diritto alla vita ed alla salute, specie nelle aree protette e di grande valenza, sono legati al senso dello Stato e della comunità. Non possono essere lasciati ad esclusiva pertinenza (e cura . . . ) di uno Stato, a volte, dotato di burocrazie anonime, indifferenti e negligenti”. Una spinta netta, dunque, verso una resistenza adattata e “pacificata” che aiuta a sostenere valori costituzionali imprescindibili che fanno della non-violenza il loro carattere distintivo.
Per non parlare poi di Giannini che (nello scritto di cui sopra) cristallizza, proprio nelle ultime parole del suo studio, una resistenza “extrema ratio” molto vicina alla disobbedienza civile dalla limpida conformazione non violenta.
Sempre con ordine, ho accennato ad una concezione della resistenza quale dovere: di chi e verso chi? Ancora una volta il titolare è il popolo, chiamato a difendere il potere legittimo e l’ordinamento costituzionale. Ancora una volta si tutela la Costituzione: è verso essa che tale dovere va adempiuto. Dunque un flusso che lega indissolubilmente popolo e Costituzione, in un continuo scambio che ha a cuore solo la democrazia nel suo valore più profondo. E’ sempre Giannini, che molto chiaramente, definisce la resistenza anche come dovere inderogabile del popolo, pena il sovvertimento dell’ordine costituzionale.
Concludendo, il diritto-dovere di resistenza, poco incline ad una positivizzazione a livello costituzionale per le sue vulnerabilità interpretative, così come accertato dagli stessi Costituenti, seppur nascosto, costituisce la biosfera di tutta la Costituzione e di ciò che ne deriva. Una biosfera esplorata e analizzata nelle sue meraviglie e nelle sue trappole proprio in seno al Progetto di Costituzione Italiana che addirittura prevedeva un art. 50 molto interessante a riguardo: “Quando i poteri pubblici violano le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino”. Sulla fazione che sosteneva l’inserimento di questo articolo nella Costituzione e nella quale spiccava l’opinione di Costantino Mortati, convinto che in caso di conflitto tra Stato e popolo fosse quest’ultimo ad avere la parola decisiva, prevalse la fazione più cauta, spaventata dal rischio serio di positivizzare un diritto alla rivoluzione troppo pericoloso nel clima politico rovente di quegli anni.
Insomma il diritto-dovere di resistenza è il braccio del popolo sovrano che agisce per tutelarsi mediante ciò che è suo e che mai non potrà esserlo: l’ordinamento democratico. Un braccio che non necessariamente ha da agire con forme traumatiche, ma che in un clima di pesantezza sociale, può aiutare a scacciare meccanismi fini a sé stessi, poco interessati al benessere popolare e autori di malcontenti generalizzati che sono, spesso anche troppo chiaramente, lontani dalla Costituzione.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento