C’è un tavolo di confronto cui la Russia non può sottrarsi, a meno di non rinnegare quella stessa epopea imperiale sui cui poggia oggi la narrazione della Grande Rus’. Ai generali russi che oggi bombardano indiscriminatamente la popolazione civile, fiaccandola anche con la privazione dell’energia elettrica e delle risorse idriche, vanno ricordati i principi universali che per limitare la violenza bellica nel 1868 furono sanciti nella storica Dichiarazione di San Pietroburgo. Da questo documento universale, sulla scia degli accordi già raggiunti sul grano e per lo scambio di prigionieri, si potrebbe realisticamente ripartire per limitare gli attacchi indiscriminati, affinché si cessi nell’infliggere sofferenze alla popolazione civile.
Indice
- La Dichiarazione di San Pietroburgo
- Le “leggi dell’umanità”: l’eredità universale di San Pietroburgo
- Una strada per i negoziati
- Un tavolo di confronto per il Diritto Internazionale Umanitario
1. La Dichiarazione di San Pietroburgo
San Pietroburgo, la Leningrado restituita al suo nome nel 1991 dopo il crollo dell’Unione Sovietica, è la città che rappresenta più simbolicamente la Russia della cultura europea, grazie anche al celebre Palazzo dell’Ermitage che ospita le più grandi collezioni d’arte che vanno dalle opere di Caravaggio e Leonardo da Vinci per arrivare a quelle di Gauguin e Picasso, per ricordarne solo alcune. Sede della corte imperiale degli Zar, è da qui che deflagrò la rivoluzione d’ottobre del 1917 per poi diffondersi in tutta la nazione. Ma San Pietroburgo è ricordata anche dai giuristi per essere stata dalla metà dell’ottocento la culla del diritto internazionale che doveva regolamentare la condotta della guerra: il diritto bellico, oggi indicato come diritto internazionale dei conflitti armati o anche diritto internazionale umanitario. Dopo le tappe compiute a Solferino e a Ginevra con la nascita del Movimento Internazionale della Croce Rossa e la prima Convenzione di Ginevra del 1864, solo quattro anni dopo, nel 1868 è infatti ad Alessandro II di Russia che si deve la Dichiarazione di San Pietroburgo, in cui si sancì il principio di limitazione di alcuni tipi di armi e munizionamenti per contenere gli effetti della guerra.
La Dichiarazione di San Pietroburgo potrebbe oggi apparire ampiamente superata e quindi priva di significato: in concreto, vi si proibiva l’impego di proiettili esplosivi inferiori a 400 grammi. Tuttavia ancora oggi i suoi principi sono alla base delle altre convenzioni vigenti che proibiscono o limitano i metodi di combattimento e l’utilizzo di determinate armi e munizionamenti, come le “bombe a grappolo”, le armi incendiarie e termobariche, o anche quelle chimiche e batteriologiche, e le mine antiuomo. Intanto, ne va richiamata l’importanza per ribadire il ruolo delle componenti militari nella formazione del diritto umanitario: la Dichiarazione fu infatti concepita da una Commissione militare internazionale per essere adottata da un vasto numero di Stati, che andavano dalla Prussia al Brasile. Questi avevano assunto l’impegno a rinunciare all’impiego di proiettili esplosivi inferiori a 400 grammi, perché, ancorché destinati a colpire mezzi di trasporto, di fatto proiettili esplosivi di quel tipo finivano col colpire le persone causando gravi ferite con sofferenze atroci, in ogni caso superflue per i fini militari della guerra.
Il principio ispiratore di tale lungimirante regolamentazione si rinviene nel Preambolo, che nei trattati internazionali, come gli interpreti dell’International Law ben sanno, può contenere affermazioni di principio più generali e di carattere universale.
I passaggi significativi della Dichiarazione riguardano infatti i Considerando, che è il caso di richiamare testualmente:
«Considerando:
– che i progressi della civiltà devono produrre l’effetto di attenuare, nei limiti del possibile, le calamità della guerra;
– che il solo scopo legittimo che gli Stati devono prefiggersi durante la guerra è l’indebolire le forze militari del nemico;
– che a tal fine è sufficiente mettere fuori combattimento il più gran numero possibile di nemici;
– che si va al di là dello scopo anzidetto se si usano armi che aggravano inutilmente le sofferenze degli uomini messi fuori combattimento o ne rendono la morte inevitabile;
– che l’uso di tali armi sarebbe pertanto contrario alle leggi dell’umanità (…) ».
2. Le “leggi dell’umanità”: l’eredità universale di San Pietroburgo
Nella Russia dell’ottocento si affermano quindi concetti fondamentali che recepivano le teorie giusnaturalistiche che da Grozio all’Illuminismo avevano posto in luce il tema delle “leggi dell’ umanità”, da intendersi come limite anche per l’esercizio della violenza bellica. Pochi anni dopo, sempre in Russia, è al giurista Fyodor Martens che si deve la Clausola Martens del 1899, il fondamentale principio affermatosi nel diritto consuetudinario secondo cui, anche quando una situazione non è esplicitamente disciplinata dai trattati, i civili e i combattenti rimangono in ogni caso “sotto la protezione e l’imperio dei principi del diritto delle genti quali risultano dalle consuetudini stabilite, dai principi di umanità e dai precetti della pubblica coscienza”. La grundnorm del diritto umanitario viene sostenuta dalla Russia dello Zar Nicola II, che si fa promotore di due conferenze internazionali per la pace tenutesi all’Aja nel 1899 e nel 1907, da cui si originarono le rispettive Convenzioni dell’Aja.
Dopo le due guerre mondiali e i conflitti sorti dai processi di decolonizzazione, vale poi ricordare – in una lettura qui necessariamente di sintesi – che il progetto del diritto internazionale umanitario è approdato alle Convenzioni di Ginevra del 1949 e ai Protocolli I e II del 1977, dove la tutela della popolazione civile è affermata in particolare all’articolo 51 (I). Vi si richiamano le condizioni fondamentali per la condotta della guerra: si afferma ancora il “principio di distinzione” tra combattenti e popolazioni civili, nonché tra obiettivi militari e civili, e si vietano gli attacchi “dai quali ci si può attendere che provochino incidentalmente morti e feriti tra la popolazione civile”, o una “combinazione di perdite umane e di danni, che risulterebbero eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto e diretto previsto”. Sono proprio questi gli scenari che sembrano delinearsi nell’escalation assunta dalla guerra in Ucraina. Rispetto poi alla questione posta sulla violenza bellica che colpisce oggi le centrali elettriche e le risorse idriche per fiaccare la popolazione l’articolo 54 (I) reca un titolo eloquente: Protezione dei beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile. Il principio è la condanna di ogni deliberata azione di guerra, anche a titolo di “rappresaglia”, che abbia “la deliberata intenzione” di privare la popolazione civile o la Parte avversaria dei mezzi di sussistenza, e in particolare di “far soffrire la fame alle persone civili”, per provocarne lo spostamento o per qualsiasi altro scopo.
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3. Una strada per i negoziati
Questo breve excursus sulla evoluzione dei principi originati dalla Dichiarazione di San Pietroburgo ha dunque un senso in questo momento cruciale della escalation della guerra in Ucraina. Gli appelli alla pace si susseguono in questi giorni sotto varie prospettive, sino a lanciare l’idea di una Conferenza mondiale sulla pace. Si tratta di un obiettivo sulla cui concreta perseguibilità ad oggi pesa purtroppo uno stato di guerra dove giorno per giorno si rileva imprevedibile l’escalation, specie a danno della popolazione civile. Le estremizzazioni della violenza però non possono assuefarci all’idea che oggi in un conflitto armato si possano giustificare i massacri e i bombardamenti indiscriminati sulla popolazione, ora scientemente privata anche nei mezzi indispensabili alla sopravvivenza, come le risorse idriche o l’energia elettrica. Quest’ultimo aspetto appare dunque un tema concreto che deve essere affrontato con urgenza e un approccio realistico, cercando di individuare un percorso che prospetti possibilmente iniziative concrete e perseguibili.
L’obiettivo principale di giungere ad un cessate il fuoco immediato è certamente auspicabile, ma sé è difficile da perseguire è il caso che si insista su obiettivi intermedi e sui canali di comunicazione su cui già sono stati ottenuti risultati di rilievo. L’accordo sul grano è un esempio, ed è anche un indizio positivo il fatto che sia stato rilanciato dopo la minaccia della Federazione Russa di sospenderlo per ritorsione all’attacco di Sebastopoli. Vanno pure menzionati gli accordi che, ancora grazie alla mediazione di Erdogan, hanno consentito lo scambio di prigionieri. Non va infatti trascurato che hanno riguardato in particolare i combattenti del battaglione Azov arresisi a Mariupol, nei cui confronti gli ultranazionalisti russi avevano sollecitato la condanna a morte con l’accusa di terrorismo.
In questa prospettiva, può perciò assumere rilievo allargare questi ambiti di cooperazione all’osservanza delle norme del diritto internazionale umanitario. Sul punto si è già espressa l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che a stragrande maggioranza ha adottato la Risoluzione A/ES-11/L.2 , i cui effetti però non hanno registrato i risultati auspicati.
Una riflessione porta dunque a considerare che forse il livello “politico” di trattazione può rappresentare un ostacolo, mentre potrebbe essere più congeniale alla situazione una intesa diretta tra le componenti militari interessate alla gestione delle operazioni. La storia degli “accordi militari” sul campo insegna che possono essere ottenute tregue altrimenti difficili da realizzare, e per la situazione attuale del livello dello scontro raggiunto in Ucraina vale anche un’altra considerazione: i militari russi potrebbero maturare maggiore consapevolezza delle responsabilità che li riguardano direttamente, sia sotto il profilo dell’etica dei “comandanti”, che certo non possono vantare meriti nel coinvolgere vittime civili, sia sotto quello della rilevanza penale dei crimini di guerra, propria della “responsabilità di comando”. Non dimenticando, tra l’altro, che sul punto si stanno muovendo in una inedita cooperazione i giudici della Corte penale internazionale dell’Aja, gli stessi giudici ucraini anche in vista della istituzione di un Tribunale speciale internazionale, e quelli di diversi Stati europei che ammettono regole di giurisdizione universale per i crimini di guerra e contro l’umanità.
4. Un tavolo di confronto per il Diritto Internazionale Umanitario
Le cronache di questi tempi hanno mostrato le spietate strategie dei generali russi adottate in Siria e ora replicate in Ucraina, e quindi può apparire non facile affrontare un dialogo che limiti il livello della violenza bellica raggiunto in Ucraina. E tuttavia questo è il compito che deve essere affrontato dai giuristi, in particolare dai Legal Advisor di formazione militare, che storicamente hanno anche un ruolo significativo per l’evoluzione del diritto internazionale umanitario (per l’Italia vale qui ricordare l’opera fondamentale del generale Pietro Verri). Dovranno essere questi i principali attori per porre in agenda l’obiettivo di richiamare i principi fondamentali che regolano la condotta della guerra. Si tratterà in altri termini di aprire un tavolo di confronto con i generali russi, cui sarà il caso di ricordare proprio la loro Storia. Nella grandezza della Russia imperiale c’è stato il contributo dei loro padri, che in una “Commissione militare” di due secoli fa concepirono e lasciarono come eredità universale le “leggi dell’umanità” della Dichiarazione di San Pietroburgo e della Clausola Martens.
Su questo percorso potranno muoversi le componenti militari che in qualche misura stanno già adoperando gli strumenti del diritto internazionale umanitario per discutere degli accordi sul grano e sugli scambi di prigionieri: l’auspicio è che possano iniziare a parlare di come ridurre la violenza della guerra sulle popolazioni civili. Anche per Clausewitz nella guerra non vale solo la forza delle armi, poiché a prevalere alla fine sono i “valori dello spirito”.
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