di Alessia D’Addazio*
* Dottoranda in Diritto processuale civile presso l’Università Sapienza di Roma
Sommario
1. La pronuncia della Corte di cassazione
2. L’estinzione del giudizio di rinvio nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo: un confronto
3. Tipologie di rinvio e funzione sostitutiva
4. Conclusioni
1. La pronuncia della Corte di cassazione
Con una recente sentenza (Cass. civ., sentenza del 10 febbraio 2020, n. 3022), la Suprema Corte ha affermato che «in tema di effetti del giudizio di rinvio sul giudizio per dichiarazione di fallimento, ove la sentenza di rigetto del reclamo contro la sentenza dichiarativa, di cui alla L. Fall., art. 18, sia stata cassata con rinvio, e il processo non sia stato riassunto nel termine prescritto, trova piena applicazione la regola generale di cui all’art. 393 c.p.c., alla stregua della quale alla mancata riassunzione consegue l’estinzione dell’intero processo e, quindi, anche l’inefficacia della sentenza di fallimento».
L’occasione per la pronuncia nasce da una fattispecie in cui, dichiarato il fallimento di una società di fatto e dei soci illimitatamente e personalmente responsabili, uno di costoro propone reclamo ex art. 18 L. Fall. avverso la sentenza dichiarativa di fallimento; l’impugnazione viene rigettata con conferma della sentenza di prime cure ma, a seguito del ricorso per cassazione esperito avverso il provvedimento di rigetto della Corte d’appello, la pronuncia viene ribaltata con cassazione della sentenza della Corte d’appello e rinvio della causa al medesimo ufficio giudiziario (in diversa composizione) ai fini del riesame della dichiarazione di fallimento del ricorrente. Il giudizio non viene riassunto in sede di rinvio. Il ricorrente, allora, chiede al giudice delegato (del Tribunale di Roma che ha dichiarato il fallimento, poi travolto in sede di legittimità) di far annotare presso il Registro delle imprese l’avvenuta estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 393 c.p.c. e di ordinare la cancellazione delle trascrizioni nel frattempo eseguite a suo carico e a favore della massa. A seguito del decreto di diniego dell’istanza, il ricorrente propone reclamo ai sensi dell’art. 26 L. Fall., anch’esso rigettato dal Tribunale. L’ordinanza di rigetto, emessa sul presupposto che alla mancata riassunzione del giudizio di reclamo non consegua l‘estinzione del processo di fallimento, in quanto la struttura del giudizio fallimentare è ostativa all’applicazione della disciplina dettata dall’art. 393 c.p.c., è stata quindi nuovamente impugnata con ricorso per cassazione.
Gli argomenti del Tribunale di Roma – orientati, da un lato, a differenziare la natura e il funzionamento del reclamo exart. 18 L. Fall. dalle impugnazioni “ordinarie” e, dall’altro, a ricollegare la disciplina apprestata dall’art. 393 c.p.c. alle sole ipotesi in cui la decisione resa in fase di impugnazione abbia natura ed efficacia sostitutiva del provvedimento impugnato (ipotesi non configurabile -secondo il Tribunale – nel procedimento di reclamo avverso il decreto di rigetto dell’istanza di fallimento, ove la Corte d’appello, investita di tale impugnazione, nel caso in cui ritenga di accoglierla non può comunque sostituirsi al Tribunale nella dichiarazione del fallimento, stante la necessità di rinvio al Tribunale disposta dall’art. 22 L. Fall.) – vengono sostanzialmente replicati dal procuratore generale.
La Corte, invece, ritiene che la soluzione fornita dal Tribunale non sia “convincente”, né tanto meno condivisibile, in quanto basata sulla «forzatura dei dati normativi oltre che sul travisamento della natura attribuibile all’art. 393 cod. proc. civ.».
Nel provvedimento impugnato, il giudice àncora il rigetto dell’istanza del ricorrente al presupposto che oggetto del giudizio di reclamo sia «il gravame proposto contro la detta sentenza» (dichiarativa di fallimento) e non «l’originaria domanda di fallimento», con la conseguenza che, in caso di cassazione con rinvio e di mancata rituale riassunzione del procedimento, giammai potrebbe venire travolta quella originaria domanda di fallimento, ma a subire l’estinzione sarà solo il processo di reclamo instaurato e non più coltivato. Siffatta ricostruzione, osserva il giudice di legittimità, presuppone, senza menzionarlo, l’operare della disciplina contenuta dall’art. 338 c.p.c. relativa all’estinzione dei procedimenti di appello e di revocazione ordinaria, che prevede, appunto, il passaggio in giudicato della sentenza impugnata. Dinanzi a questa ricostruzione, la Corte di cassazione demolisce, in prima battuta, la premessa del ragionamento operato dal Tribunale, ritenendo «non corretta l’allusione del tribunale al fatto che il reclamo innesti un processo autonomo avente ad oggetto il (solo) gravame avverso la sentenza di fallimento» e non la dichiarazione di fallimento in sé. Il giudice di legittimità osserva altresì sul punto che, nel previgente regime, in cui l’opposizione al fallimento regolata dall’art. 18 L. Fall. nella sua formulazione originaria[1] costituiva, analogamente a quanto previsto per l’opposizione a decreto ingiuntivo, un mezzo di impugnazione teso ad avviare un processo di cognizione di primo grado, regolato dalle ordinarie norme del codice di rito, si poteva sostenere, al pari di quanto fatto dal Tribunale di Roma, che la mancata riassunzione del giudizio di rinvio travolgesse il solo procedimento di opposizione e non anche la preliminare e sommaria fase di dichiarazione del fallimento, con conseguente stabilizzazione di tale pronuncia. All’opposto, nell’attuale disciplina, al procedimento di reclamo è conferito effetto devolutivo pieno rispetto ad un precedente provvedimento di natura decisoria suscettibile di acquistare autorità di cosa giudicata. L’effetto sostitutivo, invece, risulta limitato dalla previsione dell’art. 22, comma 4, L. Fall., il quale mantiene in capo al Tribunale la funzione dichiarativa del fallimento in ipotesi di accoglimento del reclamo proposto dal creditore istante o dal pubblico ministero. A proposito di tale profilo, la Corte rileva l’erroneità della conclusione del Tribunale secondo cui si crea un collegamento (o meglio una dipendenza) essenziale tra art. 393 c.p.c. e natura sostitutiva della sentenza (cassata). Da questo rilievo, poi, si aprono due scenari argomentativi, l’uno relativo al contenuto della pronuncia cassata e alla rilevanza dello stesso ai fini dell’applicazione dell’art. 393 c.p.c. e l’altro relativo alla comparazione con la cassazione del provvedimento reso in un giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo e alla doppia possibile sorte del decreto ingiuntivo, come elaborata da Cass. civ., Sez. Un. 22 febbraio 2010, n. 4071, i quali meritano qualche rapido cenno nei paragrafi che seguono.
[1] Questo l’iniziale tenore letterale della norma: «Contro la sentenza che dichiara il fallimento il debitore e qualunque interessato possono fare opposizione nel termine di quindici giorni dall’affissione della sentenza. L’opposizione non può essere proposta da chi ha chiesto la dichiarazione di fallimento. L’opposizione è proposta con atto di citazione da notificarsi al curatore e al creditore richiedente. L’opposizione non sospende l’esecuzione della sentenza». Essa si inseriva in una cornice normativa in cui la dichiarazione di fallimento era pronunciata, così come nell’attuale disciplina, dal Tribunale in camera di consiglio, ma senza la necessità di convocazione del debitore o di instaurazione del contraddittorio con gli eventuali creditori istanti (art. 15 L. Fall. nella versione originaria).
2. L’estinzione del giudizio di rinvio nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo: un confronto
Nel procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo è previsto, all’art. 653 c.p.c. in merito alla formazione del titolo esecutivo, che, in caso di rigetto dell’opposizione, ad acquisire definitività sia il decreto ingiuntivo, mentre in caso di accoglimento parziale solo la sentenza costituisca titolo esecutivo per l’attuazione del diritto ivi riconosciuto. Su questa premessa, cioè di sopravvivenza del decreto ingiuntivo in caso di rigetto dell’opposizione e di perenzione di tale provvedimento in caso di accoglimento (anche parziale) dell’opposizione, si è ritenuto[2] che, laddove il provvedimento di rigetto (che non aveva eliminato l’esistenza del decreto ingiuntivo), emesso in primo grado o in appello, sia cassato con rinvio, alla mancata riassunzione del giudizio di rinvio non può conseguire l’estinzione di tutto il procedimento, ma la consolidazione definitiva (i.e. passaggio in giudicato o, secondo indicazione più precisa – ma non pacifica – preclusione pro iudicato[3]) del decreto ingiuntivo opposto; al contrario, laddove il provvedimento di accoglimento dell’opposizione (che aveva eliminato il decreto ingiuntivo, sostituendosi allo stesso in caso di accoglimento solo parziale) sia cassato con rinvio, alla mancata riassunzione del giudizio di rinvio consegue, inevitabilmente, l’estinzione dell’intero giudizio (comprensivo della fase monitoria) ai sensi dell’art. 393 c.p.c. Il che, in un certo senso, equivale a ritenere che spetti alla parte interessata alla conduzione del giudizio di rinvio provvedere alla riassunzione, in quanto, laddove sia stata cassato il provvedimento di rigetto dell’opposizione, sarà l’opponente ad avere interesse a riassumere il giudizio che costituisce la fase rescissoria della spiegata impugnazione, mentre, in caso di cassazione del provvedimento di accoglimento dell’opposizione, sarà il creditore a nutrire l’interesse alla prosecuzione in fase di rinvio.
Questa diversificazione di esiti in base al precedente svolgimento del giudizio si pone, sotto questa ottica, sul piano concettuale di chi attribuisce all’art. 393 c.p.c. natura sanzionatoria[4].
Sotto il profilo strutturale, invece, la Corte osserva come la disciplina in questione non sia replicabile al caso di mancata riassunzione del giudizio di rinvio all’esito della cassazione del provvedimento reso in fase reclamo exart. 18 L. Fall., non potendosi rinvenire in questa materia né una norma che, al pari dell’art. 653 c.p.c., preveda espressamente che, in presenza di un determinato contenuto (rigetto), la sentenza resa in sede di reclamo non si sostituisca al provvedimento reso nella precedente fase, né una conformazione “bifasica” analoga a quella del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, nel quale l’atto di citazione, intriso di connotati impugnatori, costituisce il passaggio (eventuale) dalla fase sommaria condotta secondo le norme speciali del rito monitorio ad un vero e proprio processo di cognizione, quel “processo”, appunto, cui l’art. 393 c.p.c. si riferisce. Proprio delineando queste differenze, il giudice di legittimità, pur schermandosi dietro affermazioni di forte impatto relative alla non praticabilità dell’accostamento tra processo per dichiarazione del fallimento e opposizione a decreto ingiuntivo sotto il profilo analizzato, timidamente sostiene che la struttura previgente del procedimento di dichiarazione di fallimento, caratterizzato da una prima fase sommaria, eventualmente seguita da un giudizio di opposizione a cognizione piena[5], poteva invece ritenersi accostabile a quanto previsto, partendo dall’art. 653 c.p.c., in tema di rinvio a seguito di cassazione del provvedimento emesso nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.
È una riflessione, tuttavia, che la Suprema Corte non porta a conclusione, sostenendo poi, all’inverso, che la natura dell’art. 393 c.p.c. quale regola processuale – e non quale principio – impedisce di elaborare soluzioni derogatorie senza espressa previsione.
A ciò si aggiunge che il necessario rinvio da parte della Corte d’appello al Tribunale per la dichiarazione di fallimento, previsto dall’art. 22 L. Fall., non può né deve essere inteso come sintomo di limitazione oggettiva del contenuto del giudizio di reclamo, che risulterebbe dimidiato dall’attribuzione di quella competenza al Tribunale, ma come frutto di una mera scelta di politica legislativa. Il reclamo, quindi, investe l’intero procedimento di dichiarazione di fallimento, sebbene la decisione resa dalla Corte di appello non sia sempre idonea ad assumere funzione sostituiva.
[2] Cfr. la richiamata Cass. Sez. Un. 22 febbraio 2010, n. 4071.
[3] Cfr. E. Redenti , Diritto processuale civile, 1954, III, 25 ss.; E. Garbagnati, Studi in onore di E. Redenti nel XL anno del suo insegnamento, Milano, 1951, I, 469 ss.; B. Capponi, Il procedimento d’ingiunzione, Bologna, 2009, 691 ss.; G. Franco, Guida al procedimento d’ingiunzione, Milano, 2009, 194 ss.
[4] Cfr. l’approccio apertamente critico di G. Verde, L’art. 393 c.p.c.: una disposizione da trascrivere, in Riv. dir. proc., 2018, 929 ss., il quale richiama (e critica) la pronuncia Cass. 18 marzo 2014 , n. 6188, ove si afferma che «il disinteresse per la prosecuzione del giudizio di rinvio, rivelato dal verificarsi del fenomeno estintivo, merita una valutazione negativa per cui l’intera attività processuale si caduca, salvo l’effetto del principio di diritto (…) e ciò al di là di una valutazione di imputazione dell’estinzione basata sul criterio dell’interesse alla prosecuzione del giudizio» tenuto conto che «il legislatore (…) ha (…) preferito sanzionare il disinteresse delle parti come tale» e per tale ragione «La mancata riassunzione del giudizio di rinvio determina, ai sensi dell’art. 393 cod. proc. civ., l’estinzione dell’intero processo, con conseguente caducazione di tutte le attività espletate, salva la sola efficacia del principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione, senza che assuma rilievo che l’eventuale sentenza d’appello, cassata, si sia limitata a definire in rito l’impugnazione della decisione di primo grado ovvero abbia rimesso la causa al primo giudice e, dunque, manchi un effetto sostitutivo rispetto a quest’ultima pronuncia, rispondendo tale disciplina ad una valutazione negativa del legislatore in ordine al disinteresse delle parti alla prosecuzione del procedimento». Di questo aspetto si tratterà ancora infra.
[5] V. nota 1.
3. Tipologie di rinvio e funzione sostitutiva
Come anticipato, il giudice di legittimità si mostra rigoroso nell’applicare l’art. 393 c.p.c. senza indugiare a proposito del richiamato collegamento tra disciplina della norma in esame e funzione sostitutiva della pronuncia di appello, cassando l’argomentare del Tribunale «quasi che nel caso in cui tale funzione [sostitutiva] abbia a far difetto l’art. 393 non debba trovare applicazione», proclamando senza esitazione alcuna che «l’ambito dell’art. 393 va oltre la detta funzione» normalmente sostitutiva della sentenza d’appello e puntualizzando che la norma in questione «non esprime un principio, ma una regola processuale», regola che, in caso di fallimento, non conosce deroghe. È per tale ragione che, in caso di omessa riassunzione del giudizio di reclamo di cui all’art. 18 L. Fall. a seguito della cassazione del precedente provvedimento reso in tale sede, l’estinzione non può riguardare quel provvedimento indipendentemente dal processo nel cui ambito è stato emesso. La soluzione, di per sé, convince; allo stesso tempo, però, sono state prospettate valide ragioni idonee ad incrinare la generale applicabilità dell’art. 393 c.p.c. non solo al caso in questione, ma a tutte quelle fattispecie in cui la sentenza cassata sia stata incapace di sostituirsi a quella precedentemente resa nel primo grado di giudizio.
La regola prevista dall’art. 393 c.p.c. e l’indagine relativa alla struttura del giudizio di rinvio aprono, infatti, un dibattito di tenore più generale, relativo all’assenza di funzione sostitutiva delle decisioni di rigetto in rito (o quelle con cui il giudice di appello abbia «rimanda[to] le parti davanti al primo giudice» ai sensi degli artt. 353, 354 c.p.c.[6]) emesse in sede di appello e poi cassate per error in procedendo (o error in iudicando de iure procedendi) dalla Suprema Corte con rinvio; un rinvio che la dottrina definisce restitutorio, in quanto funzionale alla “restituzione” al giudice di merito del giudizio, depurato dagli errori processuali commessi, per la sua corretta conduzione, in contrapposizione al rinvio prosecutorio (disposto a seguito della cassazione per error in iudicando), connotato dalla enunciazione di un principio di diritto funzionale alla rinnovazione del giudizio dal punto di vista sostanziale e non solo meramente procedurale. La strada per queste riflessioni non poteva che essere aperta dal Chiovenda, fautore o comunque ispiratore dell’attuale formulazione dell’art. 393 c.p.c., in cui non v’è ombra di detta differenziazione[7]. Sebbene il Maestro distingueva tra i casi di cassazione della sentenza di appello per “errori di giudizio”, nei quali la sentenza resa in secondo grado «rimane come atto giuridico in sé valido che si è sovrapposto alla sentenza di primo grado e le ha tolto ogni valore potenziale di sentenza» e quelli per “vizi di attività”, ove, invece, «è tolta di mezzo la sentenza anche come atto giuridico e può dirsi di essa che può considerarsi come non avvenuta »[8], Egli sosteneva, comunque, generalmente che «anche quando una sentenza d’appello riformò (o confermò) quella di primo grado e successivamente è cassata essa stessa dalla Corte di Cassazione, la perenzione del giudizio di rinvio pone nel nulla l’intero processo»[9].
L’ambivalenza delle considerazioni non poteva che far germogliare successive e audaci riflessioni, inclini a ribaltare le conclusioni del ragionamento. Così, da E.F. Ricci[10] in poi, si sono elaborate argomentazioni di tenuta logica forte, cui si aderirebbe con totale convinzione se solo la littera legis disponesse altrimenti, o precisasse di più.
Si parte dalla diversificazione in merito all’efficacia che può essere riconosciuta alla sentenza di appello a seconda che questa abbia effettivamente sostituito con una decisione nel merito la pronuncia resa in primo grado o che, invece, si sia limitata ad impedirne l’esame in ragione di vizi formali esterni al provvedimento impugnato ovvero, in accoglimento della spiegata impugnazione, abbia rinviato la causa al giudice di primo grado. Se l’art. 393 c.p.c. sembra confermare il carattere generale ed irreversibile dell’effetto sostitutivo della sentenza di appello nei confronti della sentenza di primo grado[11], che «dunque scompare dalla scena»[12], di talché nel momento in cui il giudizio di rinvio si estingue non esiste più alcun provvedimento capace di resistere all’estinzione – non il provvedimento di appello, cassato dal giudice di legittimità, né la pronuncia di primo grado, sostituita da quella di appello – la distinzione sulla base della effettiva capacità sostitutiva della pronuncia di appello potrebbe condurre altrove. Si è detto, infatti, che la sentenza del giudice di appello non sempre sostituisce la sentenza di primo grado e tanto accade quando la sentenza di appello risulta radicalmente nulla o inesistente, quando abbia chiuso in rito il procedimento di impugnazione[13]: in tali casi, allora, «una interpretazione funzionale della disposizione impone che resti in vita ciò che non era mai stato eliminato dal mondo giuridico e, per conseguenza, la soluzione va rintracciata applicando in questo caso l’art. 338 c.p.c. (e non l’art. 393 c.p.c.)»[14] con conseguente stabilizzazione della pronuncia resa in primo grado. Essa, infatti, non aveva mai cessato di esistere – o, secondo altra prospettiva, sarebbe tornata in vita a seguito dell’annullamento del provvedimento di appello in quanto radicalmente nullo e quindi insuscettibile di produrre effetti “in senso negativo” nei confronti della pronuncia resa in primo grado[15] -sicché la sua estinzione ex art. 393 c.p.c. sarebbe il risultato della valutazione negativa dell’inattività delle parti (di qui la natura sanzionatoria della norma) e non della dinamica processuale in sé considerata tenuto conto degli effetti e delle caratteristiche dei provvedimenti emanati nel medesimo giudizio[16]. Chi diversifica la disciplina tra art. 338 c.p.c. e art. 393 c.p.c., in buona sostanza, non fa altro che dare atto dei molteplici possibili esiti dei giudizi di appello, mettendo in fila la considerazione sulla incerta portata sostitutiva della sentenza di appello e quella sulla altrettanto incerta portata “demolitrice” dell’estinzione del giudizio di rinvio exart. 393 c.p.c.
Questi, grosso modo, sembrano essere alcuni degli argomenti che lo stesso Tribunale aveva eretto e che sono stati interamente censurati dalla Corte di cassazione.
[6] In tali ipotesi, tuttavia, il ricorso per cassazione avverso la pronuncia di appello interrompe il termine per la riassunzione del giudizio dinanzi al giudice di primo grado disposta dalla corte di appello, sicché ogni considerazione in merito alla mancata riassunzione del giudizio di rinvio disposto dalla Corte di cassazione risente dell’interruzione del termine per la riassunzione dinanzi al giudice di primo grado disposta dall’art. 353 c.p.c.
[7] Per tale ragione prevale l’opinione secondo cui al giudizio ex art. 392 c.p.c. non preesiste alcuna sentenza di secondo grado ovvero di prima istanza, sostituita da quella di appello, o in caso di ricorso per saltum rescissa direttamente dalla cassazione, idonea a passare in giudicato: cfr., per tutti, Cerino Canova, Le impugnazioni civili. Struttura e funzione, Padova, 1973, 604.
[8] G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, rist., Napoli, 1965, 398 ss. Con la funzione di revisione del giudizio di diritto «la Cassazione partecipa sebbene indirettamente alla formazione della decisione di merito, e può dirsi che in un certo senso l’attività della Cassazione combinata con quella del giudice di rinvio costituisce una forma di terza istanza»; con la funzione di annullamento «la Cassazione annulla attività giuridiche difettose. E la differenza pratica importantissima si manifesta nell’effetto della cassazione nei due casi. Nel primo caso, la Cassazione non richiama in vita la sentenza di primo grado, poiché essa non toglie ogni valore alla sentenza di secondo grado, questa cessa d’avere valore come atto d’applicazione della legge, ma rimane come atto giuridico in sé valido che si è sovrapposto alla sentenza di primo grado e le ha tolto ogni valore potenziale di sentenza. (…) Nel secondo caso invece, cioè d’annullamento, è tolta di mezzo la sentenza anche come atto giuridico e può dirsi di essa che può considerarsi come non avvenuta».
[9] G. Chiovenda, cit., 888.
[10] E.F. Ricci, Il giudizio civile di rinvio, Milano, 1967, 105 ss.
[11] M. Negri, Gli effetti dell’estinzione nell’arco dei vari gradi del processo, Torino, 2017, 24.
[12] Ivi, 33
[13] Cfr. V. Andrioli, in Riv. dir. proc., 1961, 118; N. Picardi, in Riv. dir. proc., 1994, 532 ss.; R. Vaccarella , Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli, 1975, 208 ss.
[14] G. Verde, cit., 932 e 933.
[15] G. Chiovenda, in un passaggio successivo osserva: «se una sentenza d’appello è cassata per violazione o falsa applicazione di legge, non è per questo richiamata in vigore la sentenza di primo grado: ma la causa trovasi dinanzi al giudice di rinvio in questa condizione, che non esiste pel momento alcuna statuizione di merito. Diversamente se la sentenza d’appello sia annullata, cioè cassata per nullità; in questo caso la sentenza d’appello non è solo tolta di mezzo come atto d’applicazione della legge, ma in genere come atto giuridico perché nullo; onde perde ogni importanza e si considera come non esistita, e vien meno anche la sua efficacia negativa rispetto alla sentenza di primo grado, che torna in vita», cit., 965.
[16] Con riguardo cassazione della pronuncia della Corte di appello emessa a seguito di impugnazione del lodo arbitrale, cfr. S. Boccagna, Sull’arbitrato, Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 67 ss, il quale osserva che «l’annullamento della decisione impugnata (del lodo, nel nostro caso) costituisce esso stesso l’effetto principale della sentenza di impugnazione e dunque non può che restare travolto dalla rescissione di quest’ultima sentenza»; E. Fazzalari, Impugnazione per nullità del lodo arbitrale e art. 393 c.p.c. , in Riv. arb., 1997, 323. In senso contrario, C. Consolo, osserva che la “resistenza” del lodo arbitrale all’estinzione potrebbe essere predicata solo negando che la domanda di arbitrato costituisca l’inizio del «processo» come richiamato dall’art. 393 c.p.c. (evidentemente non potendosi negare tale circostanza), in Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, Padova, 2009.
4. Conclusioni
La pronuncia resa dalla Corte suscita, insieme, approvazione e dubbi. Se nell’ottica della certezza del diritto e di una corretta e uniforme interpretazione e applicazione delle norme la soluzione resa dal giudice di legittimità merita encomio, è sul duplice piano della critica ragionata e della valutazione e valorizzazione degli interessi, giuridicamente intesi, delle parti che sorgono perplessità. In effetti, il timore, espresso a chiare lettere nel recente scritto del Professor Verde, è quello che la parte, vittoriosa nei gradi di merito, la quale si sia vista impugnare con ricorso per cassazione la decisione a sé favorevole, in caso di accoglimento del ricorso avversario, debba «lottare per fare esaminare nel merito l’impugnazione del suo avversario, onde acquistare meritevolezza quale non si ha se si dimostra disinteresse alla prosecuzione del processo»[17]. In effetti, anche nel giudizio in cui si è inserita la pronuncia in esame, la curatela del fallimento, vittoriosa nelle fasi di merito del reclamo ex art. 18 L. Fall. e del successivo reclamo exart. 26 L. Fall. avverso il decreto del giudice delegato, avrebbe dovuto riassumere il giudizio dinanzi alla Corte di appello per il riesame della dichiarazione di fallimento del ricorrente alla stregua delle doglianze mosse dalla sua controparte, onde non incorrere nella conseguenza definitiva di vedere travolta tutta la procedura fallimentare. Avrebbe dovuto, quindi, sostituirsi alla sua controparte e perseguirne l’interesse alla celebrazione del “terzo grado” di giudizio inaugurato con l’impugnazione per cassazione e non più coltivato (sperando che nel giudizio di rinvio, una volta emendato l’errore di motivazione riscontrato dal giudice di legittimità, l’esito finale rimanesse sostanzialmente inalterato), instaurando così quella fase rescissoria del giudizio di cassazione che non avrebbe avuto alcun personale e giuridico interesse ad inaugurare.
A questa considerazione, comune a tutti i giudizi di rinvio, se ne aggiunge una specifica con riferimento al procedimento di opposizione alla dichiarazione di fallimento, come delineato dall’art. 18 L. Fall. (indipendentemente dal cambio di veste assunto dalla norma con la riforma del 2006): il procedimento di reclamo, «così come non costituisce ostacolo al normale svolgimento della procedura, neppure può paralizzare le doverose iniziative recuperatorie del curatore dirette alla ricostituzione del patrimonio fallimentare di cui egli ha l’amministrazione (…) l’intero procedimento concorsuale non può arrestarsi di fronte alla proposizione della opposizione a fallimento se non si vuole correre il rischio della sostanziale pretermissione della tutela dei creditori», in un contesto, quale quello delle procedure concorsuali, in cui pare evidente che «il legislatore abbia preferito accordare tutela ai creditori piuttosto al debitore»[18]. In tale peculiare cornice, quindi, l’applicazione dell’art. 393 c.p.c. al caso di mancata riassunzione del giudizio di rinvio a seguito della cassazione della pronuncia resa in sede di opposizione exart. 18 L. Fall. parrebbe non solo configurare oneri aggiuntivi in capo alla figura del curatore ma, altresì, allontanare le dinamiche che governano questi giudizi dai principi di salvaguardia delle ragioni creditorie che, pur mutati di forma con le riforme susseguitesi nel tempo, regolano il funzionamento delle procedure concorsuali. È pur vero, comunque, che de iure condito la soluzione più equilibrata e corretta è quella fornita dal giudice di legittimità.
[17] G. Verde, cit., 930.
[18] M. Fabiani, La sorte del patrimonio del fallito in presenza di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, in Il Fall., 2004, 73 ss.
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