Forse non tutti sanno cos’è esattamente il Fiscal Compact, e sicuramente in pochissimi sanno che – a partire dal 2015 – segnerà per almeno due decenni le sorti delle famiglie italiane.
Da un punto di vista prettamente giuridico è un Trattato internazionale denominato “Patto di bilancio europeo” o “Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria”, sottoscritto da venticinque Stati membri dell’Unione Europea il 2 marzo 2012 (ad eccezione del Regno Unito e della Repubblica Ceca).
Il nostro Parlamento, con una rapidità che non viene utilizzata per le necessarie riforme istituzionali, lo ha ratificato definitivamente nel luglio del 2012 (appena quattro mesi dopo la sua sottoscrizione) ed ha inserito in Costituzione il principio del pareggio di bilancio (art. 81 Cost).
Ritengo, a mio modesto parere, che se uno Stato sovrano deve garantire il pareggio di bilancio non può in alcun modo esercitare la sua indispensabile funzione sociale e sussidiaria, propria dell’essere Stato!
A cosa serve uno Stato se non può esercitare la sua funzione naturale, che è quella di garantire – anche ad un prezzo particolarmente alto – l’eliminazione delle disuguaglianze sociali?
Ma per quale motivo questo Trattato internazionale, passato in secondo piano su tutti i media nazionali e nei più accreditati talk-show di approfondimento politico, muterà la vita dei cittadini italiani (e non solo) per i prossimi vent’anni?
Più nello specifico, il Fiscal Compact prevede principalmente queste tre misure alle quali tutti gli Stati firmatari dovranno adeguarsi:
1) significativa riduzione del rapporto fra debito pubblico e PIL al ritmo di un ventesimo all’anno (5%), fino al raggiungimento del rapporto del 60% sul PIL nell’arco di vent’anni;
2) obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio;
3) obbligo di non superamento della soglia di deficit strutturale superiore allo 0,5% del PIL (e superiore all’1% per i paesi con debito pubblico inferiore al 60% del PIL).
L’impatto di tali misure sull’economia reale del nostro Paese (ma anche su quella di Paesi come la Grecia, la Spagna, il Portogallo e in parte la Francia) sarà – ovviamente – devastante.
Prendiamo ad esempio l’Italia, la quale ha attualmente un rapporto debito pubblico/PIL del 133% ed una spesa pubblica pari a circa 800 miliardi di Euro.
Ridurre il rapporto del nostro debito pubblico/PIL dall’attuale 133% al 60 % in vent’anni, significa porre in essere una riduzione della spesa pubblica di circa 40-50 miliardi l’anno, quindi (come anche il lettore meno accorto potrà rendersi conto) i vari Governi che si succederanno dovranno necessariamente effettuare sistematici tagli alla spesa pubblica che non ha precedenti nella Storia. E’ pur vero che, nell’effettuare questi tagli, si dovrà tener conto del PIL e quindi del tasso di crescita, ma solo uno sprovveduto può pensare che con l’attuale sistema monetario e per come è stata sinora concepita l’Unione Europea ci potrà essere una crescita tale da rendere indolore – o quanto meno sopportabile da un punto di vista sociale – tutti i tagli che si andranno a fare.
Al fine di rendere maggiormente comprensibile la reale portata del problema, si pensi al mancato reperimento – da parte del Governo Letta – di appena 4 miliardi di euro che sarebbero dovuti servire ad evitare (nell’ottobre del 2013) l’aumento dell’I.V.A. di un punto percentuale, e che l’esecutivo non è riuscito a trovare (tant’è che l’I.V.A. è aumentata dal 21% al 22%).
Ma se i Governi della Repubblica non sono in grado di reperire 4 miliardi di euro da una spesa pubblica di circa 800, come faranno a tagliare 40-50 miliardi di euro l’anno (o poco meno, a seconda del tasso di crescita economica) per vent’anni sino al raggiungimento del 60% del rapporto debito pubblico/PIL? Le risposte sono, oltre che sorprendentemente semplici, anche particolarmente preoccupanti:
a) aumentando le tasse e/o inasprendo maggiormente i sistemi di accertamento fiscale;
b) limitando ulteriormente la circolazione del denaro contante e introducendo un meccanismo forzoso di utilizzo della moneta elettronica;
c) bloccando o limitando fortemente le assunzioni di pubblici dipendenti, con conseguenze drammatiche sia sull’efficienza della Pubblica Amministrazione che sul necessario turnover occupazionale e generazionale;
d) eliminando o riducendo i benefici fiscali a vantaggio di aziende, giovani artigiani e professionisti;
e) intensificando gli accertamenti fiscali – attraverso l’Agenzia delle Entrate – nei confronti delle piccole imprese, dei piccoli commercianti e dei professionisti;
f) riducendo la spesa per gli ammortizzatori sociali e tagliando le pensioni;
g) aumentando l’età pensionabile già oggi particolarmente alta, con la conseguenza che le nuove generazioni resteranno per più tempo fuori dal mercato del lavoro (con l’ulteriore effetto che intere generazioni avranno serie difficoltà – un domani – a percepire una pensione dignitosa);
h) tagliando le voci di spesa pubblica più sensibili quali la sanità, la sicurezza pubblica, la giustizia, la scuola e la cultura, con conseguenze negative di facile intuizione.
Ciò premesso, mi auguro che – per evitare che i Governi nazionali adottino le soluzioni e gli strumenti come sopra brevemente elencati -, l’Europa muti radicalmente rotta per il bene comune di circa quattrocento milioni di persone.
Articolo a cura
dell’Avv. Giuseppe Palma
del foro di Brindisi
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