Per i più in dottrina è indiscusso il concetto di “doppio binario” della pena: trattasi del precipitato normativo pratico dei principi superiori di legittimità, tassatività e dignità dell’uomo, ancorchè condannato e recluso.
Il diritto penale, per antonomasia, è terreno della politica, ancor prima che della giurisprudenza: l’ultimo ventennio parlamentare, tra l’altro, ci è testimone di questo costume se si tiene conto dell’incedere bustrofedico del potere legislativo che, da una parte, ha operato aumenti di pena o introduzione di fattispecie nuove ed autonome come strumento di lotta a specifici episodi criminali e, dall’altra, ha concesso nuove forme di espiazione della pena, alternative al carcere e con finalità estintive della pena, financo concedere l’estinzione radicale del reato.
Proprio da queste ultime novità legislative – di seguito enunciate in forma sintetica – muove questa riflessione:
- Lavoro di pubblica utilità: (rif. D.Lgs 274/00 art. 54) è una sanzione penale che si realizza nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato. Viene svolto a favore di persone affette da HIV, portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex detenuti o extracomunitari; oppure nel settore della protezione civile, della tutela del patrimonio pubblico e ambientale o in altre attività pertinenti alla specifica professionalità del condannato.
- Lavoro di pubblica utilità in sostituzione delle pene non detentive: (rif. D.Lgs 285/92 art 186/9 bis e 187/8 bis) per i casi di violazione delle norme sulle circolazione stradale per guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope. Si tratta di poter applicare la disciplina del lavoro di pubblica utilità con effetti estintivi del reato (e di riduzione delle pene accessorie) in caso di buon esito.
- Lavoro di pubblica utilità nei casi di tossicodipendenza: (rif. D.P.R. 309/90 art. 73/5 bis – novella dell’art. 4 bis comma 1 D.L. 272/2005 conv. con Legge 49/2006 e successive modifiche) applicazione ai casi di condannato tossico dipendente, beneficio di svolgere lavori di pubblica utilità ex art. 54 D.Lgs 274/2000 in sostituzione della pena detentiva irrogata.
- Messa alla prova: (rif. art. 168 bis e segg. CP così novellato dall’art. 3 comma 1 Legge 28 aprile 2014 n. 67) come obbligo nei casi di sospensione del processo per messa alla prova. Il Giudice autorizza l’imputato a sottoporsi ad un “programma di trattamento” di concerto con U.E.P.E. (Ufficio Esecuzioni Pene Esterne) e in caso di buon esito del programma affidato, unitamente a condotte riparatorie ovvero risarcitorie, si otterrà l’estinzione del reato.
Lavoro inteso come strumento espiativo-redistributivo o come fine-risarcimento.
Il filo conduttore dei vari casi è l’elemento “lavoro” che irrompe nel sistema penalistico senza ve ne sia inquadramento o previsione, quanto meno a livello costituzionale e dei principi generali.
Sulla carta costituzionale non si reperisce nulla sul lavoro come sostitutivo della pena. Vengono celebrati i requisiti minimi della sottoposizione del condannato a pena nel rispetto del principio di legalità (art. 13) e l’indicazione della finalità rieducativa e dell’applicazione di restrizioni con senso di umanità (art. 27).
Tuttavia, nei luoghi di detenzione da molto tempo sono attivi dei progetti che permettono agli internati di poter lavorare all’interno della struttura carceraria, rimanendo reclusi ma “liberi” di svolgere compiti di utilità per la gestione della struttura che li ospita ovvero di far funzionare delle imprese (si pensi alla realtà della Casa di Reclusione di Padova e la Cooperativa Giotto, tra l’altro vincitrice di premi nazionali per la qualità dei prodotti di pasticceria commercializzati).
Ma il legislatore si è spinto oltre.
Prevedere normativamente che la pena possa essere sostituita dal lavoro, quello di pubblica utilità per l’appunto. Leit-motive che tende a contagiare il sistema e permette a coloro che sono caduti nel reato, non grave e solo in maniera occasionale, di porre rimedio al disvalore delle proprie azioni attraverso un percorso di lavoro.
Se per un momento isolassimo la mente dai condizionamenti della “vendetta” o del “giustizialismo” – fortunatamente non fatti propri del nostra sistema giuridico ma diffusi nel populismo del nostro tempo – agevolmente si comprenderebbe che l’auspicio “chi sbaglia – paga” parebbe essersi concretizzato.
Se poi, si allarga la visuale, sostenendo che i luoghi di reclusione non dovrebbe essere meri alloggi e vitti per delinquenti, e nemmeno opportunità di studio gratuite, allora la prima pietra per un cambio di direzione del sistema potrebbe essere già stata posata.
Se il lavoro, inteso come servizio per la collettività da svolgersi con dignità e rispetto del carcerato, potesse rappresentare l’ordinarietà dell’attività quotidiana del recluso (nel rispetto della normativa in materia di sicurezza e del riposo) questo darebbe impulso a:
- trasformazione del carcere da luogo di “detenzione” a luogo di soggiorno per reclusi lavoratori: nelle ore di lavoro i detenuti lascerebbero le celle per potersi dedicare alle attività lavorative, evitando la convivenza in spazi angusti tipici del sovraffollamento carcerario;
- incentivazione alla creazione di progetti cooperativistici, esterni alla struttura carceraria ma controllati dalla direzione del carcere, dove il lavoro prestato dal recluso-lavoratore produrrebbe ricavi e verrebbero distribuiti stipendi, che sarebbero destinati in parte al mantenimento nel carcere e in parte al risarcimento delle vittime del reato;
- il detenuto-lavoratore affronterebbe con dignità e decoro il proprio percorso carcerario, si guadagnerebbe con l’impegno nel lavoro e la buona condotta nei percorsi formativi gli stessi “sconti di pena” attualmente in vigore;
- per coloro che fossero in possesso del requisito dell’alloggio, dopo un periodo di eccellente partecipazione lavorativa (che si potrebbe quantificare in dipendenza della durata della pena), andrebbe concesso di poter scontare la pena al di fuori del carcere, con il lavoro giornaliero e la detenzione domiciliare notturna e nelle pause lavorative;
- prevedere per coloro che non abbiano intenzione di scontare la pena lavorando o che violino le regole previste per il recluso-lavoratore (anche il poco impegno) venga applicato il regime carcerario già in vigore per il “41 bis” ovvero il carcere duro in regime di isolamento: questo per perequare la posizione di coloro che si impegnano in antitsi di color che non si adeguano al sistema.
In queste condizioni le strutture carcerarie, a regime, vedrebbero un calo drastico degli ospiti, con la possibilità di convertire spazi, ora impegnati per la detenzione di molte persone in pochi metri quadri, in stanze di lavoro, razionalizzando strutture e personale dipendente.
La polizia penitenziaria, meno impegnata alla sorveglianza delle celle, sarebbe in grado di garantire il controllo dei detentuti-lavoratori all’esterno del carcere, vuoi nel posto di lavoro, vuoi presso la propria abitazione se autorizzato a soggiornarvi, sgravando le forze di polizia dalla sorveglianza sull’esecuzione delle pene. In questo senso gli agenti potrebbero pattugliare per garantire l’effettivo rispetto delle prescrizioni di esecuzione della pena. De iure condendo, il legislatore bene farebbe a costituire una commissione per la riforma del sistema carcerario, che sopravvivesse anche al cambio dei governi o del campanilismo politico, con eventuale revisione della carta costituzionale o della sua interpretazione, al fine di legiferare sulla previsione del lavoro come sostitutivo della pena come modello base della pena stessa.
Si eviterebbero svilimenti da concessioni premiali per risolvere problemi di sovraffollamento, si darebbe dignità al carcerato, superando i pregiudizi sociali contro coloro che sono incorsi nella giustizia, poiché nei valori del futuro vi sarebbe quello dell’accettazione di coloro che hanno espiato la loro colpa attraverso un percorso con finalità pubblica.
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