Il legato rappresenta una disposizione mortis causa a titolo particolare, per effetto della quale il legatario subentra in uno o più diritti determinati del de cuius.
La distinzione fra legato e istituzione di erede, agli occhi dell’interprete, appare fondamentale: mentre, infatti, l’erede subentra in universum ius, il legatario subentra in un rapporto determinato. Ne discende, finanche, un differente regime di responsabilità: l’erede, confondendo il patrimonio con quello del de cuius, risponde di tutti i debiti, i pesi e gli oneri, anche al di là di quanto abbia ricevuto (salvo accettazioni con beneficio di inventario); il legatario, invece, risponde intra vires, cioè nei limiti di quanto sia stato lui conferito.
Da tale distinzione si comprende il motivo per il quale il legislatore abbia stabilito che il legato si acquisti automaticamente all’apertura della successione, senza bisogno di accettazione e salvo rifiuto: il legatario, infatti, non potrà mai essere esposto a pesi e oneri al di là del valore del diritto o della cosa oggetto del legato, con la conseguenza che non si richiede una sua esplicita manifestazione di volontà. Per l’erede, invece, è necessaria l’accettazione e quest’ultima potrà essere espressa presunta o tacita ma dovrà sempre sussistere, in ragione della possibile assunzione di responsabilità ultra vires hereditatis. Se l’erede accetta anche con beneficio di inventario, in tal modo esclude “la confusione” del proprio patrimonio con quello del de cuius.
L’unico soggetto capace di divenire erede senza bisogno di accettazione è lo Stato, in parte in ragione del fatto che egli è erede ultimo e necessario e in parte in ragione del fatto che la sua accettazione è sempre beneficiata (ex lege).
A ben vedere, queste rilevanti differenze fra l’erede e il legatario, e la ratio ad esse sottese, tendono ad apparire di difficile applicazione quando occorre interpretare o la volontà del de cuius o la previsione di legge per stabilire se ci si trovi di fronte ad un erede o ad un legatario.
Come nell’ipotesi contempalata nell’art. 588 c.c.: poiché la disposizione è a titolo universale anche quando è attribuita una quota dell’intero patrimonio, occorre distinguere l’ipotesi in cui si è eredi con altri (coeredi) dall’ipotesi in cui, invece, vengano attribuiti più beni determinati o un insieme di beni a titolo di legato. Di qui, il fatto che l’interprete sia chiamato ad individuare, dopo aver ricostruito la volontà del de cuius, il regime da applicare.
Un problema ulteriore si pone nel caso della previsione in sede testamentaria di un legato in sostituzione di legittima: il de cuius attribuisce, infatti, ad un soggetto che dovrebbe divenire erede, la qualità di legatario.
L’art. 551 c.c., nel prevedere una simile eventualità, contempera la libertà del testatore di escludere un soggetto (pur legittimario) dalla comunione ereditaria, rendendolo legatario, con il diritto potestativo di questi di divenire erede.
Il fulcro dell’istituto è infatti nella scelta rimessa al legittimario: se egli decide di conseguire il legato, normalmente non potrà ottenere il supplemento, cioè la differenza di valore fra il legato conseguito e la quota di legittima spettante, salvo che tale possibilità sia espressamente prevista; se, invece, decide di chiedere la legittima rinunciando al legato, dovrà agire in giudizio per ottenere la quota di spettanza.
La predetta disposizione normativa lascia una serie di dubbi circa l’operatività del meccanismo di scelta, con specifico riguardo alle posizioni che il legittimario va ad assumere fino a che la situazione non si consolida.
In sede dottrinale e giurisprudenziale, ci si è interrogati sulla più corretta esegesi da attribuire a questa peculiare figura, la quale coinvolge un soggetto che avrebbe diritto a conseguire sempre una quota del patrimonio del de cuius, in ragione della protezione rafforzata che le norme sulla successione necessaria attribuiscono a taluni soggetti particolarmente vicini al de cuius (coniuge, figli e in mancanza di figli, ascendenti).
Anzitutto, si è cercato di individuare l’ambito di operatività del legato: esso deve sostituire, infatti, la quota di legittima, cioè quella frazione ideale del patrimonio del de cuius, considerata intangibile salvo i pesi e gli oneri che vi gravino per espressa previsione normativa.
In secondo luogo, si è discusso sulla posizione che il legittimario viene ad assumere per effetto della disposizione a titolo particolare.
Un primo orientamento, valorizzando il disposto dell’art. 649 c.c., ha sempre affermato che nel momento in cui si dispone un legato in sostituzione di legittima in favore del legittimario questi diviene a tutti gli effetti legatario, già dal momento di apertura della successione.
Tale soluzione, si osserva, è coerente anche con le acquisizioni più recenti in materia di successione necessaria: essa, infatti, non è un tertium genus di successione, rispetto a quella testamentaria e a quella legale, bensì un limite imposto dalla legge alla facoltà del soggetto di disporre non solo mortis causa ma, entro certi limiti, anche inter vivos di propri beni a favore di persone estranee alla cerchia dei legittimari. Accogliendo tale impostazione, infatti, il legittimario, che pure astrattamente avrebbe diritto ad una quota del patrimonio, non solo potrebbe essere erede leso (avendo ricevuto meno del dovuto) ma anche pretermesso, cioè non divenire affatto erede. Un simile status quo potrebbe del resto permanere, laddove il legittimario non esercitasse nei tempi e alle condizioni previste l’azione di riduzione.
Appare tutt’ora controversa, tuttavia, l’azione esperibile: secondo la teoria maggioritaria, la situazione sarebbe equiparabile a quella del legittimario pretermesso e quindi il soggetto dovrebbe agire in riduzione.
Esperita l’azione, il soggetto diverrebbe erede nel momento in cui gli venisse riconosciuta la sua quota legittima e l’ effetto retroagirebbe al momento della domanda, trattandosi di azione costitutiva.
Altra dottrina, invece, contrasta un simile esito e osserva, come, in tal modo, il legittimario verrebbe a essere eccessivamente svantaggiato, dovendo dar vita ad un’azione che magari potrebbe concludersi dopo anni. Si propone, pertanto, una diversa lettura della vicenda: nel legato in sostituzione di legittima, l’acquisto della qualità di legatario non sarebbe automatico ma si avrebbe solo per effetto della scelta di non rifiutare il legato (in quel momento si diventerebbe legatari); se si scegliesse, invece, di rifiutare il legato, questo varrebbe come accettazione dell’eredità e si potrebbe agire in petizione per ottenere i beni.
Coloro che accolgono una simile tesi ritengono, infatti, che il rifiuto del legato non ponga nel nulla un acquisto già avvenuto ma impedisca l’acquisto non ancora avvenuto, con specifiche ricadute anche in punto di forma, qualora oggetto del legato siano beni immobili.
La teoria prevalente ritiene, infatti, che poiché il rifiuto del legato fa venir meno un diritto reale già conseguito al patrimonio al momento dell’apertura della successione, la rinuncia, se il legato è su immobili, deve soggiacere a oneri di forma scritta ad sustantiam e va trascritta, in base al combinato disposto degli articoli 1350 n. 5 c.c. e 2643 c.c. n.5.
La teoria minoritaria, che accoglie la tesi del rifiuto impedito, invece, nega una simile conseguenza.
Nel legato in sostituzione di legittima, quest’ultima impostazione finisce per attribuire alla scelta una duplice funzione: se la scelta è di conseguire il legato, si perfeziona l’acquisto a titolo particolare; se si rifiuta il legato, si perfeziona l’acquisto della qualità di erede.
Invero, un simile esito, seppur avente il pregio di facilitare la posizione del legittimario destinatario della disposizione a titolo particolare, non convince in quanto va a derogare, senza solida giustificazione normativa, alle regole generali in materia di acquisto del legato nonché alle acquisizioni consuete in materia di legittimari: da un lato, infatti, l’art. 649 c.c. precisa che l’acquisto del legato è sempre automatico, dall’altro è chiaro che il legittimario non diviene mai automaticamente erede, in quanto esso deve essere chiamato alla successione legittima o testamentaria e accettare oppure esperire le azioni previste dall’ordinamento per ottenere quanto gli spetta.
Il legato in sostituzione di legittima si pone dunque quale limite, normativamente previsto, al conseguimento della legittima per il legittimario. Si tratta, però, di un limite tollerabile, anche in ragione della facoltà di scelta rimessa all’interessato.
L’istituto presenta delle analogie col diritto di abitazione e uso sulla casa coniugale e sui mobili che la corredano attribuito al coniuge superstite. Anche tale previsione, infatti, può finire nella sostanza per comprimere la posizione di uno o più legittimari, assorbendo la legittima del coniuge o dei figli.
Per addentrarsi in medias res, occorre tener presente che nel diritto successorio anteriore alla riforma del diritto di famiglia, il coniuge non figurava fra i successibili ex lege (né tanto meno fra i legittimari), con la conseguenza che poteva essere chiamato solo per testamento. Si prevedeva, però, che al coniuge fosse attribuito il diritto di abitazione sulla casa coniugale e di uso sui mobili che la corredavano. La dottrina era concorde nel ritenere che si trattasse di un legato ex lege, finalizzato a tutelare lo status del coniuge, onde evitare di esporlo alla ricerca di una nuova abitazione ove avesse vissuto per larga parte del tempo nell’ immobile appartenente al de cuius.
Con la riforma del diritto di famiglia del 1975, il coniuge ha assunto, invece, una posizione di assoluta centralità nel diritto successorio, tanto che, come è stato osservato, egli è l’unico successibile ex lege e legittimario non legato da vincoli di sangue col de cuius e, quando concorre nell’eredità con altri successibili, riceve una parte del patrimonio che non è mai inferiore a quella spettante a altro singolo coerede.
Al di là di simili previsioni, nel nuovo sistema sono stati altresì conservati a favore del coniuge i diritti di abitazione della casa coniugale e uso dei mobili, previsti già in precedenza.
L’art. 540 comma 2 c.c., in tema di successione necessaria, chiarisce infatti che tali diritti sono riservati al coniuge e normalmente gravano sulla porzione disponibile. Solo nei casi di insufficienza di questa, essi incidono, quale specifico peso, sulla legittima del coniuge e, eventualmente, sulla legittima dei figli.
Ne deriva che i diritti suddetti, nell’ipotesi in cui il patrimonio del de cuius lo consenta, si aggiungono alla legittima del coniuge; laddove, però, il loro valore sia elevato e la disponibile non sufficiente, simili diritti vanno a costituire un’eccezione al principio di intangibilità della legittima ex art. 549 c.c. Il coniuge o i figli, infatti, potrebbero vedere incisa la loro legittima dalla necessità di garantire il diritto di abitazione e uso sulla casa coniugale e sui mobili che la corredano.
In questo caso, vi potrebbe essere una situazione simile al legato in sostituzione di legittima, in quanto i diritti di uso e abitazione esauriscono la legittima o, detto altrimenti, la assorbono.
Si tratta però di un’analogia parziale: anzitutto perché non sempre ciò avviene (anzi normalmente i diritti si sommano alla legittima), secondariamente perché è la legge a prevedere un simile esito e non la volontà del testatore, e infine perché un simile effetto non pare “disponibile” per il coniuge o i figli in quanto imposto dalla legge.
Potrebbe apparire allora che più di un legato ex lege, in tali casi, ci si trovi di fronte ad una modalità di configurare la quota di spettanza, facendo sì che nella parte di patrimonio del coniuge non possano non essere ricompresi determinati diritti.
Una simile conclusione pare avvalorata dall’ampiezza delle ipotesi in cui i diritti suddetti sono riconosciuti: essi infatti riguardano il coniuge superstite, anche separato e putativo.
L’art. 548 c.c. precisa che i diritti successori del coniuge (fra cui quello all’abitazione e all’uso) si estendono anche al coniuge separato senza addebito, coerentemente con l’impostazione codicistica per cui il rapporto coniugale durante la separazione è solo sospeso. Pare dunque giusto, ancorché vi sia stata crisi coniugale, tutelare il soggetto che, non avendo colposamente cagionato la rottura, abbia condiviso un percorso di vita col de cuius.
Considerazioni analoghe valgono per il coniuge putativo, cui l’art. 584 c.c. estende la previsione dell’art. 540 comma 2: anche in tal caso, lo stato di buona fede giustifica il favor riconosciuto dal legislatore, anche laddove il matrimonio sia invalido.
La dottrina maggioritaria, in ragione di tali profili, non ha mai dubitato del fatto che si dovesse garantire il diritto di abitazione e uso della casa coniugale al coniuge superstite, in ragione della previsione legislativa, anche a scapito di previsioni testamentarie difformi o dell’intangibilità della legittima.
Si è posto, invece, uno specifico problema in tema di successione legittima: nel prevedere, infatti, come l’eredità si devolva ex lege, il codice non contempla alcuna previsione apposita per i diritti di uso e abitazione del coniuge, specificando solamente quali sono le porzioni spettanti, a seconda dei soggetti con cui si concorra.
L’ orientamento prevalente, tuttavia, muovendo dall’ampia protezione dello status coniugale, ha riconosciuto che anche nella successione legittima devono essere riconosciuti i diritti di abitazione della casa coniugale nonché l’uso dei mobili della stessa. Ciò sulla base anche del fatto che un simile diritto è previsto nella successione legittima per il coniuge putativo, con apposito richiamo al 540 comma 2 c.c. Infatti, si argomenta, se il legislatore ha richiamato per il coniuge putativo la previsione, a fortiori essa dovrà applicarsi per qualsiasi altro coniuge che sia erede (quindi quello non legalmente separato e quello separato senza addebito).
Tuttavia, si è aperto in dottrina un dibattito sulle modalità di riconoscimento di questi diritti e la tesi prevalente ha ritenuto, che in assenza di una norma analoga al 540 comma 2 c.c., i diritti di abitazione e uso dovessero essere ricompresi nella quota di patrimonio spettante al coniuge, non potendosi concepire un’aggiunta rispetto a quanto previsto negli art. 581 e 582 c.c. (metà patrimonio, un terzo, due terzi).
Tale assunto è stato anche giustificato alla luce del fatto che, senza norma apposita, non si sarebbero potuti limitare i diritti ex lege degli altri successibili.
Milano, 07 maggio 2017
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