Il licenziamento disciplinare e le interpretazioni sul “fatto contestato” della giurisprudenza

 

Sommario: 1. Premessa; 2. Le conseguenze del licenziamento disciplinare illegittimo prima della riforma Fornero; 3. Il licenziamento disciplinare nella Riforma Fornero: la riscrittura dell’art.18 Stat. Lav. e l’introduzione del concetto di “fatto contestato”; 4. Segue: l’interpretazione della locuzione “fatto contestato”; 5. Il Jobs Act e l’(apparente) rilevanza del fatto materiale; 6. La nozione di “fatto” nella giurisprudenza successiva al Jobs Act; 7. Il punto d’arrivo della giurisprudenza sulla nozione di “fatto”.

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Premessa

Il licenziamento è l’atto con il quale il datore di lavoro recede dal contratto di lavoro con il dipendente, determinando unilateralmente la cessazione del rapporto di lavoro.

In particolare, il licenziamento disciplinare è quella tipologia di recesso del datore di lavoro che ricomprende sia il licenziamento per giustificato motivo soggettivo (art. 3 della legge 604/1966),   vale a dire il licenziamento, con preavviso, causato da un “notevole inadempimento” del lavoratore ai suoi obblighi contrattuali, sia il licenziamento per giusta causa (art. 2119 c.c.), e quindi il licenziamento, senza preavviso, determinato da un comportamento disciplinarmente rilevante del lavoratore talmente grave da non consentire, nemmeno in via temporanea, la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Detto in altri termini, il licenziamento disciplinare è la massima sanzione che il datore di lavoro può irrogare al dipendente allorquando quest’ultimo ponga in essere comportamenti disciplinarmente rilevanti.

La disciplina del licenziamento disciplinare – e segnatamente del sistema sanzionatorio in ipotesi di illegittimità dello stesso –  è stata profondamente innovata a seguito dell’entrata in vigore dalla legge 92/2012 (c.d. Legge Fornero), che ha riscritto l’art. 18 Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), norma quest’ultima successivamente sostituita – per i soli lavoratori assunti a far data dal 7 marzo 2015 –  dall’art. 3, co. 2, D.lgs. 23/2015 (c.d. Jobs Act).

Le principali incertezze interpretative si sono concentrate sulle fattispecie di cui agli articoli innanzi citati, e, segnatamente, sul significato da attribuire alla locuzione “fatto contestato” e alla conseguente necessaria verifica di sussistenza o meno dello stesso, al fine di individuare la relativa sanzione (reintegratoria o meramente indennitaria) da applicare in caso di illegittimità del licenziamento comminato.

Incertezze interpretative che parrebbero essere state tacitate dalla Corte di Cassazione, la quale, con recenti pronunce del maggio 2019[1], sembrerebbe aver posto un punto fermo sul punto, definendo le ipotesi di cui, per l’appunto, agli art. 18, co.4, Stat. Lav. e 3, co.2, D. Lgs. 23/2015 che prevedono, in caso di licenziamento disciplinare illegittimo, l’operatività della reintegra nel posto di lavoro[2].

Le conseguenze del licenziamento disciplinare illegittimo prima della riforma Fornero

Nell’impianto normativo in vigore prima dell’avvento della riforma Fornero, il testo dell’art.18 Stat. Lav. era molto più lineare di quanto non lo sia successivamente diventato a seguito delle riforme intervenute, e la tutela reintegratoria rappresentava l’unica conseguenza derivante dal giudizio di illegittimità del licenziamento.

La vecchia formulazione della norma innanzi citata, infatti, prevedeva che, in tutti i casi di licenziamento illegittimo (perché discriminatorio o nullo, ovvero perché intimato in assenza di giusta causa o di giustificato motivo, sia soggettivo che oggettivo), il Giudice condannasse il datore di lavoro alla reintegra del dipendente nel posto di lavoro, oltre a pagamento di un’indennità risarcitoria pari alla retribuzione globale di fatto non goduta dal giorno del licenziamento sino a quello di effettiva reintegra[3].

Per ciò che concerne la fattispecie che ci interessa, al fine di pervenire ad un giudizio di legittimità o meno del licenziamento irrogato e, quindi, al fine di poter applicare la sanzione legislativamente prevista della reintegra, il Giudice era chiamato a verificare la sussistenza di proporzionalità tra fatto (inteso come addebito contestato al dipendente nel corso del procedimento disciplinare) e sanzione (licenziamento).

Detto in altri termini, prima della riforma operata dalla Legge Fornero, per stabilire se il licenziamento disciplinare fosse o meno legittimo, occorreva valutare – ed in questo la figura dell’organo giudicante aveva un ruolo centrale – da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, dall’altro la proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario caratterizzante il rapporto di lavoro subordinato e sulla quale si basa la collaborazione del prestatore di lavoro fosse – in concreto – di gravità tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare[4].

Il licenziamento disciplinare nella Riforma Fornero: la riscrittura dell’art.18 Stat. Lav. e l’introduzione del concetto di “fatto contestato”.

Prima dell’entrata in vigore della riforma operata dalla Legge Fornero, a mente dell’art.18 dello Stat. Lav., in assenza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, la reintegra nel posto di lavoro (affiancata da una tutela indennitaria variabile) era l’unica tutela di cui godeva il lavoratore e, per stabilire l’illegittimità o meno del licenziamento, il Giudice era chiamato ad effettuare un giudizio di proporzionalità tra l’illecito disciplinare posto in essere dal dipendente e la sanzione comminata.

In altri termini, prima dell’avvento della Riforma Fornero, un licenziamento poteva considerarsi legittimo a condizione che la risoluzione del rapporto di lavoro fosse una conseguenza proporzionata all’inadempimento del lavoratore.

Come è noto, la Legge 92/2012 ha riscritto completamente l’art.18 Stat. Lav. e lo ha fatto in un’ottica di graduazione delle sanzioni conseguenti al giudizio di illegittimità del licenziamento, al fine di rendere la reintegra nel posto di lavoro quale estrema ratio.

L’art.18 Stat. Lav. post Riforma Fornero introduce, infatti, due diversi tipi di tutela conseguenti alla declaratoria di illegittimità, e segnatamente: (I) mantiene la tutela reintegratoria, unitamente alla corresponsione dell’indennità risarcitoria, nelle ipotesi in cui la carenza di giusta causa o giustificato motivo derivi da: a) insussistenza del fatto contestato ovvero perché b) il fatto rientra tra le concotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili (comma 4); (II) introduce una mera tutela indennitaria in tutte le altre ipotesi di assenza di giusta causa e giustificato motivo.

Pertanto, nell’idea del Legislatore, è evidente che, in caso di licenziamento illegittimo, la tutela applicabile sia – quasi quale regola generale – quella indennitaria, relegando la tutela reintegratoria a rimedio eccezionale, nei soli due casi previsti dalla norma.

In tale quadro, rispetto al passato, non sussiste alcuno spazio, ai fini della reintegra, per sindacare la proporzionalità della sanzione, salvo nell’ipotesi in cui la contrattazione collettiva non abbia previsto – con un giudizio ex ante, quindi – una specifica sanzione per determinati illeciti, che, peraltro, di per se stessa, esclude l’applicabilità del licenziamento.

Segue: l’interpretazione della locuzione “fatto contestato”.

La locuzione “insussistenza del fatto contestato” introdotta nella norma ha destato sin da subito diversi dubbi interpretativi, che si sono concentrati in particolar modo sull’individuazione della natura giuridica del concetto di “fatto” ed hanno dato vita a due orientamenti contrapposti.

Da un lato, la teoria del “fatto materiale”, di matrice per lo più dottrinaria, secondo la quale l’indagine relativa al fatto contestato dovrebbe rivestire il mero fatto storico, il fatto materiale, per l’appunto, considerato nelle sue componenti oggettive (condotta, nesso causale ed evento, di matrice penalistica) e come tale naturalisticamente inteso e privo di ogni profilo soggettivo e normativo.

Ciò al fine di non tradire quella che era stata individuata come la ratio della riforma: se l’indagine sul fatto, infatti, fosse condotta sugli stessi elementi che hanno portato il Giudice ad accertare l’assenza della causa giustificativa del licenziamento, si finirebbe con il far conseguire sempre la tutela reintegratoria, così risultando vanificata la diversificazione dei regimi sanzionatori introdotta dal legislatore in seno all’art. 18 Stat. Lav.

Dall’altro, la teoria del “fatto giuridico”, di matrice giurisprudenziale, secondo la quale l’art.18, co.4, Stat. Lav., allorquando demanda l’indagine dell’organo giudicante sul fatto, fa necessariamente riferimento al c.d. fatto giuridico, inteso come il fatto globalmente accertato, nell’unicum della sua componente oggettiva e di quella inerente l’elemento soggettivo[5].

Differentemente, sempre secondo la giurisprudenza citata, si correrebbe il rischio di offrire una lettura della norma palesemente in violazione dei principi generali dell’ordinamento civilistico, relativi alla diligenza ed alla buona fede nell’esecuzione del rapporto lavorativo, posto che potrebbe giungere a ritenere applicabile la sanzione del licenziamento meramente indennitaria, anche a comportamenti esistenti sotto l’aspetto materiale ed oggettivo, ma privi dell’elemento psicologico, o addirittura privi dell’elemento della coscienza e volontà dell’azione[6].

Sulla base della teoria del fatto giuridico, il Giudice sarebbe quindi chiamato a valutare il fatto nella sua componente oggettiva e soggettiva (in senso giuridico, per l’appunto) e, in assenza della componente soggettiva, potrebbe ritenere insussistente il fatto medesimo, disponendo la reintegra del prestatore di lavoro. Così probabilmente, secondo quale interprete, finendo con il far rientrare quella discrezionalità del giudice e, in ogni caso, un giudizio di proporzionalità dello stesso, che l’impianto della riforma Fornero pareva voler eliminare o comunque ridurre fortemente[7].

La giurisprudenza di legittimità che si è pronunciata in seguito al sorgere degli orientamenti innanzi descritti – fatto salvo per una sola pronuncia che probabilmente, invero, ha finito per ispirare il Legislatore nel dettare la disciplina attualmente in vigore (cfr. paragrafo che segue) e che pareva dare risalto al fatto materiale pur senza mai definirlo[8] – ha preso una netta posizione, orientandosi – come vedremo nei paragrafi che seguono – verso una lettura estensiva dell’art.18 Stat. Lav., e pertanto volta a non limitare il concetto di “fatto” al semplice accadimento storico – naturale, ma comprendendo nel giudizio anche i profili di illeceità della condotta[9], evidenziando la necessità di verificarne l’imputabilità al lavoratore[10] e la gravità[11]. E così accedendo, almeno formalmente, alla tesi del “fatto giuridico”, che trova però il suo primo riconoscimento letterale solo in una pronuncia del 2017[12].

Il Jobs Act e l’(apparente) rilevanza del fatto materiale.

Con l’entrata in vigore del D. Lgs. 23/2015 e della conseguente disciplina a tutele crescenti, come è stata definita, la diversificazione tra sanzioni diventa ancora più netta e le ipotesi di reintegra maggiormente limitate.

L’art.3 del suddetto Decreto – che si applica, lo ribadiamo, soltanto ai dipendenti assunti a far data dal 7 marzo 2015, momento di entrata in vigore della relativa disciplina – sostituisce integralmente l’art.18 Stat. Lav. e stabilisce: (a) l’applicazione in modo generalizzato della tutela indennitaria in caso di licenziamento comminato in assenza di giusta causa o giustificato motivo (comma 1), (b) relegando la tutela reintegratoria “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento […]” (comma 2).

La lettera della legge parrebbe chiarissima: il fatto di cui accertare l’esistenza deve essere inteso nella sua materialità e, nel relativo giudizio di accertamento, occorre escludere qualsivoglia valutazione di proporzionalità.

Del resto, proprio in questi termini, come abbiamo accennato, si era espressa la Corte di Cassazione poco prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina, precisando – con riferimento all’interpretazione della locuzione ‘fatto contestato’ di cui all’art.18, comma 4, Stat. Lav. – che la tutela reintegratoria avrebbe dovuto trovare spazio in relazione alla “verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, verifica che si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto condotto senza margini per valutazioni discrezionali[13].

La nozione di “fatto” nella giurisprudenza successiva al Jobs Act.

Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” diceva il principe Fabrizio nel famoso romanzo “Il Gattopardo” di Giuseppe Tommasi di Lampedusa.

Ed è proprio quello che sembra sia accaduto nel nostro ordinamento.

Intesa letteralmente, infatti, la nuova disciplina pareva operare una rivoluzione nell’interpretazione della nozione di “fatto contestato”, introducendo – questa volta proprio ex lege – la connotazione di materialità dello stesso ed escludendo espressamente il giudizio di proporzionalità, in relazione alla necessità o meno del quale, ancora fino ad allora, si continuava a dibattere. E ciò con l’evidente finalità – che poi corrisponde alla ratio di tutto l’impianto legislativo – di ridurre la discrezionalità dei giudici nella sanzioni applicabili al licenziamento illegittimo.

Ma così interpretata, secondo i primi commentatori, la norma sembrava condurre a conseguenze paradossali: non avrebbe, infatti, diritto alla reintegra il lavoratore licenziato per un fatto di lieve entità (si pensi al furto di una penna o altro bene di modico valore) o che, addirittura, non costituisce inadempimento data la sua irrilevanza disciplinare (ad esempio, il mancato saluto al datore di lavoro).

Ed anche sulla scorta di tali riflessioni che, nonostante la chiara indicazione legislativa sopravvenuta, la giurisprudenza, con riferimento a fattispecie disciplinate ancora dall’art.18 Stat. Lav., ha – come detto – continuato ad intendere il “fatto contestato” quale fatto avente rilevanza giuridica, statuendo pertanto che lo stesso debba avere l’attitudine, anche solo in potenza, a incidere negativamente su di una posizione soggettiva meritevole di tutela, debba risultare imputabile, e, conseguentemente, doloso o colposo. Il tutto, però, da verificarsi nella sua dimensione meramente oggettiva, limitando la valutazione e l’indagine all’effettiva sussistenza dell’illecito, senza eccedere in una valutazione di proporzionalità, che attiene invece alla successiva (e diversa) fase di individuazione della sanzione applicabile[14].

Per una parte di tale giurisprudenza, peraltro, il “fatto” deve essere inteso quale vero e proprio inadempimento agli obblighi contrattuali posti dal rapporto di lavoro, in quanto solo l’inadempimento del lavoratore giustifica la sussistenza e quindi l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro[15].

Il punto d’arrivo della giurisprudenza sulla nozione di “fatto”.

Di recente, e in particolare con le pronunce rese nel corso dell’anno 2019, l’orientamento innanzi citato parrebbe dirsi ormai consolidato. E ciò anche con riferimento all’interpretazione dell’art.3 D.Lgs. 23/2015, che, proprio grazie all’opera interpretativa della giurisprudenza viene assimilata a quella prevalente – e fin qui illustrata – sviluppatasi in relazione all’art.18, comma 4, Stat. Lav.

Come chiarito dalla pronuncia della Suprema Corte n.12174 dell’8 maggio 2019, infatti, anche i fini dell’interpretazione della norma del Jobs Act, l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore comprende non soltanto le ipotesi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare.

Di fatto, la Cassazione esclude che l’aggettivo “materiale” introdotto dal Jobs Act a connotare il “fatto” addebitato al lavoratore possa avere rilevanza giuridica e riafferma la tersi del “fatto giuridico” anche per i licenziamenti illegittimi dei dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015.

Ciò in quanto, sempre secondo la Suprema Corte, qualsivoglia giudizio di responsabilità richiede per la verifica di sussistenza del fatto materiale ascritto, dal punto di vista soggettivo, la riferibilità dello stesso all’agente e, da quello oggettivo, la riconducibilità del medesimo nell’ambito delle azioni giuridicamente apprezzabili come fonte di responsabilità.

Il risultato finale parrebbe essere la riaffermazione di un ampio potere discrezionale dell’organo giudicante e, soprattutto, un ampliamento delle possibilità di condanna alla reintegra.

Ma, a ben vedere, i termini (e le finalità) della recente giurisprudenza sono diversi, in quanto essa si limita a coordinare, sul piano sistematico, il giudizio di sussistenza fenomenica introdotto dal legislatore del Jobs Act (ovvero l’accertamento del “fatto materiale”) con quello – preliminare e necessario – che deve ricondurre la “contestazione” nel novero delle clausole generali di giusta causa e giustificato motivo di cui agli artt. 1 e 3 della l. 604/66, nonché 2119 c.c.

E ciò, come anche specificato nella motivazione della sentenza n.12174/2019 citata, non si tratta di operare un giudizio di proporzionalità del licenziamento – che peraltro sarebbe inammissibile perché è proprio la legge ad escluderlo- ma solo di procedere ad un giudizio di apprezzabilità disciplinare del “fatto” che costituisce il presupposto logico-giuridico per la verifica di sussistenza fenomenologica richiesta ai fini della tutela reintegratoria[16].

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Note

[1] Si tratta in particolare delle sentenze Cass. Civ. , Sez. Lavoro, 8 maggio 2019 n.12174; Cass. Civ., Sezione Lavoro, 9 maggio 2019 n.12365 e Cass. Civ., Sez. Lavoro, 28 maggio 2019 n.14500.

[2] Per un commento recente alla sentenza Cass. Civ. , Sez. Lavoro, 8 maggio 2019 n.12174 si veda Maresca, Licenziamento disciplinare e sussistenza del fatto contestato nella giurisprudenza della Cassazione, pubblicata sul sito www.lavorodiritttieuropa.it.

[3] Come è noto, al lavoratore è data la possibilità di sostituire la sanzione della reintegra con un’indennità di ammontare pari a quindi mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

[4] In tal senso Cass. Civ., Sez. Lavoro, 3 gennaio 2011, n.35; nello stesso senso Cass. Civ., Sez. Lavoro, 22 giugno 2009 n.15586.

[5] Così si esprime Tribunale Bologna, sez. lav., ord. 15 ottobre 2012, n. 2631 (confermata da App. Bologna 11 aprile 2013, n. 604), in Arg. dir. lav., 2012, p. 907, che per prima si è interrogata, a livello giurisprudenziale, sull’interpretazione da dare al termine “fatto”.

[6] Nel medesimo senso espresso dal Tribunale di Bologna appena citato, si sono quindi successivamente espressi anche il Tribunale di Ravenna, sez. lav., 18 marzo 2013; Tribunale di Palmi, sez. lav., 24 aprile 2013, nonché Tribunale Bari, 19 novembre 2013; Tribunale Milano, 30 gennaio 2013 e Tribunale Milano, 15 novembre 2014.

[7] A fare da apri pista a tale osservazione, peraltro, è stato proprio il Tribunale di Bologna citato nelle note che precedono, che ancorava la propria decisione all’accertamento della “gravità del fatto”.

[8] Ci riferiamo alla pronuncia Cass. Civ., Sez. Lav., 6 novembre 2014 n.23669 in, ex multiis, in Riv. it. dir. lav., 2015, II, p. 25, con note a p. 32 di DEL PUNTA R., Il primo intervento della Cassazione sul nuovo (eppur già vecchio) art. 18, e a p. 39 di MARTELLONI F., Nuovo art. 18: la Cassazione getta un ponte tra riforma Fornero e Jobs Act?.

[9] Cass. Civ. Sez. Lav., 13 ottobre 2015 n.20540 secondo la quale “non è possibile che il legislatore abbia voluto [negare la tutela reintegratoria] nel caso di fatto sussistente, ma privo del carattere di illeceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione disciplinare”; nello stesso senso Cass. Civ. Sez. Lav., 5 dicembre 2017 n.29062

[10]  Cass. Civ., Sez. Lav., 16 maggio 2019 n.10019, la quale per appunto equipara i casi di condotta inesistente a quelli in cui tale condotta non costituisca inadempimento degli obblighi del lavoratore ovvero non sia imputabile al lavoratore stesso.

[11] Cass. Civ., Sez. Lav., 20 settembre 2016 n.18418, che per alcuni interpreti così statuendo parrebbe dare rilievo a quel giudizio di proporzionalità

[12] Cass. Civ., Sez. Lav., 26 maggio 2017 n.13383, nella cui motivazione è chiaramente precisato che “nella locuzione ‘insussistenza del fatto contestato’, il fatto deve intendersi in senso giuridico e non in senso meramente materiale”.

[13] Cass. Civ., Sez. Lav., 6 novembre 2014 n.23669, citata a nota 7.

[14] In tal senso Cass. Civ., Sez. Lav., 3 ottobre 2018 n.24117; Cass. Civ., Sez. Lav., 10 settembre 2018 n.21958; Cass. Civ., Sez. Lav., 7 settembre 2019, 21919; Cass. Civ., Sez. Lav., 17 maggio 2018 n.12102.

[15] In tal senso si è espressa principalmente la giurisprudenza di merito e segnatamente Tribunale Firenze 7 febbraio 2018; Corte Appello Aquila 14 dicembre 2017; Tribunale Monza 26 ottobre 2017. E’ bene tenere presente, come alcuna dottrina sottolinea (cfr. ancora Maresca, Licenziamento disciplinare e sussistenza del fatto contestato nella giurisprudenza della Cassazione, cit.), che “ricondurre il ‘fatto contestato’ all’inadempimento contrattuale […] appare condivisibile soltanto se aiuta a comprendere che tale fatto si deve configurare quale illecito disciplinare”; laddove invece il riferimento all’inadempimento “non appare appropriato se mira ad evocare la “scarsa importanza” che deve connotare l’inadempimento  per la risoluzione del contratto (art.1455 c.c.), predicando attraverso questo argomento la necessità di verificare la sussistenza del ‘fatto contestato’ anche con riferimento alla sua proporzionalità”.

[16] Questo è il pensiero condivisibile di Nicola Morgese, Irrilevanza del fatto materiale contestato e tutela reintegratoria nei licenziamenti ex art.3 del D.Lgs. n.23/2015: la legge come oggetto di misurazione, pubblicato sul sito www.lavorodirittieuropa.it.

Avv. Giorgia Lovecchio Musti

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