La VI sezione penale della Corte di Cassazione interviene con forza dirompente in una fattispecie che ha già diviso la giurisprudenza di merito.
Ci eravamo già occupati, da un punto di vista civilistico, della problematica relativa alla possibilità di sospendere il condomino moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento seperato (“Condomino moroso, che fare? Breve panoramica sulle procedure per il recupero forzoso del credito”).
In quella sede si evidenziavano le difficoltà interpretative della norma, tanto che, in merito alla concreta applicazione stessa, la giurisprudenza di merito si era immediatamente divisa.
Con la riforma del condominio del 2012 (entrata in vigore il 18.06.2013), il legislatore ha modificato l’art. 63 disp. att. c.c., prevendendo al 3° comma dello stesso, la possibilità per l’amministratore, in caso di mancato pagamento dei contributi protratto per un semestre, di sospendere il condomino moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento superato.
Lo scrivente aveva espresso perplessità in merito alla stessa, ritenendola consentita solo in relazione a quelle forniture non essenziali, con divieto di sospensione per le forniture di prima necessità (acqua, luce, riscaldamento, ecc.) che, semmai, potrebbero essere interrotte solo negli immobili non destinati ad abitazione principale (quali ad esempio: doppi immobili, box, garage, cantine, ecc.).
Ed invero, il Tribunale di Milano, con ordinanza del 24.10.2013, aveva ritenuto illegittima la sospensione del servizio di riscaldamento, in quanto bene primario costituzionalmente protetto.
Di contro, più di recente, una siffatta interpretazione non era stata ritenuta condivisibile (Tribunale di Roma, ordinanza del 27 giugno 2014; Tribunale di Brescia, ordinanze del 17.02.2014 e del 21.05.2014), tanto è vero che era stato ordinato al condomino moroso di consentire ai tecnici incaricati dal condominio la sospensione della fornitura del riscaldamento, mediante ingresso all’interno dei locali di loro proprietà e mediante interruzione dell’afflusso dell’acqua calda dalle tubazioni condominiali verso i radiatori posti all’interno dell’unità immobiliare.
Ora la Suprema Corte, sia pure in una fattispecie antecedente l’anzidetta riforma del condominio, comunque applicabile per analogia anche al mutuato quadro legislativo, sembra condividere l’interpretazione meno afflittiva della menzionata norma.
In buona sostanza, il Tribunale di Cuneo prima, e la Corte d’Appello di Torino dopo, condannavano un tizio per avere, quale gestore di un residence, disattivato la corrente elettrica in un appartamento di un condomino moroso nel pagamento di utenze condominiali, alla pena di Euro 250,00 – oltre al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile – per il reato di cui all’art. 392 C.P. di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Ricorreva in cassazione l’imputato, deducendo di essere un mero esecutore di provvedimenti intrapresi da terzi soggetti, in particolare, dall’amministratrice della società che gestiva il residence che, peraltro, aveva già informato il condomino moroso dell’imminente distacco.
La Corte di Cassazione non vuol sentire ragioni, e con sentenza n. 47276, del 30.11.2015, dichiara inammissibile il ricorso dell’imputato, così confermando la pena allo stesso comminata in primo grado.
A sostegno della decisione assunta, la VI sezione penale riferisce come: “Nel caso in esame, la circostanza che l’imputato abbia eseguito decisioni o direttive del titolare del diritto non esclude affatto di per sé la punibilità dell’agente, in quanto per costante giurisprudenza il soggetto attivo del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni può essere anche colui che eserciti un diritto pur non avendone la titolarità, ma agendo per conto dell’effettivo titolare (tra tante, Sez. 6, n. 8434 del 30/04/1985; Sez. 6, n. 14335 del 16/03/2001). Né tale circostanza poteva escludere nel caso di specie il dolo dell’agente. Giova rammentare che il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, previsto dall’art. 392 c.p., richiede, oltre il dolo generico, costituito dalla coscienza e volontà di farsi ragione da sè pur potendo ricorrere al giudice, anche quello specifico, rappresentato dall’intento di esercitare un preteso diritto nel ragionevole convincimento della sua legittimità”.
Al fine di coordinare la decisione in commento, con gli aspetti civilistici della vicenda, dopo aver ricordato come il III comma dell’art. 63 disp. att. c.c., dispone che: “In caso di mora nel pagamento dei contributi che si sia protratta per un semestre, l’amministratore può sospendere il condomino moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato”, l’art. 392 c.p., prevede: “Chiunque, al fine di esercitare un preteso diritto, potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo, mediante violenza sulle cose, è punito, a querela della persona offesa, con la multa fino a cinquecentosedici euro…”.
Appare evidente, pertanto, che il discrimine per non incappare nel predetto reato è il preventivo ricorso al giudice civile.
Pertanto, l’amministratore che intenda legittimamente provvedere alla sospensione delle forniture in danno del condomino moroso da più di sei mesi, deve preliminarmente, chiedere l’autorizzazione al giudice, al fine di ottenere il sigillo di legittimità in merito al proprio operato, oltre che i limiti, il contenuto e le modalità concrete del distacco delle forniture.
Ciò eviterebbe abusi da parte dei soggetti (amministratore) abilitati dalla legge (art. 63 disp. att. c.c.) a comminare la predetta sospensione delle forniture.
Va da se che, con un quadro così eterogeneo della giurisprudenza di merito -, come sopra riassunto – alcuni Tribunali, aderendo all’orientamento più restrittivo, consentirebbero la mera sospensione di forniture non essenziali, mentre altri, giungerebbero a decisioni diametralmente opposte, abilitando l’amministratore a sospendere forniture di vitale importanza, quali energia elettrica, gas o riscaldamento.
In materia, pertanto, non appare più procrastinabile l’intervento del legislatore che dovrebbe mettere mano alla norma e chiarire definitivamente i limiti e la portata della stessa ovvero – nell’inerzia dello stesso – ci si attende l’intervento risolutivo delle sezioni civili della Suprema Corte di Cassazione.
Fermo restando che, a parere di chi scrive, alcune forniture vitali, quali acqua, luce, gas, dovrebbero risultare intangibili, anche in caso di reiterata morosità, atteso il loro evidente impatto sulle condizioni di vita e salute dei malcapitati che dovessero incappare in tale problematica.
Fortunatamente, in tale contesto, si registra con soddisfazione come la giurisprudenza, sia pure con alcuni distinguo, sia stia lentamente orientando verso tale ultima e meno afflittiva soluzione (Cfr.: Tribunale di Brescia, (ord.) 29.09.2014, n. 15600; Tribunale di Alessandria, 17.07.2015), motivando detta scelta anche in virtù della risoluzione delle Organizzazioni delle Nazioni Unite, per cui “il bene acqua non è una semplice merce, ma è un’estensione del diritto alla vita” (Risoluzione ONU GA/10967, del 28.07.2010).
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