SOMMARIO : 1. IL NECESSARIO PRESUPPOSTO DELLA SEGNALAZIONE ALL’AUTORITA’ GIUDIZIARIA ; 2. IL DIVIETO DI ACCESSO E LE MISURE DI PREVENZIONE; 3. LA COMUNICAZIONE DI AVVIO PROCEDIMENTO E IL DIVIETO DI ACCESSO; 4. LA PROPORZIONALITA’ DELLA MISURA SANZIONATORIA; 5. L’AUTONOMIA DELL’OBBLIGO DI PRESENTAZIONE RISPETTO AL DIVIETO DI ACCESSO.
1. IL NECESSARIO PRESUPPOSTO DELLA SEGNALAZIONE ALL’AUTORITA’ GIUDIZIARIA.
Come è noto l’art. 6 l. 401/1989, prevede che il divieto di accesso alle manifestazioni sportive può essere irrogato” nei confronti delle persone che risultano denunciate o condannate anche con sentenza non definitiva nel corso degli ultimi cinque anni per uno dei reati di cui all’art. 4, primo e secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, all’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, nr. 152, all’articolo 2, comma 2, del decreto legge 26 aprile 1993, nr. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, nr. 205, e all’articolo 6 bis, commi 1 e 2, della presente legge ovvero per aver preso parte attiva ad episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o che nelle medesime circostanze abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza”.
Si rileva che, a differenza della prima parte della disposizione, ove è molto chiaro il legame tra adozione della misura e denuncia o condanna per ben individuate fattispecie di reato, nella seconda parte questa connessione tra precedenti giudiziari e provvedimento amministrativo non è nettamente esplicitata, soprattutto nella fattispecie dell’incitamento, inneggiamento e induzione alla violenza.
Il Consiglio di Stato (1) ha tuttavia precisato che “anche per la fattispecie relativa alla partecipazione ad episodi di violenza ovvero all’incitamento, inneggiamento e induzione alla violenza…occorre necessariamente che i soggetti, dopo l’identificazione…avrebbero dovuto essere denunciati all’Autorità giudiziaria per una delle fattispecie indicate nell’art. 6, comma 1, di cui prima si è detto, mentre il non averlo fatto determina sicuramente violazione e falsa applicazione della norma medesima.
Né ha rilevanza quanto indicato nell’atto introduttivo dell’appello, in ordine alla considerazione che la sanzione di cui all’art. 6, comma 1, prima richiamata mirasse soprattutto alla prevenzione, in quanto la misura interdittiva prevista dalla norma stessa (al di là del fatto che ogni sanzione ha sempre un contenuto preventivo – la cosiddetta coazione psicologica – nei confronti degli altri soggetti), insieme con la componente meramente afflittiva, manifesta altresì una sua valenza preventiva anche nel caso considerato nella sentenza di primo grado e riconfermata in questa sede dalla necessità di una condanna (anche solo di primo grado) o di una denuncia. …
..Il che vale dire che la condanna o la denuncia, individuati quali presupposti, non sono affatto di ostacolo a far coincidere le due misure – repressiva e preventiva – nella norma stessa”.
Si deve dar conto, peraltro, di una recente sentenza di un giudice amministrativo di primo grado, che condivide peraltro un indirizzo interpretativo della Cassazione, secondo cui “il comportamento violento appare di per sé idoneo ad integrare una fattispecie rilevante, mentre la disposizione non richiede che esso acquisti concretamente rilevanza in sede penale” (2).
Solo una recente novella al testo sopra riportato ha esplicitamente reciso il legame, individuato dal prevalente orientamento giurisprudenziale, tra iniziative giudiziarie e misura inibitoria, esaltando le finalità preventive di quest’ultima, in quanto l’art. 2 del d.l. 8 febbraio 2007, nr. 8 , modificando l’art. 6 l. 401/1989, ha previsto che “il divieto di cui al presente comma può essere, altresì, disposto nei confronti di chi, sulla base di elementi oggettivi, risulta avere tenuto una condotta finalizzata alla partecipazione attiva ad episodi di violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive o tale da porre in pericolo la sicurezza pubblica in occasione o a causa delle manifestazioni stesse”.
Solo per inciso, si ravvisa che ben difficilmente, considerato anche il riferimento testuale agli “elementi oggettivi”, una “condotta finalizzata alla partecipazione attiva ad episodi di violenza” potrà non sfociare in una segnalazione all’Autorità giudiziaria a titolo di concorso nel reato, mentre appare di maggiore valenza preventiva la seconda ipotesi della messa in “pericolo della sicurezza pubblica”.
2. IL DIVIETO DI ACCESSO E LE MISURE DI PREVENZIONE.
Non di rado, nella pratica giudiziaria, la misura inibitoria di cui all’art. 6 l. 401/1989 viene associata alle misure di prevenzione di cui alla legge 1423/1956 e successive modificazioni ed integrazioni.
Anche se l’art. 1 del testo normativo da ultimo citato non fa esplicito riferimento a presupposti di natura giudiziaria, gli “elementi di fatto” da cui si rilevano i presupposti per l’applicazione delle misure vengono, di solito, individuati in condanne e, soprattutto, in comunicazioni di notizia di reato inoltrate all’Autorità giudiziaria.
La prospettata affinità tra la misura inibitoria ex art. 6. l. 401/1989 e le misure di prevenzione ha dato spazio a un orientamento interpretativo secondo cui anche la prima presupporrebbe un esame globale della personalità dell’interessato, onde valutarne la pericolosità, in conformità all’indirizzo giurisprudenziale (3) relativo ai provvedimenti di cui alla l. 1423/1956 e successive modificazioni ed integrazioni.
L’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 6 l. 401/1989 prescinde tuttavia da qualsiasi considerazione riguardante lo stile di vita dell’inibito, a differenza delle vere e proprie misure di prevenzione (sorveglianza speciale ed altre). In effetti il legislatore, al presumibile fine di contrastare in modo efficace il sempre più pericoloso fenomeno della violenza negli stadi, ha ritenuto che fosse sufficiente anche un solo fatto di reato, rientrante in specifiche categorie di illeciti penali e commesso in determinati contesti, per poter applicare la misura del divieto di accesso alle manifestazioni sportive ex art. 6 l. 401/1989; non risulta invece necessaria la consuetudine o l’abitualità nei comportamenti pericolosi, richiesta invece dall’art. 1 l. 1423/1956.
Tale opzione interpretativa è accolta in modo uniforme dalla giurisprudenza amministrativa, la quale ha affermato che, ai fini dell’adozione dei provvedimenti previsti dall’art. 6, l. 13 dicembre 1989 n.401, è necessario l’accertamento di un coinvolgimento attivo negli episodi di violenza legati a manifestazioni sportive, ma non è necessario “ che venga sempre in concreto accertata la pericolosità del soggetto che ha posto in essere quel comportamento” (4).
La peculiarità del divieto di accesso alle manifestazioni sportive rispetto alle misure di prevenzione è stata ancor meglio esplicitata in altra pronuncia giurisdizionale, la quale ha autorevolmente statuito che, in tema di provvedimenti previsti dall’art. 6. l. n. 401/1989, e successive modificazioni, conseguenti a turbative nello svolgimento di manifestazioni sportive, l’atipicità delle prescrizioni rispetto alle ordinarie misure di prevenzione esclude l’applicabilità automatica della regola di determinazione della competenza dettata dall’art. 4, l. n. 1423 del 1956, dato che il radicamento della competenza in capo al questore del luogo in cui siano stati commessi i fatti (episodi di violenza o condotte d’incitamento alla violenza) si fonda sulla circostanza che “la misura “de qua” è collegata ad una situazione di pericolosità desunta in via esclusiva dai fatti specifici commessi in occasione di manifestazioni sportive e non dalla complessiva personalità dell’obbligato” (5).
Quindi, l’apparente limitazione della finalità preventiva dell’art. 6 l. 401/1989 determinata dalla connessione con una denuncia o una condanna, ritenuta necessaria dal prevalente orientamento giurisprudenziale prima delle recenti innovazioni legislative, è decisamente controbilanciata dalla possibilità di applicare la misura in questione anche nei confronti di soggetti che abbiano manifestato in una singola occasione la loro concreta pericolosità.
3. LA COMUNICAZIONE DI AVVIO PROCEDIMENTO E IL DIVIETO DI ACCESSO.
In materia di applicabilità al divieto di accesso alle manifestazioni sportive dell’istituto partecipativo previsto dall’art. 7 l. 241/1990 si riscontrano differenti orientamenti interpretativi.
Qualche Collegio di primo grado ritiene, ad esempio, che la misura inibitoria ex art. 6 l. 401/1989 debba essere necessariamente preceduta dalla comunicazione di avvio procedimento, “non essendo sufficiente il generico richiamo a esigenze di celerità senza riferimento alla particolarità del caso concreto” (6).
La mera indicazione delle esigenze di celerità del procedimento, presupposto per la relativa deroga prevista dall’art. 7 l. 241/1990, non assicura pertanto la legittimità del provvedimento, secondo l’avviso del T.A.R. toscano, che più recentemente ha anche statuito che “ove le esigenze di celerità sussistano in concreto, è comunque possibile adottare, prima della comunicazione di avvio del procedimento, un divieto provvisorio ai sensi del secondo comma dell’art. 7 cit.” (7). Quindi, nella sentenza in esame, è stata esclusa in radice la possibilità di omettere l’avviso di avvio di procedimento ma, al più, si è contemplata per l’amministrazione la possibilità di ricorrere all’istituto cautelare di cui all’art. 7, cpv., l. 241/1990.
Al contrario, il Consiglio di Stato, pronunciandosi sulla sentenza appena citata resa dal T.A.R. Toscana, ha ritenuto che la normativa in materia di contrasto alla violenza durante gli eventi sportivi “ha attribuito al Questore il potere di inibire immediatamente l’accesso ai medesimi luoghi, nei confronti di chi sia risultato coinvolto in episodi di violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive.
Tale peculiare potere si giustifica per l’esigenza di tutelare prontamente l’ordine pubblico, di garantire il regolare svolgimento delle manifestazioni sportive e di evitare che chi sia risultato coinvolto in un precedente episodio torni a frequentare i luoghi ove esse hanno luogo.
Il provvedimento che inibisce l’accesso a tali luoghi – mirando alla più efficace tutela dell’ordine pubblico e ad evitare la reiterazione dei comportamenti vietati – non va necessariamente preceduto dall’avviso di avvio del procedimento” (8).
Il divieto di accesso alle manifestazioni sportive viene evidentemente inquadrato, dai giudici di Palazzo Spada, nella categoria dei provvedimenti urgenti in re ipsa.
Anche se la decisione giurisdizionale da ultimo citata afferma che “nel caso di specie il decreto del Questore, basandosi su una precedente denuncia che ha riguardato lo stesso appellante in occasione di un’altra competizione sportiva, si è motivatamente pronunciato sulla pericolosità dell’appellato ed ha espressamente richiamato “le particolari esigenze di celerità del procedimento” che non rendono necessario l’avviso di avvio del procedimento…”, tali asserzioni sembrano semplicemente apportare maggior sostegno ad un esito decisionale che poteva già desumersi dalle importanti statuizioni sopra riportate.
Anzi, le ultime precisazioni sembrano avvalorare l’interpretazione che non è affatto necessaria la palese e formalistica connessione tra l’indicazione delle esigenze di celerità del procedimento e gli elementi concreti che ne siano alla base, invece ottenibili dal provvedimento nella sua interezza.
A questo risultato ermeneutico conduce anche una corretta applicazione del principio di legalità, che se da un lato vincola la p.a. ad un corretto esercizio dei propri poteri, dall’altro lato deve anche ispirare l’azione del giudice amministrativo, il quale non può ravvisare la necessità di ulteriori adempimenti procedurali e requisiti provvedimentali rispetto a quelli previsti dalla legge, ponendosi altrimenti in contrasto con le esigenze di semplificazione previste dall’art 1, c. 2, l. 241/1990 e con le esigenze sostanzialistiche abbracciate dall’art. 21 octies, recentemente introdotto in tale testo normativo.
Per quanto attiene all’adozione di provvedimenti cautelari ex art. 7, cpv. l. 241/1990, tale istituto sembra mal conciliarsi con la natura stessa del provvedimento ex art. 6 l. 401/1989, cui è connaturata l’urgenza, come sopra evidenziato e così come dimostra la “convalida” delle connesse prescrizioni di presentazione ad ufficio di polizia, previste dalla stessa disposizione, che è un atto dell’Autorità giudiziaria che la Costituzione impone, appunto, in relazione ai provvedimenti urgenti dell’Autorità di pubblica sicurezza (art. 13 Cost.).
Si aggiunge che la “cautela della cautela”, prospettata dalla giurisprudenza di primo grado sopra riportata, oltre a sembrare una superfetazione interpretativa, non ha neppure un espresso fondamento nella norma di riferimento, l’art. 6 l. l. 401/1989.
4. LA PROPORZIONALITA’ DELLA MISURA SANZIONATORIA.
Queste ultime considerazioni sono anche utili ai fini di una corretta analisi di un’altra vexata quaestio, nella prassi giudiziaria in materia di divieto di accesso alle manifestazioni sportive, riguardante la proporzionalità della misura sanzionatoria adottata, con particolare riferimento alla durata della stessa.
Talune decisioni di primo grado estendono alla materia in esame tale principio, desunto dall’ordinamento interno e da quello comunitario, rilevando che lo stesso è applicabile soprattutto laddove la P.A. disponga di margini di apprezzamento discrezionale e, a maggior ragione, ai fini dell’emissione di provvedimenti restrittivi della sfera giuridica del destinatario; in particolare una pronuncia del T.A.R. Veneto ha dichiarato l’illegittimità del provvedimento nel quale “nessuna motivazione viene addotta a sostegno della scelta di irrogare la sanzione nella misura massima prevista (anni tre), in palese violazione dell’obbligo di motivazione”(9).
Pur ritenendo accoglibile l’opzione di fondo che estende alla misura inibitoria in esame il principio di proporzionalità, si dissente da tale orientamento giurisprudenziale, in quanto non è previsto dalla legge un particolare onere motivazionale, circa la determinazione della durata temporale del citato divieto, aggiuntivo e specifico rispetto a quanto previsto dall’art. 3 l. 241/1990 e dall’art. 6 l. 401/1989. Laddove la legge ha ritenuto necessario individuare in modo particolareggiato il contenuto della motivazione, lo ha fatto in modo esplicito, come nell’art. 10 bis, l. 241/1990, introdotto dalla l. 15/2005, e nell’art. 9 l. 25.8.1991, nr. 287, che prevede una specifica motivazione per l’adozione di un provvedimento di sospensione ex art. 100 T.U.L.P.S., comma I, per una durata superiore a 15 giorni.
Sembra, invece, che il T.A.R., nella sentenza sopra citata, abbia creato pretoriamente un nuovo requisito per l’adozione del provvedimento ex art. 6 l. 401/1989, oltretutto a pena di invalidità, senza un preciso riferimento normativo.
D’altro canto, la sentenza del T.A.R. si ispira ad una concezione formalistica della motivazione, ormai superata da decenni dalla giurisprudenza e dalla dottrina amministrativistica, che hanno adottato l’indirizzo della c.d. “dequotazione” della motivazione, in forza del quale le ragioni del provvedimento possono desumersi anche dagli atti del procedimento (ad es. motivazione per relationem). Questa istanza pragmatica trova la sua più aggiornata espressione nei nuovi orientamenti sostanzialistici del legislatore, resi palesi dal ben noto art. 21 octies l. 241/1990, introdotto dalla l. 15/2005.
A maggior ragione dovrebbe essere ritenuto valido un provvedimento nel quale la motivazione della durata massima della misura sia rinvenibile non in altri atti del procedimento, ma al suo interno e, precisamente, nella parte dove vengono descritti i presupposti di fatto, cioè i comportamenti violenti di cui i tifosi si sono resi responsabili. Tale descrizione, accompagnata da una sanzione effettivamente congrua, rendono superflui qualsiasi altra considerazione sulla durata del divieto di accesso e il relativo profilo motivazionale individuato praeter legem dalla giurisprudenza in esame.
Inoltre, è utile richiamare consolidati orientamenti giurisprudenziali in tema di sanzioni disciplinari nel pubblico impiego, secondo i quali “la valutazione della punibilità del comportamento rientra nella valutazione discrezionale dell’amministrazione e non può essere sindacata se non per evidenti ragioni di contraddittorietà, illogicità e travisamento dei fatti, ovvero, quanto alla misura, per evidente sproporzione tra i fatti contestati e la sanzione inflitta” (10); applicando tali principi alla materia in esame, una pronuncia di un giudice di primo grado ha stabilito che” per quanto poi concerne la motivazione del divieto, con specifico riferimento alla durata, giova rammentare, in termini generali, che il giudice amministrativo non può ordinariamente censurare la misura di una sanzione inflitta” (11).
5. L’AUTONOMIA DELL’OBBLIGO DI PRESENTAZIONE RISPETTO AL DIVIETO DI ACCESSO.
Nell’art. 6 l. 401/1989 troviamo due misure sanzionatorie applicabili rispetto al tifoso che si sia reso responsabile di determinati reati in occasione delle manifestazioni sportive: quella del mero divieto di accesso a tali manifestazioni, previsto dal I comma e quella, indicata nel II comma, dell’obbligo di presentazione ad ufficio o comando di polizia, nel corso della giornata in cui si svolgono i predetti eventi.
Tali misure, anche se perlopiù applicate congiuntamente, vanno distinte dal punto di vista teorico poiché, secondo quanto enunciato dal massimo organo di giustizia amministrativa, “il decreto del Questore è impugnabile innanzi al giudice amministrativo – quale espressione di un potere autoritativo – per la parte in cui dispone la misura di prevenzione del divieto di accesso ai luoghi ove si svolgono le competizioni sportive.
Per quanto riguarda invece la misura riguardante la comparizione personale presso organi di polizia, si applica l’art. 13 della Costituzione perché si tratta di una misura restrittiva della libertà personale (Corte Cost. 4 dicembre 2002, n. 12), sicchè essa è soggetta alla convalida dell’autorità giudiziaria (convalida che si caratterizza per il fatto che l’atto amministrativo – una volta convalidato – non è sostituito da un atto dell’autorità giudiziaria, ma continua esso stesso ad avere effetti perduranti nel tempo)” (12).
In virtù di questa rilevata autonomia, è possibile pacificamente ritenere che la decadenza dell’obbligo di presentazione, per mancata convalida da parte del G.I.P. ovvero per annullamento in sede di ricorso per Cassazione ex art. 6, comma IV, l. 401/1989, non determina alcun effetto sul provvedimento di divieto di accesso alle manifestazioni sportive, che rimane così pienamente efficace. Il Consiglio di Stato ha, tra l’altro, statuito che “l’autonomia tra procedimento penale e procedimento amministrativo fa sì che il venir meno delle misure cautelari o coercitive irrogate dal giudice penale non comporta di per sé la cessazione delle misure interdittive in questione”(13).
Più problematica appare la diversa ipotesi di annullamento della misura inibitoria, in sede di ricorso gerarchico ovvero di ricorso giurisdizionale, senza che sia stato rimosso dal mondo giuridico a seguito di appositi rimedi l’obbligo di presentazione, se si enfatizza il dato che presupposto di quest’ultimo è il divieto di accesso.
Tale opzione interpretativa non pare tuttavia accoglibile, sia per il principio di autonomia tra i due provvedimenti, sia per il principio di intangibilità del giudicato, relativo ad atti giurisdizionali divenuti irrevocabili, come l’ordinanza di convalida del G.I.P. non più suscettibile di impugnazione; su quest’ultima, pertanto, non può avere alcun effetto una sentenza di annullamento del giudice amministrativo.
Nell’ipotesi in esame, quindi, continua ad essere vincolante l’obbligo di presentazione, nonostante l’intervenuta decadenza del divieto di accesso.
Del medesimo avviso è una pronuncia di un giudice amministrativo di primo grado, secondo cui “le sorti dell’obbligo di presentazione…sono irrilevanti agli effetti della ed efficacia del divieto: segnatamente, la mancanza di convalida (ovvero il suo successivo annullamento) non priva di validità il divieto, né, del resto, l’annullamento di questo influisce sull’ordine di presentazione” (14).
Dott. Vito Montaruli
1 Consiglio di Stato, Sez. IV, 21.6.2005, nr. 3245 ;
2 T.A.R. Umbria-Perugia, 10 novembre 2006, nr. 552; conforme Cass. Pen., Sez. I, 25.9.2003, nr. 410;
3 Cass. Pen., Sez. V, 28 marzo 2002, nr. 23041; Cass. Pen., Sez. I, 5 maggio 1999, nr. 3426;
4 T.A.R. Umbria-Perugia, 10 novembre 2006, nr. 552;
5 T.A.R. Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, 13 ottobre 2006, nr. 2680; conformi Cass. Pen., Sez. I, 15 giugno 2004, nr. 29114; T.A.R. Lombardia, Sez. I, 5 febbraio 2004, nr. 477; T.A.R. Umbria, 31 agosto 2004, nr. 489; T.A.R. Toscana, Sez. I, nr. 1752/2005;
6 T.A.R. Toscana, Sez. I, 24.11.2004, nr. 6036;
7 T.A.R. Toscana, Sez. I 20.4.2005, nr. 1754;
8 Consiglio di Stato, Sez. VI, 15.6.2006, nr. 3532; conforme Consiglio di Stato, sez. VI, 16.10.2006, nr. 6128;
9 T.A.R. Veneto, Sez III., nr. 1437/2006;
10 Consiglio di Stato, Sez. IV, 8 luglio 1999, n. 1182;
11 Tar Veneto, Sez. III, nr.552/2005;
12 Consiglio di Stato, Sez. VI, 15.6.2006, nr. 3532; conforme Cass., SS.UU., 12 .11.2004, nr. 44273;
13 Consiglio di Stato, Sez. VI, 14.12.2005, nr. 7101;
14 T.A.R. Veneto, Sez. III, nr. 552/2005.
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