L’analisi del rapporto tra fondo patrimoniale e tutela del credito costituisce un tema classico del diritto civile e, precisamente, del diritto di famiglia, da cui sorge l’importante ma al contempo travagliato quesito di quale interesse debba prevalere, tra quello della famiglia e quello dei creditori, nel caso di conflitto.
Occorre, cioè, verificare se l’attuale sistema legislativo, coadiuvato dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, nonché dalla dottrina più autorevole, operi un corretto ed equilibrato bilanciamento dei cennati interessi o, contrariamente, tenda a privilegiare l’uno a scapito dell’altro.
Precipuamente, la questione involge la legittimazione o meno dei creditori – ai sensi del generale principio della responsabilità patrimoniale del debitore ex art. 2740 c.c. – ad aggredire i beni che i coniugi, mediante atto pubblico, o un terzo, mediante anche disposizione testamentaria, abbiano destinato ad un fondo patrimoniale, stante l’inviolabile vincolo di destinazione a cui essi sono in tal caso sottoposti, ossia la finalità di soddisfare i bisogni presenti e futuri della famiglia.
L’indagine interpretativa ricade, non a caso, sul disposto di cui all’art. 170 c.c., in quanto esso disciplina il rapporto famiglia-creditori, statuendo che l’esecuzione sui beni del fondo patrimoniale e sui frutti da essi derivanti, non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei alla famiglia. A mente di tale norma, è innegabile sostenere che l’aggredibilità dei beni conferiti appare più limitata, rendendo maggiormente incerta, se non difficile, la soddisfazione del credito, relegandola alla sola ipotesi in cui i coniugi abbiano contratto debiti derivanti da obbligazioni assunte per far fronte bisogni inerenti agli interessi del menage domestico-familiare .
Invero, un simile approccio interpretativo alla questione era prevedibile, essendo l’originaria intenzione del legislatore finalizzata a conferire all’istituto in esame la funzione di strumento di tutela dei bisogni familiari.
Tuttavia, è opinione quantomai diffusa, che la genuina volontà del legislatore, ispirata al principio solidaristico familiare, sia stata, nella prassi, decisamente tradita, poiché non è mancato un utilizzo molto spesso, se non esclusivamente, distorto e fraudolento dell’istituto, palesando finalità meramente strumentali, volte a sottrarre i beni alle ragioni dei propri creditori.
Le difficoltà si sommano ove si consideri che l’art. 170 c.c. nulla dice in merito alla definizione del concetto di “bisogni della famiglia”; elemento, questo, semplicemente richiamato, e non anche spiegato contenutisticamente. La sua analisi è, invece, del tutto indispensabile, soprattutto per individuare oltre all’ambito d’azione e di difesa dei coniugi, anche il margine di delimitazione del diritto dei creditori di veder soddisfatte le proprie ragioni.
All’uopo, sono intervenute la giurisprudenza e la dottrina che, nel fornire una definizione del concetto controverso, non hanno trascurato l’evoluzione che il ruolo della comunità familiare ha avuto nel comune sentire e che la stessa riforma ha recepito; evoluzione che porta ad individuare nella famiglia, un nucleo proteso a realizzare un sempre maggiore benessere materiale e spirituale dei propri membri.
Partendo dal suesposto concetto di famiglia, la Suprema Corte ha ritenuto che rientrino fra i bisogni familiari anche quelle esigenze volte al pieno mantenimento dell’organico sviluppo, nonché al potenziamento della sua capacità lavorativa, restando escluse solo le esigenze di natura voluttuaria caratterizzate da intenti meramente speculativi.
Appare, dunque, superato l’orientamento restrittivo che considerava i bisogni familiari un sinonimo di esigenze indispensabili della famiglia, in quanto necessarie alla sua stessa esistenza.
La dottrina ha, altresì, aggiunto che il concetto di bisogni familiari deve intendersi esteso non solo ai bisogni presenti, ma anche a quelli futuri, dando riconoscimento e meritevolezza a quegli atti di amministrazione dei beni tendenti a farli fruttificare e a farne aumentare la produttività mediante miglioramenti o trasformazioni e, inoltre, non solo ai bisogni comuni a tutti i membri del gruppo ma, in virtù della solidarietà che caratterizza la famiglia, anche alle esigenze individuali fondamentali o il cui soddisfacimento coinvolge anche un interesse del gruppo.
La massima dilatazione del concetto di bisogni della famiglia a cui si è giunti ha vistosamente ampliato, di conseguenza, il campo di operazione dei creditori che, nei tempi precedenti, era notevolmente più sacrificata.
Dato certo ed insuperabile, alla luce di tale approccio interpretativo, è sicuramente l’estraneità, dal concetto di bisogni della famiglia, dei debiti contratti nell’ambito dell’esercizio di una attività imprenditoriale o professionale per la fondamentale ragione che il reddito derivante da tali attività appartiene personalmente al coniuge professionista o imprenditore, e non v’è, dunque, l’obbligo di destinarlo interamente ai bisogni della famiglia; e anche qualora siano stati a ciò destinati, si sarebbe in presenza di un utilizzo indiretto dei beni del fondo, rivolto ad incrementare attività e a produrre redditi riguardo ai quali non vi è obbligo da parte del titolare di destinarli interamente ai bisogni della famiglia.
Non c’è dubbio, però, che l’indirizzo maggioritario, a cui si è approdati nel corso degli ultimi anni, si traduca in un concetto tanto ampio da apparire conseguentemente generico e, dunque, inevitabilmente equivoco. Tale ampiezza ha, infatti, messo in discussione la consacrata estraneità dei debiti d’impresa come ha adeguatamente motivato l’innovativa sentenza del Giudice di Legittimità.
Con tale sentenza si dilata maggiormente il significato che era stato attribuito al concetto in esame, ricomprendendovi, ora, tutte quelle esigenze il cui soddisfacimento sia funzionale alla vita della famiglia. Secondo la Suprema Corte, invero, la destinazione suddetta non può dirsi sussistente per il sol fatto che il debito sia sorto nell’esercizio dell’attività d’impresa; tuttavia , non è nemmeno a contrario idonea ad escludere che il debito possa dirsi contratto per soddisfare detti bisogni. Occorre, piuttosto un’indagine del giudice, rivolta al fatto generatore dell’obbligazione, a prescindere dalla natura di questa; potendo, in tal modo, sostenere, in un’ottica del tutto rivoluzionaria, che i coniugi che abbiano costituito un fondo patrimoniale non saranno risparmiati dagli effetti dell‘actio pauliana intentata dai creditori, quando lo scopo perseguito nell’obbligarsi, sia stato quello di soddisfare i bisogni della famiglia.
Dagli spunti di analisi sopra brevemente elaborati, può concludersi che la funzione della tutela della famiglia, propria del fondo patrimoniale, in virtù di numerosi interventi dottrinari, ma soprattutto giurisprudenziali, risulta, oggi, fortemente compromessa a vantaggio della protezione degli interessi dei creditori dei coniugi.
Ciò, soprattutto, a causa del ricorso ad un istituto che, sinora, ha avuto poca fortuna nella pratica, e che è stato troppe volte utilizzato in maniera scorretta, al principale fine di danneggiare i creditori. Proprio tale ultima circostanza costituisce il motivo principale degli orientamenti di cui si è detto, il cui fine è anche quello di arginare un uso fraudolento dell’istituto e di ripristinare la giusta dignità giuridica del diritto di credito.
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