Il giudice tributario deve valutare le dichiarazioni di terzi

Con un’importante sentenza, n. 18065 del 14 settembre 2016, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla rilevanza delle dichiarazioni di terzi nel processo tributario e, in particolar modo, sulla necessità che il giudice valuti tali dichiarazioni quali elementi di prova nell’ambito del giudizio.

Nello specifico, la vicenda ha ad oggetto l’impugnazione da parte di un contribuente, nella qualità di socio di varie società, di un avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate rideterminava il reddito sulla base dei movimenti di conto corrente e di quelli relativi a numerosi libretti di deposito a risparmio, presumendo ex art. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973 che quei versamenti rappresentassero redditi sottratti alla imposizione.

Come noto, l’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973, rubricato “Poteri degli uffici”, consente all’Agenzia delle Entrate di potersi avvalere di una serie di procedure, inviti e richieste nei confronti del contribuente, tra cui anche la possibilità di procedere ad indagini finanziarie e di presumere, laddove il contribuente non fornisca la prova contraria, che i versamenti effettuati costituiscono ricavi in nero.

Nonostante le eccezioni del contribuente, l’avviso di accertamento impugnato veniva considerato legittimo sia dai giudici di primo che di secondo grado che ritenevano che l’Ufficio avesse fatto corretta applicazione della presunzione ex art. 32 cit., anche in tale ipotesi in cui la vicenda atteneva a redditi di persona fisica priva di contabilità.

Avverso la decisione di secondo grado ha, quindi, proposto ricorso il contribuente formulando vari ed articolati motivi di censura.

Innanzitutto, il ricorrente ha denunciato la violazione dell’art. 32, comma 1, del D.P.R. n. 600/1973, ritenendo che l’Agenzia delle Entrate potesse avvalersi delle modalità previste dal citato articolo solo nei confronti di soggetti che abbiano una contabilità formale e non nei confronti di persone fisiche che invece ne siano prive, tanto in virtù anche della difficoltà per il contribuente che non ha una propria contabilità scritta di poter assolvere all’onere della prova contraria.

È stata denunciata, altresì, la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 in quanto per il contribuente l’Agenzia delle Entrate aveva l’obbligo di specificare le fonti di produzione dei redditi non dichiarati e dunque di specificare quale tra le fonti di cui al D.P.R. n. 917 del 1986 sia stata produttiva del reddito imputato al contribuente.

Inoltre, è stata denunciata la violazione dell’art. 112 c.p.c. unitamente alla violazione dell’art. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973 in quanto la sentenza impugnata, secondo il contribuente, non avrebbe tenuto conto dell’eccezione fatta sin dall’inizio del giudizio secondo cui un determinato conto corrente era cointestato alla moglie, con la conseguenza che, in ipotesi, solo la metà dei versamenti su detto conto operati poteva essere imputata come reddito occulto a lui.

Infine, con ulteriore motivo, il contribuente ha eccepito che la CTR aveva erroneamente interpretato l’art. 7 del D. Lgs. n. 546/1992 nonché l’art. 2697 c.c., ritenendo che la decisione di appello avrebbe errato nel ritenere non valutabile le dichiarazioni scritte contenenti attestazioni di terzi soggetti circa la provenienza delle somme versate, con l’argomento che nel processo tributario non sono ammesse le prove testimoniali e senza tener conto che non si trattava di prove di quel tipo.

Orbene, i giudici di legittimità hanno ritenuto infondati i vari motivi di censura così come proposti ad eccezione dell’ultimo.

Per quanto attiene al fatto che l’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 faccia riferimento alle “scritture contabili”, i giudici di legittimità hanno precisato che ciò non significa che l’utilizzo dei dati di conto corrente è limitato ai soli imprenditori o ai lavoratori autonomi, escludendo le persone fisiche che non tengono scritture contabili: al contrario, ciò significa solo che i “prelevamenti” non possono essere utilizzati come presunzione di reddito per le persone fisiche, essendo la spesa non indicativa, per tali ultimi soggetti, di un reddito corrispondente diversamente che per gli imprenditori; a differenza che dei “versamenti” che invece sono indicativi di reddito per entrambi.

In relazione, poi, all’eccezione relativa all’obbligo per l’Agenzia delle Entrate di individuare (e, quindi, di provare) la produzione del reddito, e di conseguenza, di specificare quale delle fattispecie indicate nel D.P.R. n. 917 del 1986 sia produttiva di quest’ultimo, la Corte ha precisato che non sussiste alcun obbligo e che, peraltro, compete al contribuente l’onere di provare la natura non reddituale delle somme contestate.

Viceversa, la Suprema Corte ha accolto la censura relativa alla violazione e falsa applicazione dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/92 e dell’art. 2697, enunciando il seguente principio: <<Il potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, con il valore proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione, va riconosciuto non soltanto all’Amministrazione finanziaria, ma anche al contribuente, con il medesimo valore probatorio, dandosi così concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’art. 111 Cost. per garantire il principio della parità delle armi processuali nonché l’effettività del diritto di difesa (Cass. n. 5018 del 2015; Cass. 14 maggio 2010, n. 11785; conformi Cass. 20028/11 e 8987/13).

Alla luce di tanto, la Corte di Cassazione ha rinviato gli atti alla CTR di Bologna in altra composizione a cui spetterà tenere in debita considerazione le dichiarazioni della moglie del contribuente depositate in giudizio.

Sentenza collegata

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Avv. Villani Maurizio

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