Brevi cenni e riflessioni in merito alla figura del giudice istruttore all’interno del processo civile
Stefano Martello
Come ben conosciuto, il processo civile si articola in tre fasi: l’introduzione, l’istruzione – caratterizzata dalla trattazione e dall’istruzione in senso stretto – unitamente alla fase della decisione; la prima fase dell’introduzione si afferma come conclusa attraverso la costituzione delle parti – o almeno di una di queste – dando il via alla determinazione del rapporto giuridico tra quelli che rappresentano i tre principali protagonisti della “scena processuale”: il giudice e le parti.
Dopo tale momento, quindi praticamente dopo la prima udienza, ha inizio la fase dell’istruzione che, all’interno dell’iter processuale, accoglie tutte le attività processuali svolte sino al momento in cui iniziano gli atti finalizzati al “traghettamento” della causa verso la decisione, che giustamente viene trattata nel terzo ed ultimo gruppo.
Per comprendere appieno l’importanza della fase intermedia dell’istruzione, basti pensare che in tale sopra citata fase si realizza la prima presa di coscienza delle varie domande, unitamente alla possibilità di “arricchire” il piano d’azione già prefigurato attraverso precisazioni ed ampliamenti che servano all’acquisizione di ulteriori strumenti probatori.
A tale proposito si afferma anche la sottodivisione della fase in esame in tre sottogruppi, di cui il secondo – istruzione probatoria – consiste espressamente in una attività di acquisizione di elementi probatori; fase chiaramente eventuale, in quanto, già in sede di trattazione, la causa potrebbe risultare matura per una decisione, in quanto “permeata” di tutti quegli elementi di prova occorrenti al giudice per esprimere una serena valutazione.
Tornando alla figura del giudice istruttore, questa risulta individuata in una determinata persona fisica di magistrato, scelto dal presidente del tribunale – o della sezione – tra i diversi giudici appartenenti a quel tribunale o a quella sezione.
Storicamente tale peculiare quanto importante figura è nata sull’onda dei sentimenti di celerità del giudizio, che caratterizzarono il lavoro del legislatore del 1940; sentimenti che, finalizzati ad un dialogo pratico tra le parti ed il giudice, escludessero l’organo collegiale da una attività dispendiosa quanto poco realizzabile; risulta così chiaro al lettore l’intento di un Maestro come il Chiovenda che, attraverso un riconosciuto intuito giuridico, aveva già compreso come i principi dell’oralità, dell’immediatezza e della concentrazione, male si adeguassero ad un sistema caratterizzato da un continuo quanto snervante “rimbalzo delle funzioni” tra l’organo collegiale ed un organo – il giudice delegato – incaricato dal primo, di volta in volta, di attuarne le direttive.
Ecco che quindi il giudice dell’istruzione assume un peso rilevante e determinante, non solo nella fase dell’istruzione, bensì all’interno dell’intera fase della cognizione, come chiaramente dedotto dai disposti degli articoli 174 c.p.c. (“Il giudice designato è investito di tutta l’istruzione della causa e della relazione al collegio. Soltanto in casi di assoluto impedimento o di gravi esigenze di servizio può essere sostituito con decreto del presidente. La sostituzione può essere disposta, quando è indispensabile, anche per il compimento di singoli atti.”) e 175 c.p.c. in cui si legge come “il giudice istruttore esercita tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento. Egli fissa le udienze successive e i termini entro i quali le parti debbono compiere gli atti processuali. Quando il giudice ha omesso di provvedere a norma del comma precedente, si applica la disposizione dell’articolo 289 (integrazione dei provvedimenti istruttori)”.
Proprio il disposto dell’articolo 175 risulta lampante per affermare l’influenza del giudice istruttore in merito alla celerità del giudizio, e questo in quanto il giudice “fissa le udienze successive e i termini” entro i quali le parti hanno l’obbligo di adempiere ai vari atti processuali, dando così il “ritmo” all’iter processuale.
Oltre alla direzione del procedimento il giudice istruttore dispone anche della responsabilità di verificare la regolarità del contraddittorio (articolo 180 c.p.c.), oltre alla possibilità di integrazione del contraddittorio nei casi di litisconsorzio necessario ex articolo 102; inoltre nella prima udienza di trattazione, il giudice istruttore ha la facoltà di interrogare liberamente le parti, cercando – ove la controversia lo permetta – di conciliare le stesse.
Tale ultimo aspetto si ricollega in maniera prepotente alla volontà del legislatore del 1940 che, in un disegno globale, prospettava un piano d’azione caratterizzato da una collaborazione fattiva tra il giudice istruttore e le parti: un aspetto che, in forma ipotetica, avrebbe dovuto permeare tutta la fase dell’istruzione.
Di poi anche la considerazione – agli occhi di molti utopica e paradossale, soprattutto in un momento storico in cui la causa assume i toni di una diatriba troppo spesso finalizzata ad un “essere contro” a tutti i costi – per cui tale collaborazione porterebbe ad una effettiva funzionalità del tentativo di conciliazione che, indipendentemente dalla sua obbligatorietà sulla carta, potrebbe effettivamente svolgersi con serie prospettive di successo, eliminando così una situazione in cui tale strumento assume i toni del puro formalismo, non perseguendo il suo reale scopo che è quello di defaticare il peso giudiziario.
La conciliazione, poi – secondo le sapienti parole di Crisanto Mandrioli – rappresenta molto più di un semplice atto di transizione, assurgendo a strumento che produce anche effetti processuali, sia con riguardo alla fine del processo in corso, sia in merito al fatto che il documento certificante la conciliazione assume efficacia di titolo esecutivo (articolo 185, comma 2, c.p.c. “Quando le parti si sono conciliate, si forma processo verbale della convenzione conclusa. Il processo verbale costituisce titolo esecutivo”).
Ma la problematica che maggiormente interessa colui che scrive, si concentra essenzialmente nelle funzioni e nei poteri del giudice istruttore di fronte ai casi elencati nell’articolo 50 bis c.p.c. (Cause nelle quali il tribunale giudica in composizione collegiale); se l’ipotetica eccezione risultasse fondata, infatti, al giudice istruttore non rimarrebbe altro da fare che dichiarare la propria incompetenza, stante una situazione in cui, altrimenti, dovrebbe invece procedere nell’istruzione.
Ma tale ostacolo da chi deve essere superato?
Da un punto di vista logico e permeato di buon senso, è compito del giudice istruttore superare l’ostacolo, nell’ottica di quel potere di direzione del procedimento che l’ordinamento espressamente gli assegna; ma tale orientamento, inevitabilmente, porta alla configurazione di un potere decisorio di attribuzione tipicamente collegiale.
Da quanto sopra emerge la necessità di “evitare” tale incombenza, affidando la causa al collegio ogni qual volta venga sollevata una questione di tale tipologia; una soluzione che, altrettanto inevitabilmente, “svilisce” l’attività del giudice istruttore, rendendolo un “dotto passacarte” senza nessuna autonomia, ma bensì legato da invisibili catene al “padrone” collegio.
Il dilemma, però rimane sempre lo stesso e si concretizza nella difficile scelta di quale organo “sacrificare”: il collegio – privato di gran parte dei suoi poteri decisori – o il giudice istruttore, reso così puro strumento di trasmissione dall’utilità – in tempi di teorie dello sfruttamento ottimale delle risorse – alquanto dubbia?
Come sempre, l’utilizzazione del bianco o del nero – intesa come scelta radicale – appare inopportuna, privilegiando così un più tenue grigio che, nella pratica, si trasforma in una ricerca di un punto di contatto tra le due esigenze sopra esposte.
Per individuare tale soluzione, d’altronde, basta volgere lo sguardo al passato, scoprendo come il giudice istruttore sia nato soprattutto al fine di creare un piano d’azione in cui la decisione e l’istruzione fossero affidate a due organi diversi, senza però compromettere quelle esigenze di interdipendenza tra le due funzioni che richiederebbero l’immedesimazione delle due funzioni.
Risulta chiaro, quindi, come il problema in esame rappresenti una limpida ingerenza di un organo (non interessa sapere quale) nei confronti dell’altro; un ingerenza risolta nella pratica attraverso l’affidamento al giudice istruttore di un potere di valutazione della questione pregiudiziale.
Tale potere non può e non deve essere visto come un potere decisorio, stante anche il carattere di “valutazione preventiva e provvisoria” idoneo a stabilire se proseguire o meno nella fase dell’istruzione, senza nessuna pretesa decisoria, che rimarrà quindi nelle competenze del collegio.
L’unico rischio che potrebbe rappresentare una distorsione del sistema, è da ravvisare nella possibilità della non condivisione – da parte del collegio – della valutazione operata dal giudice istruttore; ma, a ben vedere, tale rischio appare agli occhi di colui che scrive come accettabile, in quanto la problematica si sarebbe inevitabilmente presentata anche nell’ipotesi sopra esclusa di accettazione delle teorie più “estreme” (tutti i poteri al collegio, nessun potere al giudice istruttore/ tutti i poteri al giudice istruttore, con diminuzione dei poteri collegiali)
Attraverso l’orientamento “mite, il sacrificio – dilemma sopra preannunciato perde di significato, donando nuovamente dignità al giudice istruttore, senza peraltro sminuire l’attività intellettuale e giuridica del collegio.
E senza “sprecare” così lo splendido intuito giuridico del Chiovenda!
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