SOMMARIO: 1. IL CONTRASTO GIURISPRUDENZIALE SULL’OBBLIGATORIETA’ DEL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE A SEGUITO DI CONDANNA PENALE IRREVOCABILE.- 2. LA SOLUZIONE DELL’ADUNANZA PLENARIA DEL CONSIGLIO DI STATO NR. 2 DEL 2002..- 3. LA RETROATTIVITA’ DEL PROVVEDIMENTO DISCIPLINARE ESPULSIVO. IL GIUDIZIO DISCIPLINARE NEI CONFRONTI DEL PUBBLICO DIPENDENTE CESSATO DAL SERVIZIO ANTERIORMENTE AL GIUDICATO PENALE.- 4. I RIFLESSI SUL TRATTAMENTO DI QUIESCENZA DEL PROVVEDIMENTO ESPULSIVO A CARICO DELL’IMPIEGATO GIA’ SOSPESO CAUTELARMENTE.
1. IL CONTRASTO GIURISPRUDENZIALE SULL’OBBLIGATORIETA’ DEL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE A SEGUITO DI CONDANNA PENALE IRREVOCABILE..
La disciplina degli effetti della sospensione cautelare dal servizio a seguito di condanna penale passata in giudicato è tuttora riconducibile, per i dipendenti del Comparto Ministeri, al D.P.R. 10 gennaio 1957 nr. 3, recante il Testo Unico per gli impiegati civili dello Stato, poiché il panorama normativo non sembra sostanzialmente innovato dalla sopravvenuta contrattualizzazione del pubblico impiego, potendosi ravvisare un parallelismo tra le due discipline (
[1]).
Per quanto riguarda gli appartenenti all’Amministrazione della Pubblica Sicurezza, le disposizioni del D.P.R. 10 gennaio 1957 nr. 3 risultano applicabili in base all’espresso rinvio contenuto nell’art. 10 del D.P.R. 25 ottobre 1981, nr. 737.
In particolare, la materia è regolata dagli artt. 91-92 e 96-97 del D.P.R. 10 Gennaio 1957 nr. 3.
L’art. 91 D.P.R. 3/1957 regola la sospensione dal servizio obbligatoria in caso che il pubblico impiegato sia colpito da misura cautelare restrittiva della libertà personale; se quest’ultima sia cessata o non sia stata affatto applicata, soccorre la sospensione cautelare facoltativa , ove la “la natura del reato sia particolarmente grave”.
Si tratta delle ipotesi disciplinate, in modo analogo, per gli appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione della Pubblica sicurezza, dall’art. 9 D.P.R. 737/1981.
La fattispecie prevista dall’art. 92 D.P.R. 3/1957 è quella della sospensione cautelare facoltativa, disposta, per gravi motivi, indipendentemente dalla pendenza del procedimento penale, quindi nella prospettiva di un procedimento disciplinare.
L’art. 96 T.U.I.C.S. prevede che la sospensione sanzionatoria disposta a seguito del procedimento disciplinare sia dedotta dalla sospensione cautelare sofferta in precedenza dal dipendente; in tal caso deve aver luogo la restitutio in integrum del dipendente per il periodo di sospensione cautelare eccedente o per intero, se il dipendente sia stato prosciolto in sede disciplinare o gli sia stata irrogata una sanzione meno grave della sospensione.
Nell’art. 97 T.U.I.C.S. troviamo la disciplina della sospensione cautelare disposta per effetto del procedimento penale, con esclusivo riferimento ad ipotesi di assoluzione. In particolare, nel caso di assoluzione con formula piena, l’impiegato ha diritto alla revoca della sospensione e alla corresponsione degli assegni non percepiti, salvo i limiti previsti nella disposizione.
Rimane priva di espressa disciplina l’ipotesi, cui si rivolge particolarmente la nostra attenzione, della condanna penale nei confronti dell’impiegato in precedenza sottoposto a sospensione cautelare dal servizio.
Pertanto, è stata notevolmente dibattuta in giurisprudenza la questione dell’obbligatorietà o meno del procedimento disciplinare per regolare gli effetti della sospensione cautelare dal servizio in caso di condanna penale definitiva, in merito alla quale si sono contrapposti tre orientamenti giurisprudenziali difformi.
Secondo la prima opzione interpretativa, sono irrilevanti sia la pendenza del procedimento che il suo esito e la mancanza della definizione della posizione del dipendente sospeso cautelarmente in sede disciplinare determina caducazione della sospensione e restitutio in integrum del dipendente.
Tale indirizzo giurisprudenziale parte dal presupposto della sostanziale identità della natura dei provvedimenti di sospensione ex artt. 91 e 92 T.U.I.C.S., con conseguente applicabilità del successivo art. 96 T.U.I.C.S ad entrambe le fattispecie.
Per il secondo orientamento, sono invece rilevanti sia la sanzione disciplinare che la sentenza di condanna.
Nel dettaglio, è stato ravvisato che dalla sospensione condizionale della pena inflitta in sede penale non può conseguire un ulteriore beneficio al dipendente già sospeso cautelarmente, in termini di reintegrazione per il periodo di tempo relativo alla condanna non effettivamente scontata (
[2] ).
Inoltre, si è sostenuto che in caso di estinzione del procedimento disciplinare intrapreso, il dipendente sospeso cautelarmente ha diritto alla reintegrazione, salvo che per il periodo corrispondente alla pena .
Anche tale orientamento parte dal presupposto dell’unitarietà di fondo delle fattispecie provvedimentali di cui agli artt. 91 e 92 T.U.I.C.S., con parziale rilevanza della sentenza penale nel caso di mancata attivazione del procedimento disciplinare, poichè “in tal caso, infatti, il periodo detentivo comminato dal giudice penale costituisce ostacolo per una piena reintegrazione anche se non concretamente scontato, essendo evidente che il giudizio di qualificazione della sospensione e di imputabilità di dipendente della rottura del rapporto sinallagmatico tra le rispettive prestazioni per la parte di tempo coperta dalla condanna è stato fatto dal giudice penale e non può essere sostituito da un apprezzamento dell’amministrazione” (
[3]).
Il terzo orientamento individuato ritiene che la sospensione cautelare mantenga i suoi effetti anche quando la P.A. non attivi il procedimento disciplinare e se vi sia stata una condanna penale.
Per tale opzione interpretativa, vi è sostanziale diversità tra la fattispecie di cui agli artt. 91-97, che regolano la sospensione cautelare connessa a procedimento penale, e quella disciplinata dagli artt. 92-96 T.U.I.C.S., costituenti due sotto-sistemi normativi autonomi e non interferenti.
La prima fattispecie differisce dalla seconda perché la sospensione non si connette allo svolgimento del procedimento disciplinare, ma “si correla, in via diretta ed immediata, alla pendenza di un’accusa penale nei confronti del pubblico dipendente”(
[4]).
Essendovi collegamento funzionale tra sospensione cautelare e procedimento penale, la prima “non può che essere convalidata allorché la fondatezza dei quella stessa accusa risulti confermata dal giudicato penale di condanna”(
[5])
Inoltre, l’opzione interpretativa in questione prende anche in considerazione le motivazioni che avrebbero indotto il legislatore a disciplinare espressamente l’ipotesi della
restitutio in integrum a seguito di sentenza passata in giudicato pienamente assolutoria, consistenti nel carattere spiccatamente derogatorio rispetto al principio, di derivazione civilistica, della necessaria corrispettività tra prestazione retributiva a carico dell’amministrazione e quella avente ad oggetto l’attività lavorativa del dipendente(
[6]) .
In sostanza, la legge avrebbe introdotto un’espressa deroga al principio di sinallagmaticità, per consentire la piena reintegrazione del dipendente sospeso cautelarmente per accuse poi rivelatesi infondate in sede penale.
Nella stessa prospettiva, si ritiene che il legislatore non abbia considerato espressamente l’ipotesi della sentenza di condanna, da ritenersi implicitamente disciplinata dal generale principio della sinallagmaticità delle prestazioni nell’ambito del rapporto di impiego, che si riespande al di fuori dell’eccezionale ipotesi di cui all’at. 97 T.U.I.C.S. senza che vi sia bisogno di particolare previsione.
Argomenti a sostegno di tali argomentazioni sono rinvenuti nell’ascrivibilità all’impiegato della sospensione cautelare sofferta nel caso di condanna penale, che determina la giustificata interruzione del sinallagma tra prestazione lavorativa e quella retributiva e, pertanto, l’insussistenza del diritto alla ricostruzione della posizione del funzionario, oltre che nelle novità introdotte dalla l. 27 marzo 2001, nr. 97; in particolare, l’art. 1 di tale articolato normativo introduce il comma 1-bis dell’art. 653 c.p.p., che così dispone : “la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso”.
Tale disposizione sarebbe “idonea a costituire il titolo giuridico cui agganciare il giudizio di addebitabilità all’impiegato del mancato funzionamento del rapporto sinallagmatico” (
[7]).
2. LA SOLUZIONE DELL’ADUNANZA PLENARIA DEL CONSIGLIO DI STATO NR. 2 DEL 2002.
Considerato il contrasto di giurisprudenza sull’argomento, la VI Sezione del Consiglio di Stato (
[8]) ha rimesso la questione all’esame dell’Adunanza plenaria del massimo organo di giustizia amministrativa, che ha risolto la controversia di cui trattasi con la decisione del 28 febbraio 2002, nr. 2.
L’Alto consesso giurisdizionale ha reputato che “il carattere cautelare dà al provvedimento che dispone la sospensione un’impronta di provvisorietà, che esige, di regola, un riesame, più approfondito e definitivo, allorché abbia a verificarsi l’evento, al quale la temporaneità della misura è esplicitamente e logicamente preordinata”.
Prosegue la citata decisione affermando che ”l’apprezzamento discrezionale, rimesso alla P.A., esige una nuova ponderazione, in ordine al fatto originariamente preso in considerazione, secondo una cognizione incompleta, dato che la cura del pubblico interesse da perseguire le è, di norma, riservato e non è affidato ad altri organi pubblici – salvo casi particolari, espressamente previsti, come effetto di determinate condanne penali. A questo interesse si accompagna – dopo una pronunzia penale che non sia di assoluzione (art. 530 c.p.p.) perché il fatto non sussiste o perché l’impiegato non lo ha commesso, e perciò anche dopo qualsiasi sentenza di condanna – quello correlativo ai doveri osservati o meno dall’impiegato, in ufficio o al di fuori, e quello connesso con le esigenze della stessa amministrazione di affidare determinati compiti al dipendente, anche con riguardo alle funzioni assegnate o assegnabili.
Queste prime osservazioni fanno emergere la considerazione che sarebbe trascurato o impedito l’apprezzamento di ogni ulteriore interesse pubblico, se, per effetto di una sentenza di condanna, intervenisse un’automatica conversione della misura cautelare di carattere affittivo, senza una rivalutazione del fatto, definitivamente accertato, del tipo di reato e della conseguente pena inflitta, e cioè senza una rivalutazione di un insieme di variabili ad ampio spettro, pur nell’ambito di una responsabilità irretrattabilmente riconosciuta in sede penale.
E’ proprio la natura del provvedimento di sospensione che non sembra ammettere la sua “stabilizzazione”, senza ulteriori apprezzamenti della P.A.”.
Si tratta del passaggio più importante della decisione, perché statuisce che la P.A. è l’unico organo deputato a stabilizzare gli effetti di una misura cautelare disciplinare a carico del pubblico impiegato, confermando che nella materia esiste una sorta di “riserva di amministrazione” (
[9]) intangibile dagli altri poteri dello Stato. Non si deve, altresì, trascurare che il pubblico impiegato è legato alla P.A. da un rapporto di “supremazia speciale” (
[10]), le cui violazioni devono essere regolate, di massima, nell’ambito del particolare ordinamento in cui si sono verificate.
Solo alla P.A. , quindi, spetta valutare se il pubblico impiegato possa o meno esercitare quelle delicate funzioni che gli sono attribuite, alla luce dei fatti addebitatigli in sede di procedimento penale e oggetto di pronuncia giurisdizionale.
Un’automatica trasposizione nel rapporto d’impiego del giudicato penale mal si concilia con la devoluzione alla P.A. di valutazioni estremamente complesse del pubblico interesse, che, prima di tutto, devono svolgersi secondo i fondamentali parametri dell’imparzialità e del buon andamento, fissati dall’art. 97 Cost..
La citata decisione dell’Adunanza plenaria del Consiglio è perfettamente aderente all’orientamento interpretativo adotta dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza nr. 971 del 14 ottobre 1988, che dichiarò l’incostituzionalità di alcune fattispecie di destituzione automatica dal servizio in quanto “l’indispensabile gradualità sanzionatoria, ivi compresa la misura massima destitutoria, importa – adunque – che le valutazioni relative siano ricondotte, ognora, alla naturale sede di valutazione: il procedimento disciplinare, in difetto di che ogni relativa norma risulta incoerente, per il suo automatismo, e conseguentemente irrazionale ex art. 3. Cost.”.
In questo contesto, l’art. 653 c.p.p., c. 1 bis, così come novellato dalla l. 97/2001, richiamato nella decisione nr. 2568/2001 della VI Sezione del Consiglio di Stato, può essere considerato non come sintomo dell’automatica trasponibilità in sede disciplinare del giudicato penale, ma, al contrario, come conferma dell’eccezionalità delle disposizioni ivi riportate, senza le quali non sarebbe stato possibile riportare vincolativamente nel procedimento disciplinare le risultanze del procedimento penale.
D’altro canto, anche se il giudicato condiziona la valutazione del fatto in sede disciplinare, rimane ferma la potestà dell’amministrazione in tema di irrogazione della sanzione disciplinare, che dovrà tener conto, oltre che dei suindicati parametri ex art. 97 Cost., anche del principio di proporzionalità della sanzione; non potrà mancare, tra l’altro, anche la considerazione dei precedenti di servizio e disciplinari dell’impiegato, nonché di altre circostanze soggettive, per verificare se il fatto commesso è sintomatico di un’inclinazione alla devianza dagli obblighi di servizio o sia puramente episodico, valutazione che non potrà non influire sull’entità della sanzione (cfr. art. 13 D.P.R. 737/1981).
Si rileva, a tal proposito, che le valutazioni della P.A. in tema di irrogazione della sanzione sono insindacabili persino da parte dal giudice ammininistrativo, se non per manifesta sproporzione, anomalia o eccessiva severità (
[11] ), dal che si desumono ulteriori argomenti in favore della tesi della tendenziale autonomia del giudizio disciplinare rispetto alle deliberazioni giurisdizionali, anche penali.
Diverso è il caso di altra previsione riportata nell’art. 5 l. 97/2001, che stabilisce automatiche sanzioni risolutive del rapporto d’impiego a fronte di ben individuati reati contro la pubblica amministrazione accertati con sentenza definitiva che, tra l’altro, abbia irrogato sanzioni penali di rilevante entità.
Tale disposizione conferma, ove mai fosse stato necessario, l’eccezionalità dell’automatica trasposizione in sede disciplinare del giudicato penale.
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato sottolinea, inoltre, che “a garanzia dell’incolpato o del condannato, l’interesse pubblico ad adottare misure correlative alla violazione dei doveri dell’impiegato trova puntuali limitazioni. Sono stabiliti termini per l’inizio del procedimento disciplinare – v. anche l’art. 9, comma 2, l. 7 febbraio 1990, n. 19,- nei confronti di chi sia colpito da sentenza irrevocabile di condanna, non che per la sua sollecita conclusione.. L’inerzia, cioè l’inosservanza di regole sull’azione amministrativa, non sembra poter far ricadere sul dipendente, soggetto alla potestà disciplinare, una conseguenza talora più negativa di quella che avrebbe potuto subire, se l’amministrazione avesse fatto un uso diligente di questo suo potere”(
[12]).
D’altronde, è stato considerato che le determinazioni in materia di sospensione cautelare “vengono unilateralmente adottate dall’Amministrazione in via autoritativa e ciò comporta che la interruzione della prestazione lavorativa da parte dell’impiegato sospeso dal servizio non potrebbe in qualche modo ricollegarsi ad una significativa manifestazione di volontà del medesimo al quale, pertanto, pertanto, non potrebbero ragionevolmente addebitarsi le relative conseguenze una volta che esse, ad un esame più approfondito della vicenda, effettuato a posteriori in sede di procedimento disciplinare, risultino in definitiva incongrue rispetto alla effettiva portata delle mancanze di cui si sia reso colpevole il soggetto interessato”(
[13]).
Tali argomentazioni, ovviamente, risultano ancora più fondate ove si discorra di sospensione cautelare facoltativa, provvedimento che determina nella stragrande maggioranza dei casi il periodo più lungo di forzata assenza dal servizio dell’impiegato, “in cui le valutazioni discrezionali operate dall’Amministrazione , una volta che si rivelino errate, non potrebbero essere adottate come causa giustificativa degli effetti lesivi prodotti a danno del destinatario, non essendo direttamente addebitabile a quest’ultimo il mancato adempimento della prestazione lavorativa dovuta in base al rapporto d’impiego (cfr. art. 1218 c.c.)”(
[14]).
In applicazione dei principi sopra riportati, “in caso di omissione del procedimento disciplinare, la condanna penale, intervenuta nei confronti dell’impiegato, non è suscettibile di tenere ferma la sospensione cautelare dal servizio, disposta in corso di procedimento penale e stabilita dall’amministrazione in via discrezionale, non potendosi ammettere una conversione della misura in una sanzione di identico contenuto. La sospensione deve intendersi caducata, alla pari di quella in cui sia seguito un procedimento disciplinare estinto. Per effetto di ciò la posizione dell’impiegato deve essere reintegrata, essendo venuto a mancare il titolo che giustificava la quiescenza del rapporto. Si tratta, in sostanza, dell’applicazione dei principi desumibili dagli artt. 96 e 97 del t.u. 10 gennaio 1957, nr. 3, con riferimento ad ipotesi di venir meno della sospensione per altri motivi”.(
[15])
Quindi, non è sufficiente la condanna penale per la stabilizzazione degli effetti della sospensione cautelare, poiché è necessaria anche l’attivazione di un procedimento disciplinare al cui esito venga irrogata una sanzione disciplinare; senza quest’ultima condizione, la sospensione cautelare decade ed è necessario procedere alla restitutio in integrum nei confronti del dipendente a suo tempo sospeso.
L’onere (rectius, l’obbligo) dell’esercizio della potestà disciplinare ricade, pertanto, completamente sull’Amministrazione.
Vi è da aggiungere che la
restitutio in integrum del dipendente è peraltro limitata dalla condanna alla pena detentiva inflitta, ancorché non scontata per sospensione condizionale della pena, in quanto è da escludersi che “la sospensione della sentenza di condanna a pena detentiva valga a giustificare anche il ripristino del sinallagma e la riconduzione del corrispondente periodo di durata della sospensione cautelare nel servizio utile a tutti gli effetti”(
[16]).
Anche la recente giurisprudenza dimostra di seguire le linee guida stabilite dalla riportata decisione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (
[17]).
La recente contrattazione collettiva (art. 15, c. 9, CCNL Comparto Ministeri 2002-2005) sembra recepire tali indicazioni giurisprudenziali, poiché prevede una disciplina simile a quella dell’art. 96 D.P.R. 3/1957 nel caso del dipendente colpito da pregressa sospensione cautelare, condannato in sede penale e successivamente attinto da sanzione disciplinare non espulsiva, con ciò avvalorando la tesi della sostanziale unitarietà dei due sottosistemi normativi individuati in tema di sospensione cautelare dall’impiego; rimane, tuttavia, priva di espressa disciplina la fattispecie della condanna penale non seguita da riattivazione del procedimento disciplinare, alla quale dovranno pertanto applicarsi i canoni stabiliti dalla giurisprudenza.
3. LA RETROATTIVITA’ DEL PROVVEDIMENTO DISCIPLINARE ESPULSIVO. IL GIUDIZIO DISCIPLINARE NEI CONFRONTI DEL PUBBLICO DIPENDENTE CESSATO DAL SERVIZIO ANTERIORMENTE AL GIUDICATO PENALE.
Deve essere oggetto di particolare attenzione anche la definizione del termine iniziale di efficacia del provvedimento disciplinare della destituzione del pubblico impiego nei confronti del pubblico dipendente a suo tempo colpito da misura sospensiva cautelare.
In materia, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, la sanzione disciplinare espulsiva retroagisce al momento dell’adozione della sospensione cautelare (
[18]).
La ragione principale dell’effetto retroattivo, consiste nella particolare natura della sospensione cautelare, “i cui effetti provvisori e interinali sono destinati a venir rimossi dal provvedimento definitivo”(
[19]).
Ne deriva che, poiché la sospensione cautelare non può stabilizzarsi senza un titolo giuridico definitivo, viene inevitabilmente rimossa da quest’ultimo; l’effetto può essere di rimozione pura e semplice, in caso di inerzia nell’esercizio della potestà disciplinare protratta oltre i termini, di annullamento degli atti procedurali senza possibilità di rinnovazione o di provvedimento disciplinare meno grave della sospensione, oppure di rimozione con susseguente sostituzione, anche parziale, ove intervenga un provvedimento disciplinare espulsivo o sospensivo.
Tale effetto sostitutivo deve necessariamente concretizzarsi in modo retroattivo, a far data dal termine iniziale della sospensione cautelare.
Si ritiene che in favore della retroattività del provvedimento espulsivo militino anche comprensibili esigenze di salvaguardia della finanza pubblica, su cui gravano gli oneri delle costose
restitutio in integrum (
[20]), che determinerebbero, nella fattispecie, erogazioni di competenze non giustificate dal nesso di sinallagmaticità con la prestazione lavorativa o dall’insussistenza degli addebiti a carico del sospeso..
E’ da tener presente, inoltre, che alcune decisioni giurisprudenziali fanno riferimento alla legittimità del provvedimento che fa retroagire la destituzione al momento dell’inizio della sospensione cautelare (
[21]) e altre, invece, sembrano ritenere obbligatorio tale effetto retroattivo (
[22]), anche per quanto riguarda il trattamento di quiescenza.
In realtà, non pare che la P.A. abbia potestà discrezionale in materia, perché, una volta disposta la destituzione dell’impiegato, l’effetto retroattivo è vincolato (
[23]), anche per la necessaria parità di trattamento tra situazioni personali non dissimili.
Non rimane esente dalle negative conseguenze della sanzione espulsiva, in termini di mancata reintegrazione patrimoniale e di irrilevanza nel conteggio a fini di quiescenza e previdenza del periodo di sospensione cautelare pre-sofferto, anche il dipendente cessato dal servizio antecedentemente al giudicato penale, poiché la prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato “ammette l’esperibilità del procedimento disciplinare nei confronti di un dipendente cessato dal servizio nelle ipotesi in cui sussista in concreto un interesse giuridicamente qualificato, dell’impiegato o della stessa amministrazione, a una valutazione sotto il profilo disciplinare del comportamento tenuto in servizio dal dipendente”(
[24]).
E’ del tutto ovvio l’interesse della P.A. ad esercitare il potere-dovere di definire la sorte, sotto il profilo della reintegrazione patrimoniale, del periodo di sospensione cautelare sofferto dal dipendente, mediante l’esercizio dell’azione disciplinare, senza la quale, in considerazione del consolidato quadro giurisprudenziale sopra riportato, non è possibile stabilizzare gli effetti della misura cautelare.
L’esercizio della potestà disciplinare da parte dell’Amministrazione è sorretto, pertanto, oltre che dall’interesse primario costituito dall’applicazione dei principi del buon andamento e dell’imparzialità, anche da un interesse secondario, riconducibile alla tutela delle risorse finanziarie statali, addirittura prevalente nella specifica fattispecie ora in esame
Di più difficile configurabilità appare l’interesse del dipendente a dimostrare in sede disciplinare l’insussistenza degli addebiti a suo carico e, quindi, ad ottenere la reintegrazione patrimoniale, poiché il più volte citato orientamento giurisprudenziale ritiene decaduti gli effetti della sospensione cautelare non seguita da giudizio e provvedimento disciplinare, pur in presenza di condanna penale.
4. I RIFLESSI SUL TRATTAMENTO DI QUIESCENZA DEL PROVVEDIMENTO ESPULSIVO A CARICO DELL’IMPIEGATO GIA’ SOSPESO CAUTELARMENTE.
Vanno ora approfonditi gli effetti sul trattamento di quiescenza del provvedimento di destituzione a carico dell’impiegato sottoposto a sospensione cautelare, condannato in sede penale e successivamente attinto da provvedimento espulsivo.
Giova premettere che non pare applicabile alla fattispecie in questione l’art. 83 del D.P.R. 10 gennaio 1957, nr. 3, che prevede la deduzione dal computo dell’anzianità della sospensione dalla qualifica con privazione dello stipendio, poiché tale disposizione si riferisce alla sanzione disciplinare della sospensione dalla qualifica e non alla misura cautelare.
Né risulta applicabile, per i medesimi motivi, l’art. 8 del D.P.R. 29 dicembre 1973, nr 1092, che prevede la sottrazione dalla valutazione a fini pensionistici dei periodi di “sospensione dalla qualifica o in posizione corrispondente che comporti la privazione dello stipendio o della paga”.
Sembrerebbe, invece, applicabile l’art. 42, c. 2, del D.P.R. 29 dicembre 1973, nr. 1092, che cosìdispone: “Nei casi di dimissioni, di decadenza, di destituzione e in ogni altro caso di cessazione dal servizio, il dipendente civile ha diritto alla pensione normale se ha compiuto venti anni di servizio effettivo.
Ma il quadro normativo di riferimento ha subito profondi mutamenti.
Infatti, la disposizione da ultimo citata è da ritenersi superata in forza della legislazione riformistica in materia di pensioni degli anni Novanta.
Il prevalente orientamento giurisprudenziale ritiene, infatti, che “le norme applicabili siano quelle relative al momento del collocamento a riposo” e che, pertanto, “Il nuovo sistema pensionistico, introdotto con la legge 449/1997 entrata in vigore il 1°.01.1998, dopo aver fissato i limiti di età e di servizio per conseguire la pensione di vecchiaia, detta una nuova ed unica disciplina per i trattamenti anticipati di anzianità, aventi decorrenza dalla predetta data, a prescindere dalla causa di cessazione dal servizio che abbia determinato il pensionamento anticipato (domanda di dimissioni, provvedimento di decadenza, di destituzione….); sono peraltro previste delle eccezioni (7 co. dell’art. 59 della legge 449/97) tra le quali però non è ricompresa la destituzione dall’impiego” (
[25]).
Per tali motivi, è stato rigettata l’istanza giurisdizionale volta al riconoscimento del diritto a pensione, poiché il dipendente, “alla data della sua destituzione dal servizio…. non possedeva i requisiti minimi, in precedenza specificati, richiesti dalle predette disposizioni legislative per poter beneficiare di trattamento pensionistico” (
[26]).
Devono, comunque, essere analizzate le applicazioni di tali principi alla particolare fattispecie del dipendente colpito da pregressa sospensione cautelare.
Secondo la già richiamata giurisprudenza amministrativa, tale provvedimento retroagisce sin dall’inizio della sospensione cautelare, anche per quanto riguarda il trattamento di quiescenza (
[27]).
Ne consegue che non dovrebbe essere riconosciuto e, soprattutto, conteggiato, ai fini del trattamento pensionistico, il periodo di sospensione cautelare sofferta dal dipendente poi destituito.
Merita interesse, anche per la sua frequenza, lo specifico caso dell’impiegato riammesso in servizio prima della condanna penale definitiva e della destituzione dal servizio.
Se non può essere messa in discussione, per le surrichiamate esigenze, le necessità di non considerare il periodo di sospensione cautelare, rimane da valutare la sorte del periodo successivo alla riammissione in servizio del dipendente, fino al momento dell’effettiva cessazione.
Sul punto si riscontrano diverse sfumature nelle decisioni giurisprudenziali.
Da un lato, infatti, nell’analogo caso del pubblico dipendente riammesso in servizio a seguito di sospensione in sede giurisdizionale di un provvedimento cautelare dall’impiego, successivamente seguito da una pronuncia di merito di rigetto del ricorso proposto contro il provvedimento definitivo di destituzione ex tunc, si è ritenuto, rigoristicamente, che “il servizio successivamente prestato per effetto della sospensione incidentale (ottenuta con ordinanza dello stesso T.A.R., poi annullata dal Consiglio di Stato) del provvedimento impugnato di destituzione non sarebbe ricollegabile al precedente rapporto di lavoro ed avrebbe dovuto essere retribuito in via autonoma, secondo il regime delle prestazioni di fatto …“(
[28]), agli ordinari fini dei previdenza e quiescenza.
Altre decisioni hanno invece stabilito che, pur se legittimamente la destituzione del dipendente viene fatta retroagire al momento dell’inizio della sospensione cautelare, “viene correttamente valutato, ai fini previdenziali e di quiescenza, il solo periodo intercorrente tra la data di riammissione in servizio e quella destituzione. Infatti rileva il principio per cui, quando l’attività lavorativa è svolta dal dipendente sospeso dal servizio e poi destituito con effetti ex tunc, è configurabile un sevizio valutabile ai fini previdenziali e di quiescenza, malgrado la giuridica assenza del rapporto di pubblico impiego” (
[29]).
Tale principio rileva sia nel caso di provvedimento di destituzione divenuto inefficace per revoca di diritto, sia in caso di sospensione in sede giurisdizionale degli effetti della sospensione cautelare.
A quest’ultima soluzione si ritiene di aderire, innanzitutto per motivi di equità e di proporzionalità, principi che sconsigliano di estendere l’effetto delle misure afflittive a carico dell’impiegato anche ai periodi nei quali si sia ripristinato il rapporto sinallagmatico con l’amministrazione, pur se temporaneamente e sotto condizione risolutiva, con effettiva prestazione del servizio.
Non va, oltretutto, trascurato l’avvenuto versamento dei contributi previdenziali da parte dell’impiegato nel periodo di riammissione in servizio, che dovrebbe trovare riscontro nel computo dell’anzianità ai fini del calcolo del trattamento di quiescenza e, preliminarmente, della verifica della sussistenza del diritto a pensione; nel periodo di sospensione cautelare, invece, l’assegno percepito dal dipendente ha natura alimentare e non è gravato da ritenute previdenziali(
[30]).
Dott. Vito Montaruli
[1] Consiglio di Stato, , sez. VI, 8 maggio 2001, nr. 2568; Consiglio di stato, commissione speciale per il pubblico impiego, parere del 13 luglio 1998, nr. 402;
[2] Consiglio di Stato, Commissione speciale del pubblico impiego, parere 5 febbraio 2001, nr. 482/2000; Consiglio di Stato, sez. V , nr. 1808 del 17 dicembre 1998.
[3] Consiglio di Stato, Commissione speciale del pubblico impiego, parere 5 febbraio 2001,nr. 482/2000.
[4] Consiglio di Stato, sez. VI, 8 maggio 2001, nr. 2568;
[5] Consiglio di Stato, sez. VI, 8 maggio 2001, nr 2568;
[6] Consiglio di Stato, sez. VI, 8 maggio 2001, nr 2568;
[7] Consiglio di Stato, Sez. VI, 8 maggio 2001, nr. 2568.
[8] Consiglio di Stato, Sez. VI, 8 maggio 2001, nr. 2568.
[9] CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2000, pag. 52 e ss.;
[10] CARINGELLA, Diritto amministrativo, Napoli, 2003, pag. 778 e ss.;
[11] Consiglio di Stato, sez. IV , 25 marzo 2005, nr. 1275
[12] Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 28 febbraio 2002, nr. 2
[13] Consiglio di Stato, commissione speciale per il pubblico impiego, 13 luglio 1998, nr. 402;
[14] Consiglio di Stato, commissione speciale per il pubblico impiego, 13 luglio 1998, nr. 402;
[15] Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 28 febbraio 2002, nr. 2;
[16] Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 16 giugno 1999, n. 15;
[17] Consiglio di Stato, sez. VI, 16 settembre 2004, nr. 5976;
[18] Corte dei Conti, sez. giur. Lombardia, 28 novembre 2001, nr. 1394;Consiglio di Stato, sez. VI, 29 gennaio 2002 nr. 487; Consiglio di Stato, sez. VI, 20 giugno 2001, nr. 3271, Consiglio di Stato, sez. IV, 22 marzo 2001, nr. 1695, T.A.R. Lazio-Roma, sezione III, 27 novembre 2001, nr. 10245.
[19] Consiglio di Stato, sez. VI, 28 gennaio 2002, nr. 487;
[20] Consiglio di Stato, Commissione speciale del pubblico impiego, 5 febbraio 2001, nr. 482/2000.
[21] Consiglio di Stato, sez. IV, 22 marzo 2001, nr. 1695;
[22] Consiglio di Stato, sez. VI, 20 giugno 2001, nr. 3271;
[23] Consiglio di Stato, sez. VI, 20 giugno 2001, nr. 3271
[24] Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 6 marzo 1997, nr. 8.
[25] Corte dei conti, sez. giur. Sicilia, 21 luglio 2003, nr. 1275;
[26] Corte dei conti, sez. giur. Umbria, 27 ottobre 2003, nr. 357;
[27] Consiglio di Stato, sez. VI, 20 giugno 2001, nr. 3271;
[28] Consiglio di Stato, sez. VI, 9 aprile 2001, nr. 2147;
[29] Consiglio di Stato, sez. VI, 25 giugno 2002, nr.3476 ; T.A.R. Calabria-Catanzaro, 21 aprile 1999, nr. 481.
[30] Corte dei conti, sez. giur. l’Emilia Romagna, 30 gennaio 2004, nr. 96.
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