Ius proprium ( diritto comunale)
nell’alto medioevo, nelle comunità sparse per le campagne e per le spopolate città, esistono solo consolidate consuetudini riguardanti gli scarsi rapporti sociali esistenti. Di soliti, fino all’ xi secolo, sono consuetudini che tutti conoscono e vengono conservate dagli “antiquiores loci”, uomini di età e degni di fede, i quali hanno il compito di tramandarle ai giovani e di decidere eventuali contestazioni normative.
le sollecitazioni al rinnovamento sono per secoli modestissime e possono dipendere da casi nuovi non previsti dalle consuetudini, da involontarie modificazioni dovute alla memoria, dalla commistione di vari gruppi sociali o di intere comunità.
il diritto consuetudinario è custodito e interpretato, oltre che dagli “antiquiores loci”, dai “boni homines”, uomini, pochi nel numero, che hanno condotto vita retta, dai “scriptores”, notai che non sempre hanno buona conoscenza delle leggi e molto spesso le deformano per ignoranza. Con il sorgere dei comuni si creano possibilità di intervento prima mai immaginate, i loro ruoli si diversificavano diventando più attivi.
i “sapientes” (legum periti) acquistano un proprio spazio politico per la capacità di manovrare le consuetudini locali, mentre alcuni maestri di arti liberali, fattisi “doctores in iure”, acquistano con le loro “schole” un analogo spazio per la conoscenza delle leggi giustinianee. Nel meridione il discorso cambia venendo assorbiti dalla burocrazia del regnum quanti hanno pratica di diritto.
fra “legum periti” e “doctores” di scuola vi è fino dall’inizio una stretta collaborazione: i primi mettono per iscritto le consuetudini locali, i secondi preparano gli schemi e le figure valendosi della riscoperta del diritto romano che stanno conducendo in porto.
privati “scriptores” (notari, giudici, causidici) redigono dei “tractatus” nei quali fissano le norme consuetudinarie vigenti nella città, senza che i medesimi si trasformino in compilazioni ufficiali della città, come del resto, per tutto il secolo xii, notari e giudici solo raramente si trasformano in funzionari e magistrati.
questa collaborazione fra privati e comune dura per tutto il secolo xii, come dimostra la redazione delle consuetudini di bologna in casa di un famoso dottore giurista, bulgaro.
la consuetudine scritta si presenta come un elemento caratterizzante della vita cittadina rispetto a quella feudale per tutto il xii secolo, ma fino all’inizio del xiii secolo non è elemento caratterizzante del comune, ossia di quella particolare associazione giurata che nel giro di pochi decenni assorbe in sé altre forze cittadine: i giuristi e i cambisti.
con l’entrata dei giuristi pratici negli ordinamenti cittadini la raccolta di consuetudini passa dall’iniziativa privata a quella pubblica, per distinguere il nuovo potere dell’ordinamento pubblico dalla somma di quelli privati, prevalentemente patrimoniali, che esso accomuna in sé.
nel frattempo, per tutto il secolo xii, il comune comincia a darsi qualche norma per regolare gravi problemi comportamentali.
nell’atto di assumere la carica gli alti magistrati comunali formulano un programma di comportamento, articolato in norme, lo presentano all’assemblea di quanti fanno parte del comune civitatis e, dopo averlo letto, giurano di osservare quanto in esso è stabilito; l’assemblea ne prende atto e giura di obbedire ai magistrati. Questo rituale dovrebbe essere eseguito ogni volta che un magistrato succede al suo predecessore, ma con l’andare del tempo le norme del giuramento non vengono più modificate divenendo stabili e immutabili, queste prendono il nome di “brevia” e acquisiscono un carattere di diritto pubblico.
con il rafforzarsi dell’organizzazione comunale l’assemblea, dove si deliberano gli affari comuni di più rilevante entità, diventa sempre più caotica e facilmente manovrabile. Il consiglio comunale o i consoli espongono i termini delle delibere da prendere o i testi definitivi delle leggi da approvare, successivamente l’assemblea approva o respinge per acclamazione .
fra il xii e il xiii secolo le assemblee vengono disciplinate e si passa dalla votazione per acclamazione al voto singolo (palese o segreto) e alla pubblicazione dei testi approvati.
dagli “statuta”, dalle “consuetidines” e dai “brevia” si passa nel volgere di pochi anni allo “statutum”. La via è preparata da un lato, dalle redazioni private delle “consuetudines”, e dall’altro, dalla tecnica adoperata per la registrazione e la pubblicazione delle norme comunali. Il comune tiene un libro nel quale vengono registrate le norme giurate dai magistrati e dall’assemblea (brevia) e le norme votate (statuta). Quando una norma è corretta o sostituita da una nuova si cancella la vecchia norma o i passi corretti scrivendone a fianco la nuova o le “additiones” al testo esistente. Il procedimento può dare luogo a falsi o dubbi perciò si usano moltiplicare i libri esistenti creandone copie sia segrete che pubbliche, è evidente il passaggio da una fase privata ad una pubblica.
nella prima metà del xiii secolo si arriva a coordinare la normativa emanata dalle assemblee comunali e dai magistrati con le raccolte private di consuetudini. Lo “statutum” è l’espressione del potere corporativo di alcune delle arti maggiori, liberi proprietari, grandi mercanti, nobili e feudatari, “legum periti” e cambisti, con l’esclusione delle altre arti maggiori e di tutte le minori. Nell’esercizio del potere normativo il comune si avvale dell’opera dei “legum periti”, i quali in un primo momento (xii secolo) hanno il compito esclusivo di trascrivere nei libri della legge quanto stabilito dagli “statuta” e dai “brevia”, in seguito (inizio xiii secolo) vengono incaricati di incorporare nel corpus statutario comunale le raccolte di consuetudini cittadine. E’ anche l’epoca in cui i “legum periti” (pratici) entrano a far parte del “comune civitatis”.
per la creazione dello “statutum” si formano particolari commissioni i cui componenti, detti statutari sono formati da “legum periti” e “sapientes”. Per evitare che lo statuto acquisti carattere squisitamente corporativo si impone agli statutari l’isolamento per tutta la durata della compilazione, oppure li si lascia avere il massimo contatto con la cittadinanza al fine di recepire i consigli più utili e più vari.
dalle commissioni provvisorie degli statutari si passa gradualmente alla formazione di magistrature stabili, dette dei “reformatores” dello statuto che si riuniscono periodicamente per aggiornarlo. In questo stadio i “legum periti” hanno raggiunto un notevole potere politico ed economico all’interno del comune, costituendosi conseguentemente in corporazione autonoma.
accanto alle corporazioni di “legum perit”i esistono corporazioni di “doctores” in diritto che resistono all’incorporazione nel comune. Essi si identificano con la città, ma se ne distaccano per una sorta di internazionalismo fortemente proficuo dal punto di vista economico, politico e culturale. La loro autonomia è imperniata e rafforzata dapprima nelle confraternite e nelle consorterie parentali, poi nei collegi di giuristi dottori, nel prestigio delle scholae universitarie e nei loro collegamenti con le autorità ecclesiastiche. Per tutto il secolo xii non trova motivo di scontri né col comune in via di consolidamento, né con i giuristi pratici.
lo scontro matura alla fine del xii e all’inizio del xiii secolo, quando il comune vuole esercitare un potere normativo su tutta la vita cittadina, assorbendo nello statuto i “tractatus” e nel comune i pratici, mentre i “doctores” intendono rimanerne estranei per non perdere i vantaggi derivanti dall’uso del diritto romano in termini internazionalistici.
il dissidio diventa acuto quando il comune tenta di imporre, nel xiii secolo, il diritto statutario ai “doctores”. Molti ne negano la validità o la considerano opera di asini, alcuni ne tentano una giustificazione, ma in termini di obbligatorietà privatistica e considerando degli statuti esclusivamente le consuetudini.
nel corso del xiii secolo le posizioni si vanno chiarendo: da una parte i comuni elaborano una “difesa dello statuto” avvalendosi dell’opera di giuristi pratici famosi, che risolvono il problema teorico della supremazia in favore dei comuni compilando serie non originali di “quaestiones statutorum”; dall’altra i giuristi di scuola tendono a inglobare in un sistema, per mezzo della dialettica, il diritto statutario, dando al diritto romano e canonico la funzione di ius comune e al diritto statutario quella di ius proprium.
i dottori giuristi, per dare un fondamento teorico al potere normativo degli ordinamenti particolari, vista ormai l’impossibilità di negarne l’esistenza, prendono come spunto alcuni paragrafi della pace di costanza valorizzandoli in senso imperiale.
In questi paragrafi il barbarossa aveva riconosciuto ai comuni alcuni poteri fiscali, rientranti in antiche consuetudini (imposte sui mercati, sui boschi, sui ponti e simili). Inoltre aveva consentito che nei giudizi di appello i suoi delegati giudicassero secondo le leggi e le consuetudini. L’imperatore è la suprema autorità terrena e a lui spetta la titolarità di far norme, ma, come ha delegato alcuni singoli poteri, così permette ai comuni di dar leggi a se stessi.
la “permissio imperiale” rende valide le norme locali e legittima il potere; con fine senso politico i giuristi legittimano il potere legislativo comunale, ma lo rendono provvisorio e dipendente dalla volontà imperiale. Quando la signoria succede al comune, le posizioni e i legami si sono stabilizzati, con reciproco vantaggio, così che i professori giuristi procedono alla creazione di nuove teorie.
bartolo da sassoferrato traccia, analizzando i poteri imperiali, un modello teorico della potestà normativa che giustifichi qualsiasi ordinamento, purché questo funzioni. Così da un lato libera il potere locale dal pericolo della revoca imperiale, dall’altro, con acume politico, giustifica qualsiasi potere locale, da quello comunale a quello delle confraternite, ponendoli su uno stesso piano concorrenziale.
un allievo di bartolo, baldo degli ubaldi, ottiene lo stesso risultato politico di equiparazione delle varie fonti locali concentrando l’attenzione sul funzionamento di fatto di una società umana e dei suoi poteri normativi, indipendentemente dal modello teorico offerto dai poteri imperiali. Quindi in baldo ciò che ha rilevanza è l’esistenza della fonte legislativa.
i comuni articolano la difesa dei propri statuti nei confronti dei dottori giuristi su vari piani. Generalmente i reggitori inseriscono nel corpo delle leggi comunali una disposizione, nella quale fissano una gradazione delle norme che i giudici locali dovranno applicare, in questa risulta che il diritto comune occupa l’ultimo posto se non è del tutto escluso. Esso viene svalutato, trascurandone tutte le potenzialità intrinseche, a mero diritto positivo.
un ulteriore protezione è data dalla produzione normativa estremamente prolifica e mutabile, che ne rende difficile l’inserimento in un sistema dominato dal diritto comune. Questa instabilità legislativa è dovuta anche all’instabilità politica del comune, il quale tenta di ovviare a ciò con una continua produzione normativa, non volendo affidarsi all’interpretazione dei giuristi che potrebbero stabilizzare le norme rendendole più duttili. Dalla diffidenza verso qualsiasi giurista, per il timore di un adattamento delle leggi statutarie ai loro interessi consortili, deriva l’ultima disposizione comunale che vieta qualsiasi interpretazione che non sia letterale.
dal canto loro i giuristi, a partire dalla metà del xiii secolo, mirano ad inglobare gli statuti in un sistema dominato dal diritto comune. Seguono almeno due vie: tentano un controllo del corpus statutario nel momento formativo di elaborazione, inserendosi nelle commissioni incaricate dei lavori; oppure attraverso le teorie sull’interpretazione rinforzate dalla logica aristotelica.
se i pratici considerano impossibile una mera interpretazione letterale, tanto più che anche il diritto romano può essere interpretato, i giuristi di scuola nelle varie teoretiche concordano nell’interpretare il diritto statutario secondo il diritto comune.
questo porta a due conseguenze: categorie e concetti del ius comune si estendono al ius proprium e le potenziali possibilità espansive della norma statutaria vengono compresse.
nel trecento i giuristi di scuola raggiungono la maggiore tranquillità e stabilità del potere. Gelosamente custodito nell’interno delle città, sorretto da salde relazioni internazionali e reso prestigioso dalla profonda conoscenza dei testi legislativi romani e dal patrimonio di dottrine dialettiche costruite su di essi.
tra la fine del trecento e l’inizio del quattrocento il potere delle corporazioni di giuristi dottori inizia a incrinarsi. Nelle città la signoria piega verso il principato, il cui principe poggia il proprio potere assoluto su ben articolate forze sociali, cosicché l’area di autonomia nelle città dei giuristi dottori viene a restringersi, mentre le relazioni internazionali subiscono anch’esse una riduzione per la creazione di forti signorie regionali che assorbono la miriade di comuni minori.
il diritto romano perde la propria capacità di essere diritto comune cristallizzandosi, come del resto il diritto statutario. Il giurista doctores si trasforma in funzionario del principe e in questa nuova veste crea dottrine audaci con cui appoggiare il potere politico del signore.
Statuti delle corporazioni
nella vita comunale del xiii e xiv secolo assumono grandissima importanza le corporazioni e il ruolo che esse svolgono nella conduzione degli affari cittadini. Le corporazioni dei giuristi minori e quelle dei giuristi doctores, dette anche collegi, accanto alle corporazioni delle arti maggiori e di quelle minori elaborano, nel loro interno, una normativa valevole fra coloro che esercitano tale arte.
considerando i collegi di giuristi non si deve confondere il diritto che essi gestiscono come oggetto del loro lavoro con quello corporativo che organizza la loro professione fissandone le regole. Lo statuto corporativo viene formandosi, come quello comunale, su una intelaiatura di norme consuetudinarie messe privatamente per iscritto, sulle quali si aggiungono le norme periodicamente giurate dai magistrati (brevia) e quelle deliberate dall’assemblea (statuta).
nel xiii secolo, con il crescere dell’importanza delle corporazioni nella vita cittadina, commissioni appositamente nominate (balìe) provvedono a redigere il testo definitivo dello statuto della corporazione. In queste commissioni i giuristi non entrano a causa della diffidenza con cui vengono considerati dalle altre arti, perciò la stesura avviene in lingua volgare essendo questa perfettamente padroneggiata, a differenza del latino, da mercanti e artigiani.
le norme statutarie riguardano la vita interna della corporazione e l’esercizio dell’arte o del mestiere. Normalmente gli statuti corporativi trovano un limite naturale nello statuto comunale che si riserva il potere di controllo e d’intervento per arginare le forze disgregatrici del comune insite nelle corporazioni stesse.
Statuti familiari e consortili
lo stesso rapporto dialettico esiste fra statuto familiare e statuto comunale.
molte volte una famiglia di ampie dimensioni si dà uno “statuto” raccogliendo norme consuetudinarie e deliberazioni prese insieme in una specie di assemblea, o approvando e convalidando il contenuto ricorrente e tradizionale di atti testamentari.
altre volte può trattarsi non di una famiglia, ma di più famiglie aventi la stessa origine che esprimano uno statuto consortile. In questo consorzio possono entrarne a far parte anche persone estranee legate dall’acquisto, spesso per via di testamenti o di legati, di beni indivisibili delle famiglie; o perché svolgono in esse attività amministrative, culturali, militari, religiose.
parenti, affini, titolari di quote patrimoniali sono i consortes in senso proprio, gli altri sono i tenuti. Le materie prevalentemente disciplinate riguardano il controllo del patrimonio, la solidarietà nei negozi civili e negli atti penali, il reciproco sostegno nell’attività politica e militare. Gli statuti familiari sono limitati dallo ius commune e dallo ius proprium, anche se spesso provocano un condizionamento indiretto di questi diritti.
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Statuti delle confraternite
le confraternite sono organizzazioni nelle quali confluiscono persone di qualsiasi ceto sociale aventi in comune un determinato fine religioso. Questo fine può essere la mutua assistenza e la carità cristiana, l’assistenza ai poveri e agli infermi, la difesa della fede e la ricerca degli eretici.
tuttavia le funzioni sopra elencate possono avere un motivo politico ed economico sottinteso, come la distruzione di un concorrente facendolo perseguitare quale eretico, o il reciproco aiuto nella lotta per il controllo del comune, o anche l’accattivamento della simpatia popolare con le opere di carità.
questo non stupisce se si pensa che gli aderenti alle confraternite appartengono anche a corporazioni o consorzi familiari, apportandone gli interessi corporativi.
le confraternite si appoggiano a monasteri o a chiese riproducendone nei loro statuti parte delle consuetudini e sviluppando, in seguito, per proprio conto altre norme comportamentali o amministrative.
Ius proprium ( regnum siciliae)
nell’italia meridionale e negli ordinamenti periferici (sardi e sabaudi), il potere delle corporazioni di dottori giuristi è praticamente inesistente. Limitando il discorso al regnum siciliae si osserverà che i giuristi si muovono in un ordinamento che, per oltre un secolo, persegue un programma di accentramento, dividendo tra fideles e infedeles. Su questa falsariga si tentano esperimenti di gestioni larvatamente burocratiche che attraggono quanti hanno esperienza di diritto.
l’università di napoli essendo nata per decisione sovrana, pur rimanendo estranea alla curia e agli ambienti forensi, non può porsi come alternativa al potere comunale o sovrano. Per i motivi innanzi elencati non si sviluppa una scienza giuridica autonoma, non suscitando il diritto romano interesse fra le forze intellettuali locali a causa della scarsa rispondenza con la realtà meridionale, cosicché la professione forense e pratica prevale sull’insegnamento.
il diritto romano non è visto dai giuristi con la funzione sistematizzante dello ius commune, bensì con quella di diritto dell’impero, più confacente con la posizione dei giuristi nel regnum: sostanzialmente un diritto da usarsi per dare una maggiore dignità al discorso giuridico e con una funzione sussidiaria e secondaria, in concorrenza con il diritto feudale e longobardo, per completare il quadro normativo del regnum.
le norme giuridiche del regnum sono di due specie: norme regie e norme locali.
le prime norme regie vengono emanate da ruggero ii ad ariano nel 1140 e assumono il nome di assise, indicando l’assemblea, detta assise, riunita per prenderne atto dell’esistenza. Altre leggi isolate vengono promulgate da guglielmo i e guglielmo ii , ma solo nel xiii secolo con federico ii di svevia l’attività legislativa s’intensifica.
nel parlamento di melfi del 1231, convocato per contemplare e udire la maestà regia, si assiste alla promulgazione di una ampia codificazione distribuita in tre libri, che prendono il nome di “liber augustalis”. Il codice raccoglie tutte le constitutiones emanate dai predecessori di federico ii che le integra con altre emanate dalla sua cancelleria. Alcune leggi vengono aggiunte dopo il 1231 come “novae constitutiones”, l’opera è compiuta dal segretario di federico ii pier delle vigne, con la collaborazione di giacomo, vescovo di capua.
le leggi regie imposte nella forma emendata o ridotta del “liber augustalis” hanno la prevalenza su tutte le norme locali e feudali e sullo stesso diritto comune, romano e canonico.
ruggero ii aveva lasciato alle città la possibilità di adoperare le loro consuetudini a condizione che non fossero “manifestissime” contrarie allo ius regium.
federico ii riprende queste disposizioni e nella sua “constitutio puritatem” dispone che i giudici dovranno applicare per prime le leggi regie; successivamente, in mancanza di norme adatte al caso, le consuetudini locali, purché non siano contrarie allo ius regium e vengano approvate espressamente dal re, ossia le norme consuetudinarie dovranno essere “bonae et approbatae”; in terzo luogo le norme del diritto comune.
una nota esplicativa al testo spiega che è da intendersi come diritto comune il diritto romano e quello longobardo. Il diritto romano è degradato a diritto positivo sussidiario da applicarsi in concorrenza con gli altri diritti.
nel pensiero e nell’opera legislativa dei re normanni e svevi lo “ius regium” è preminente e prevalente rispetto a qualsiasi altro diritto, sia locale che feudale. Gli stessi “doctores” che lo insegnano a napoli, sia per il fatto di dipendere amministrativamente dal potere regio, sia per il fatto di essere stranieri senza interessi locali, non mostrano alcun desiderio di assimilare il diritto regio nel diritto comune.
il diritto regio trova applicazione pratica nei tribunali ad opera dei giuristi pratici assorbiti nelle strutture burocratiche del regnum, ma già da federico ii si verificarono pesanti pressioni dei potentati locali sullo “ius regium”.
con l’età angioino – aragonese lo “ius regium” regredisce a favore della autonomia delle città e del potere delle baronie.
la sporadica legislazione regia si sviluppa in forma di capitoli nei territori angioini del meridione e in forma di prammatica e di grazie nella sicilia aragonese, ma presenta caratteri che la rendono coerente solo per singole e limitate circostanze, mentre passato il motivo contingente, diventano del tutto instabili. Le città e i signori feudali raggiungono una tale potenza che impongono non solo il riconoscimento delle loro consuetudini, ma anche il peso del loro “consizium” nelle delibere regie.
più tardi presentano addirittura progetti di legge cui il re può solo dare il proprio placet, oppure contrattarne l’approvazione dietro compenso in denaro (leggi pattuite).
per tutta l’età normanno – sveva il fenomeno consuetudinario delle città è compresso dalla produzione legislativa regia. Ruggero ii si è procurato il favore di molte città promettendo il rispetto delle consuetudini, ma, calmata l’agitazione dei grandi feudatari pugliesi, nel 1140 viola i patti anteponendo le leggi regie al diritto consuetudinario, non facendolo applicare in caso di contrasto manifesto con le disposizioni regie.
dopo la morte di federico ii si ha un intensissimo sviluppo delle consuetudini cittadine che dura fino a tutto il secolo xiv: i “legum periti”, se ne hanno la capacità, raccolgono le consuetudini rimodellandole secondo i propri interessi, o, in caso di scarsa cultura, riportandole da qualche lontana altra città.
con questi diritti locali il patriziato cittadino, in particolare in sicilia, riacquista, dopo la parentesi federiciana, un proprio potere che i “legum periti”, sprovvisti di una autonomia corporativa, fiancheggiano essendo inseriti nella classe dominante. Ai pochi “doctores” che hanno studiato a bologna, ritornati in sicilia, non resta altro che un grosso prestigio e una maggiore sicurezza nel maneggiare il diritto.
analoga situazione nel meridione, dove l’unica differenza è data dal potere della dinastia angioina che, a differenza da quella aragonese, in alcuni periodi e per qualche caso, riesce a controllare le iniziative dei ceti locali miranti a un testo scritto di consuetudini.
il caso più esemplare si ha a napoli dove nel 1293 i cittadini chiedono al re il privilegio di un testo consuetudinario. Dopo avere a lungo tergiversato nel 1300 carlo ii d’angiò nomina una commissione di dodici membri di sua sicura fiducia, la quale presenta il suo lavoro al re, che incarica bartolomeo da capua di revisionare il testo dell’opera. Nel 1306 il testo ufficiale delle consuetudini della città di napoli viene pubblicato. Non è difficile vedere nell’iter il prevalere della volontà sovrana su quella del patriziato cittadino durante la stesura dell’opera.
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