Indice
1 introduzione
2 la rivoluzione di Schengen
3 il Trattato di Amsterdam
4 la Decisione Quadro
5 la legge di attuazione
6 l’“eurordinanza” alla prova dei fatti
7 il paradosso costituzionale
8 conclusioni
elenco degli autori
giurisprudenza citata
1.introduzione
Il Mandato d’Arresto Europeo è, almeno sinora, una delle più rilevanti innovazioni nel campo degli strumenti di “terzo pilastro
[1]”, come riformato dal Trattato di Amsterdam
[2], realizzate dai paesi membri dell’Unione Europea
[3].
L’approccio che ha condotto a questo accordo è profondamente differente da quella che ha governato il processo di integrazione comunitario
[4] fino a questo momento.
Essendo questo modello di cooperazione intergovernativa più simile ad un sistema basato sul mutuo riconoscimento che ad un sistema/processo di armonizzazione ed unificazione quale è stato il modello giuridico tradizionale di sviluppo delle Comunità Europee, organizzato con le sue tradizionali fonti (strumenti) del diritto a partire dai “Trattati Costituzionali”
[5] sino a giungere a direttive, regolamenti
[6] e decisioni.
Del tutto identici, invece, come vedremo, sono stati i meccanismi giuridici d’integrazione delle legislazioni nazionali e i dibattiti scaturiti dalla prova dei fatti dell’istituto.
Come argomentato da alcuni studiosi il Terzo Pilastro è stato, probabilmente, il tentativo da parte degli Stati di mantenere una forte presa sulle leve del sistema penale e di ostacolare la Commissione nel suo desiderio di costruire un sistema comune basato sulle stesse regole giudicate dalle stesse Corti o di sviluppare un sistema comune di persecuzione come paventato nel progetto
Corpus Juris[7] o dalla Commissione nel Libro Verde sul Pubblico Ministero Europeo
[8].
Appare evidente, anche ad una lettura superficiale, come un modello, pur pragmatico, basato o sulla mera “integrazione negativa” (il semplice abbattimento delle barriere che è alla base del MAE) o sulla sola creazione di una unica struttura europea che svolga semplicemente attività di impulso dell’azione giudiziaria (Pubblico Ministero europeo), senza la creazione delle necessarie garanzie e dei dovuti contrappesi, produca un deterioramento delle garanzie in capo al cittadino europeo a differenza di quanto accadrebbe con la creazione di un sistema giuridico penale (con norme ed istanze giurisdizionali “unificate”) europeo pur estremamente ridotto e limitato alla persecuzione di poche fattispecie criminose.
La via preferita dal Consiglio Europeo per conseguire i propri obiettivi nel quadro della cooperazione giudiziaria, a partire dal vertice di Tampere, è stata quella del “mutuo riconoscimento”, basato sulla coesistenza e la reciproca fiducia tra i sistemi dei diversi paesi europei
[9].
Il dibattito è stato poi molto vivace quando si è trattato di dare attuazione all’istituto nell’Ordinamento italiano. Alcuni illustri studiosi (in particolare Vassalli e Caianiello) italiani si sono fermamente opposti all’applicazione dell’istituto europeo, giacché ritenuto non conforme alla Costituzione italiana
[10].
L’intera opinione di questi giuristi emeriti Presidenti della Corte Costituzionale è realmente interessante ed offre al lettore due differenti possibili modalità d’ interpretazione della decisione quadro sul mandato d’arresto europeo.
Vengono offerti argomenti, infatti, sia per una interpretazione cd. “forte” sia per una cd. “tenue”.
Se pure la cosiddetta interpretazione “tenue” della decisione quadro è (o dovrebbe essere) la più vicina alla reale volontà dei redattori, la cosiddetta “forte” costituisce uno stimolo intellettuale ed un utile strumento per comprendere e prevenire possibili usi diversi ed anomali, in teoria non irrealistici, di questo nuovo strumento di Terzo Pilastro.
L’interpretazione “tenue” è in definitiva una mera lettura procedurale del testo in questione.
Il mandato d’arresto europeo, secondo tale opinione, è solamente un sistema per “sostituire tra gli Stati membri tutti i precedenti strumenti in materia di estradizione, comprese le disposizioni del titolo III della convenzione d’applicazione dell’accordo di Schengen che riguardano tale materia”, come scritto al punto 11 del preambolo.
In ossequio a tale interpretazione il mandato d’arresto non dovrebbe mutare nessun presupposto od ampiezza dell’autorità punitiva dello Stato (di ogni Stato Membro) ma semplicemente dovrebbe servire a semplificare i lenti e complicati (ormai del tutto obsoleti) meccanismi della procedura d’estradizione, eliminando anche ogni intervento dell’autorità politica (e della sua discrezione) in questo tipo di procedimenti
[11].
D’altro canto, invece, l’interpretazione “forte” insiste sulla lettura dell’articolo 2 del documento, quando si riferisce allo scopo del mandato d’arresto europeo, che può anche essere letto come una premessa per la creazione di uno “Spazio Giuridico Europeo Comune” nel quale non è solo possibile eseguire automaticamente ordini di custodia con il carattere e gli elementi di un mandato d’arresto europeo, ma anche un area nella quale un “comune” (e vago!) diritto penale può essere fatto valere, o alcuni reati, non così precisamente descritti, possono essere perseguiti da ciascuna (di ciascuno degli Stati membri) autorità giudiziaria, ovunque questi siano stati commessi all’interno del territorio dell’Unione Europea.
Questa idea è rafforzata da un preciso collegamento tra mandato d’arresto e lista dei reati; i reati non sono definiti in maniera né semplice né concisa, bensì semplicemente enumerati come “oggetti penali”.
In conclusione è stato, dai due eminenti giuristi, argomentato che un sistema come questo non potrebbe funzionare e rispettare i principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico fino a quando una chiara definizione di questi crimini non venga proposta.
In aggiunta a ciò, v’è da dire che quello italiano, purtroppo, è un “sistema penale” frequentemente sotto pressione; pressioni dovute ad incessanti annunzi di riforme ed ad uno scontro politico che fa della giustizia, quella penale soprattutto, terreno aspro di battaglia; tutto ciò rende tale quadro instabile e di difficile definizione per l’osservatore che vi si affacci.
Un sistema pur dotato (almeno sulla carta) di un alto livello di garanzie che si scontra quotidianamente con le difficoltà prodotte da una non “perfetta” organizzazione della macchina giudiziaria.
L’attuale configurazione è il risultato della coesistenza di un codice penale che è entrato in vigore nel 1930 e di un codice di procedura penale che, in vigore dal 1989, è stato sin dal suo esordio sottoposto a continue opere di riforma.
Il cuore dei diritti fondamentali e delle garanzie processuali è però presente nella Carta Costituzionale alla quale la legislazione ordinaria, e quindi i due codici, deve conformarsi ed adeguarsi.
Questi codici, entrambi, sono stati costantemente vagliati ed interpretati dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale e dall’altrettanto incisiva
[12] giurisprudenza della Corte di Cassazione.
Il codice di procedura penale rappresenta un modello abbastanza originale e prevalentemente accusatorio (mentre la più parte dei modelli processuali continentali sono di stampo inquisitorio, seppur corretto); molte delle disposizioni ivi contenute si rifanno però al “comune”
[13] modello del “giusto processo” (
due process of law) come delineato ed interpretato dalla Corte Europea dei Diritti Umani il cui impatto sul nostro ordinamento è stato ed è assai rilevante
[14].
La riforma costituzionale
[15] del 1999 ha definitivamente inserito nell’articolo 111 della Costituzione una disposizione riguardante l’uguaglianza processuale delle parti e la formula del “giusto processo” come emergente proprio dall’interpretazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Un altro importante elemento che contribuisce a rendere abbastanza peculiare, se non anomalo, il modello accusatorio italiano è l’organizzazione dell’ ordinamento giudiziario e la sussistenza di carriere unificate (e quindi anche di una medesima selezione) per giudici e pubblici ministeri.
2.la rivoluzione di Schengen
Nella storia della collaborazione di stampo intergovernativo, un posto di particolare rilievo è ricoperto dalla “rivoluzione” di Schengen.
Com’è noto, il 14 giugno 1985, la Francia, la Germania ed i Paesi del Benelux hanno firmato, a Schengen, un accordo sulla soppressione dei controlli sulle persone alle frontiere interne.
L’Italia ha aderito all’acquis nel 1990 e l’ha ratificato nel 1993, con la Legge n. 388 del 30 settembre; tuttavia, la Convenzione è a “regime” solo dal 1998.
Secondo la Dottrina quasi unanime, l’esigenza di una “transnazionalità” della giustizia si è fatta più incalzante proprio a seguito delle innovazioni apportate dai Patti di cui sopra.
Le novità di cui si parla hanno aperto le frontiere europee a persone, beni e denaro, permettendo, così, una più rapida ed agevole circolazione di traffici, purtroppo, non sempre leciti.
I criminali ben potevano, in questo ambiente normativo, sfuggire alla giustizia o, quanto meno, scegliere quella a loro più conveniente, andandosi a rifugiare negli Stati in cui le condotte antigiuridiche assunte venivano perseguite nel modo meno severo.
Ci si è resi presto conto che, alla circolazione di beni, denaro e persone, se ne doveva abbinare una, altrettanto semplificata, di indagini di polizia, decisioni giudiziarie e prove
[16].
Quanto alla materia dell’estradizione, secondo alcuni Autori, non si è addivenuti a sostanziali modifiche della disciplina precedente, ma ci si è limitati ad integrarla, mediante un completamento degli strumenti pattizi già esistenti
[17], accorciando, certamente, i tempi di consegna, ma sempre restando nell’ambito delle vecchie procedure.
Dunque, all’abolizione dei controlli alle frontiere (interne, tra gli Stati firmatari), si accompagna una serie di misure c.d. compensative, volte a fronteggiare quel “deficit di sicurezza” determinato dal nuovo sistema dei rapporti internazionali (particolarmente in tema di cooperazione tra le forze di polizia e di assistenza giudiziaria in materia penale).
La più interessante novità introdotta dalla Convenzione Schengen riguarda la creazione del Sistema di Informazione di Schengen (S.I.S.), dal momento che, ai sensi dell’articolo 64, una segnalazione effettuata tramite il suddetto strumento equivale ad una richiesta di arresto provvisorio ai fini estradizionali (ex articolo 16 Conv. 1957).
Il S.I.S. è un
database composto da un’unità centrale (C-S.I.S.), con sede a Strasburgo e da tante sezioni nazionali (N-S.I.S.), quanti sono gli Stati aderenti
[18].
Dal momento che una richiesta di arresto tramite S.I.S. equivale, oggi, ad un mandato d’arresto europeo, ci si sofferma, in questa sede, per una breve descrizione.
Attualmente, è utilizzato da quindici Stati
[19], tra cui l’Italia.
Si diceva che si tratta di una “banca dati di polizia”, ciò significa che viene utilizzata, dagli operatori della polizia dei vari Stati, per diffondere le richieste di arresto di un soggetto e le relative informazioni.
L’ufficio, nell’ambito della Polizia di Stato, deputato ad inserire i dati nel sistema è il S.I.RE.N.E.
[20], il quale riceve le segnalazioni estere dagli omonimi colleghi stranieri e quelle provenienti dall’Italia, dai Ministeri della Giustizia e degli Interni.
La schermata principale del S.I.S. si suddivide in due parti.
Nella metà superiore, il Paese inserisce i dati del soggetto da arrestare, la reason (motivazione) della richiesta (ad es. “richiesta di arresto estradizionale ex articolo 95 Schengen”) e la action (azione) che ogni poliziotto, dislocato sul territorio di ogni Nazione deve, di conseguenza, intraprendere (ad es. “arresto provvisorio ai fini estradizionali”).
Nella metà inferiore, è presente una finestra per ogni Stato parte, in cui ciascun Paese può, eventualmente, inserire la “flag di validità”, un segnale indicante la decisione di non arrestare la persona, per una causa che, secondo l’ordinamento interno, osta alla consegna (per l’Italia: cittadinanza italiana del soggetto, ne bis in idem e prescrizione del reato).
Si noti che, nella sede italiana dell’Ufficio S.I.RE.N.E., non è presente un’autorità giudiziaria (contrariamente a quanto avviene negli altri Paesi); ciò non comporta particolari problemi in sede di estradizione tradizionale, poiché i tre requisiti di cittadinanza del soggetto, ne bis in idem e prescrizione possono essere facilmente valutati dalla Polizia, di concerto con il ministro della Giustizia; si consideri però che, nell’ambito del mandato d’arresto europeo, la suddetta valutazione riguarda tutte le cause di rifiuto obbligatorio della consegna e, per alcune di esse, può essere necessaria la particolare perizia di un operatore giudiziario.
Un’altra interessante innovazione risiede nell’articolo 66, il quale regola le ipotesi di estradizione c.d. “semplificata”.
In virtù di tale norma, se l’estradizione di una persona non è manifestamente vietata dal diritto della Parte richiesta, quest’ultima potrà autorizzarla, senza la procedura formale, purché vi sia il consenso, reso davanti al magistrato competente, del soggetto.
A tale fine, l’estradando dovrà essere adeguatamente informato di tutte le conseguenze della sua scelta, nonché del suo diritto all’instaurazione della procedura formale.
In conclusione, si può ben ritenere che la disciplina introdotta dagli Accordi di Schengen abbia dato una prima concretezza alle intenzioni degli Stati di collaborare, in maniera più profonda ed efficace, anche nel settore penale-giudiziario.
3.il Trattato di Amsterdam
Rispetto ai significativi, ma non decisivi, passi avanti compiuti dall’Unione, in materia estradizionale, la svolta decisiva, nel rafforzamento della cooperazione nel settore penale, è venuta dal Trattato di Amsterdam del 1997, entrato in vigore il 1 maggio 1999, il quale ha profondamente modificato il Trattato sull’Unione Europea, soprattutto nelle parte Giustizia ed Affari Interni.
L’articolo 3 del T.U.E. prevede, tra i nuovi obiettivi dell’azione dell’Unione, il raggiungimento di uno “spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima”.
L’idea dello spazio è stata, successivamente ed a più riprese, esplicata e sviluppata.
Secondo quanto sancito dai Ministri della Giustizia e degli Interni (dei paesi membri), nel Piano d’azione del 1998, le tre nozioni (libertà, sicurezza e giustizia) vanno considerate strettamente legate tra loro, in quanto “la libertà perde fortemente di significato se essa non può essere vissuta in un ambiente sicuro e senza un sistema giudiziario che riscuota la fiducia dei cittadini dell’Unione e delle persone che vi risiedono”.
Partendo da questa premessa, si è stabilito che ogni azione dell’Unione deve realizzare un “giusto equilibrio” tra queste nozioni indissociabili.
Il concetto di libertà è inteso, dal Trattato di Amsterdam, non solo come mera facoltà di circolazione delle persone all’interno dell’Unione, sulla scia di quanto già era stato stabilito a Schengen, ma anche come
“libertà di vivere in un contesto di legalità”, nel quale le autorità pubbliche dei Paesi membri utilizzano, separatamente o insieme, tutti i mezzi disponibili per contrastare l’azione di chi cerca di negare tale libertà o di abusarne
[21].
Le strade, a tal fine, tracciate dal Trattato sono due: la semplificazione delle procedure di cooperazione giudiziaria e l’armonizzazione “ove necessario” delle normative nazionali.
A sorpresa, scompaiono, dal Trattato, le “azioni comuni”; il loro posto viene occupato, per il ravvicinamento delle normative nazionali, dalle “decisioni quadro”.
Sullo strumento “decisione quadro”, vale la pena soffermarsi un attimo, poiché dalla natura giuridica che, ad esso, si attribuisce, dipendono questioni quali i rimedi contro l’inadempimento, la competenza della Corte di Giustizia, la maggiore o minore discrezionalità dei Paesi in ordine alle forme ed ai mezzi predisposti per l’attuazione, e così via.
La lettera del comma 2 punto b) sembra parlare chiaramente: si tratta di un atto costituente un obbligazione “di risultato”, privo di efficacia diretta e bisognoso, pertanto, di una legge di attuazione da parte di ogni Stato membro.
Ci si permetta, però, qualche piccola riflessione dubitativa, partendo dal presupposto che, per definire la natura giuridica di un atto, si deve guardare non la forma in cui è stato emanato, bensì il suo contenuto
[22]; si constata che tale atto può essere obbligatorio in tutti i suoi elementi e può essere tanto dettagliato da non necessitare una norma attuativa interna; dunque ben si potrebbe immaginarne di attribuire, ad una decisione quadro, un’applicabilità diretta, ove la si potesse paragonare “sostanzialmente” ad un regolamento o ad una direttiva particolareggiata emessa secondo l’articolo 94 del Trattato Istitutivo della Comunità Europea
[23].
Si aggiunga che, in una recente sentenza, la Corte di Giustizia ha categoricamente affermato il principio secondo il quale le decisioni quadro devono essere tenute presenti, dai giudici nazionali, nel momento in cui questi applicano la loro legge interna; nel senso che quest’ultima deve essere interpretata in maniera conforme alla lettera ed allo spirito della decisione quadro, nel cui ambito rientra
[24].
É possibile ritenere che il Trattato di Amsterdam, pur non potendone disconoscere le innovazioni apportate, sul piano istituzionale, al terzo pilastro, ha deluso gli entusiasmi di un’effettiva integrazione delle istituzioni comunitarie nel settore.
Sotto l’aspetto sostanziale, ha suscitato particolare interesse il profilo relativo all’armonizzazione delle legislazioni, il quale, per la prima volta, diventa obiettivo dell’Unione.
Si è inteso, così, superare i tradizionali sistemi di cooperazione giudiziaria, caratterizzati da eccessiva lentezza ed incertezza di risultati, al fine di una maggior garanzia di circolazione delle decisioni penali.
Inoltre, gli entusiasmi di cui sopra sono stati ben più che mitigati dalla successiva presa di coscienza dell’inattuabilità sia di un diritto penale “unico”, che dell’armonizzazione dei diritti penali nazionali; sarà questa consapevolezza a indirizzare le energie verso le più percorribili strade della reciproca fiducia e del mutuo riconoscimento
[25].
4.la Decisione Quadro
L’accordo sull’euromandato si è raggiunto nel dicembre 2001, presso il Consiglio Europeo di Laeken
[26].
In questa sede, il nuovo strumento di collaborazione è stato inscritto tra le misure ritenute necessarie per l’attuazione degli impegni assunti dall’Unione; si è così proposto, finalmente, uno strumento alternativo alla vecchia estradizione
[27].
Nonostante l’intervenuto accordo, la redazione formale del testo è potuta avvenire solo a metà 2002, una volta venute meno le riserve, a lungo mantenute, di almeno cinque Stati (Regno Unito, Irlanda, Danimarca, Svezia ed Olanda).
Così, in occasione del Consiglio G.A.I. di Lussemburgo, il 13 giugno del 2002 è stata approvata la Decisione quadro n. 584 relativa al mandato d’arresto europeo ed alle procedure di consegna tra gli Stati membri
[28].
Da una rapida analisi della Decisione quadro, si nota che le innovazioni cardine si possono individuare nella sostituzione (finalmente) della vecchia procedura estradizionale con una nuova, di natura puramente giudiziaria, affidata esclusivamente a tale autorità e finalizzata alla consegna di un soggetto ricercato o condannato; l’abbandono del ruolo decisionale dell’Esecutivo si traduce, così, nel venir meno di ogni discrezionalità politica, affidando alle “autorità centrali” soprattutto compiti di assistenza pratica ed amministrativa.
Cambiano, di conseguenza, gli adempimenti cui sono tenuti sia lo Stato emittente che quello di esecuzione.
Quanto al primo, mentre nella disciplina classica la richiesta di estradizione e la richiesta di detenzione provvisoria costituiscono due passaggi distinti (si confrontino l’articolo 16 della Convenzione europea di estradizione e l’articolo 716 c.p.p.), ora esse risultano accorpate, così che l’emissione del provvedimento implica una contestuale domanda di arresto e di consegna.
In questo senso, infatti, si esprime la relazione accompagnatoria della Decisione quadro: “[…] non vi è più motivo di distinguere queste due fasi […] in applicazione del principio del riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie […]”.
Dunque all’emissione di un mandato, segue l’obbligo, per lo Stato di esecuzione, sia di attivarsi per l’arresto della persona, che di consegnarla
[29].
Quanto al Paese che riceve il mandato, alle competenti autorità giudiziarie spettano tre decisioni:
1. la convalida dell’arresto, per il mantenimento dello status custodiae, una volta intervenuto l’arresto del ricercato;
2. la decisione sull’esecuzione del mandato, la quale può o deve essere rifiutata nei casi prescritti dalla Decisione stessa;
3. (in caso di assenza di motivi ostativi all’esecuzione) la decisione sulla consegna della persona, in conseguenza di una disamina sull’eventuale presenza di fattori impeditivi o ritardanti il
trasferimento.
L’articolo 1 della Decisione quadro definisce il mandato d’arresto europeo, estendendone la portata, come si diceva, anche ai soggetti sui quali ancora non grava una sentenza definitiva di condanna; si ribadisce, inoltre, l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali.
Si sottolinea l’affermazione, di cui al comma 2, secondo la quale “gli Stati danno esecuzione al mandato […] conformemente alle disposizioni della presente Decisione quadro”; in essa si scorge la funzione di regola dell’esecuzione del mandato e quella di eccezione del rifiuto del medesimo; ciò dovrebbe escludere, visto anche l’esplicito riferimento al mutuo riconoscimento, qualsiasi controllo di merito sull’esecuzione.
Riguardo all’ambito di applicazione dello strumento, l’articolo 2
[30] abbraccia tutti i reati puniti, ai sensi della legislazione dello Stato emittente, con una pena non inferiore (nel massimo) a dodici mesi ovvero, in caso di condanna, non inferiore a quattro mesi, riprendendo i parametri di cui all’articolo 2 della Convenzione del 1957. Si prosegue dunque, salvi i reati di cui si dirà, sulla strada dell’irrilevanza del titolo del reato, contando solo la qualità e quantità della misura punitiva inflitta
[31].
Il comma 2 crea, successivamente, una “lista positiva” di 32 fattispecie di reato (particolarmente gravi), per le quali, a condizione che siano punite con pena (o misura restrittiva della libertà personale) non inferiore nel massimo a 3 anni, si prevede la non applicabilità della regola della doppia incriminazione
[32].
Si supera così uno dei più tradizionali ostacoli all’estradizione, espressione tipica della tutela apprestata da ciascun Stato al monopolio della competenza in tema di qualificazione dei fatti, in esso, penalmente rilevanti.
Sul principio della doppia incriminabilità si rileva che la scelta di limitare la presente evoluzione ai soli reati della lista, è stata di compromesso.
Infatti, l’iniziale Proposta di Decisione quadro della Commissione prevedeva il generalizzato abbandono della regola in esame; la rigidità di tale approccio, in riferimento alla sensibilità di alcuni Paesi, in ordine a determinati fatti (aborto, eutanasia, consumo di droghe leggere, ecc…), trovava temperamento nella possibilità di prevedere, da parte di ciascun Ordinamento, una “lista negativa” di reati, per i quali avrebbe negato la consegna per la ritenuta contrarietà ai propri principi fondamentali.
L’elemento di maggiore novità, come detto, si sostanzia nella completa “giurisdizionalizzazione” della procedura di trasferimento: si pone da parte la discrezionalità del Ministro della Giustizia (Autorità Centrale italiana) e si concede alle sole autorità giudiziarie l’esclusiva del controllo sui requisiti per l’esecuzione del mandato, guidandone le decisioni attraverso la redazione di una lista tassativa di ipotesi in cui le richieste possono (art. 3
[33]) o devono (art. 4
[34]) essere disattese.
Tali ipotesi sono, in sostanza, connesse al mancato rispetto della regola di ne bis in idem, alla concessione di un’amnistia nello Stato di esecuzione ed all’esistenza di un legame giuridico tra quest’ultimo ed il reato per il quale è emesso il mandato.
L’articolo 5 disciplina dei casi che, nell’ambito dell’estradizione, sono sempre stati ritenuti “critici”.
In particolare, il comma 3 supera il tradizionale divieto, baluardo della salvaguardia della sovranità statale, di estradizione del cittadino, consentendo, allo Stato richiesto, di subordinarne la consegna alla condizione che gli venga restituito, dopo essere stato ascoltato, per l’applicazione della (eventuale) pena nel Paese di residenza; ciò anche ai fini di una migliore rieducazione.
La Decisione quadro costituisce anche l’epilogo dei reati politici volatilizzando la possibilità di rifiutare l’esecuzione del mandato per questi reati.
Secondo alcuni Autori, scompare anche, tra i motivi di rifiuto, la c.d. “clausola di non discriminazione”
[35], la quale impedisce di adempiere all’euromandato se vi sono motivi di ritenere che questo sia stato emesso al fine di perseguire una persona per scopi legati a considerazioni di razza, religione, nazionalità, ecc…
La legge di attuazione italiana, però, disattenderà questa tesi.
Il mandato d’arresto europeo, è la prima concretizzazione (nel settore penale) del principio del mutuo riconoscimento, che il Consiglio Europeo ha definito il nuovo fondamento della cooperazione giudiziaria.
Dunque, non esiste più l’estradizione classica, la quale poggia su rapporti intergovernativi di natura sostanzialmente politica e si incentra sui principi tesi a tutelare soprattutto gli interessi degli Stati, attraverso il principio della doppia incriminazione, la regola della specialità, il divieto di estradizione dei cittadini e dei rei di illeciti politici.
In questo senso, si può ben dire che l’estradizione è stata abolita.
Tuttavia, siamo ancora nell’ambito dell’estradizione se, con questo termine, ci si riferisce al senso profondo ed alla finalità propri dell’istituto, ossia la consegna da parte di una giurisdizione sovrana, ad un’altra giurisdizione sovrana, di una persona ricercata per fini di giustizia; del resto, permane sia, in generale, la regola della specialità che, limitatamente ai reati al di fuori della lista dell’articolo 2 comma 2, la verifica della doppia incriminabilità.
5.la legge di attuazione
Con la Legge n. 69 del 22 aprile 2005, l’Italia ha adottato le disposizioni necessarie a conformare il diritto interno alla Decisione quadro relativa al Mandato d’Arresto Europeo ed alle procedura di consegna tra gli Stati membri
[36].
Il nostro è stato l’ultimo Paese membro a dare attuazione alla Decisione, ponendo fine, così, ad un ritardo durato oltre quindici mesi; il termine ultimo era infatti il 31 dicembre 2004.
L’articolo 1, anzitutto, definisce il mandato d’arresto europeo come una “decisione giudiziaria” emessa da uno Stato membro (c.d. “di emissione”), in vista dell’arresto e della consegna di una persona, da parte di un altro Stato membro (c.d. “di esecuzione”).
La norma specifica che l’attuazione della Decisione quadro deve avvenire nei limiti della compatibilità dei principi supremi della Costituzione, in tema di diritti fondamentali, diritti di libertà e di giusto processo.
Risulta, in questo modo, invertita la gerarchia delle fonti normative, tradizionalmente incentrata sulla regola della prevalenza del diritto comunitario, seppur nel rispetto dei “controlimiti”, che la Corte Costituzionale ha individuato (nella storica sentenza n. 98 del 27 dicembre 1965), nei “principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale” e nei “diritti inalienabili della persona umana”.
Il comma 3 dell’articolo 1 indica un presupposto generale per l’esecuzione, in Italia, dei mandati emessi ai fini cautelari, richiedendo che i provvedimenti su cui essi si basano siano motivati e sottoscritti da un giudice.
In questo modo si pongono, a carico dello Stato emittente, degli obblighi non contemplati nella Decisione quadro e di dubbia compatibilità con il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie, minando le fondamenta di tutto l’impianto su cui la nuova disciplina si erige
[37].
Quanto alla sottoscrizione, da parte del giudice, del provvedimento alla base del mandato, essa non è prevista dalla Decisione quadro, di cui l’articolo 8 comma 1 lettera
c) fa riferimento, soltanto, alla necessaria indicazione, nell’eurordinanza, dell’esistenza di una sentenza esecutiva, di un mandato di cattura o di qualsiasi altra decisione giudiziaria equipollente
[38].
L’articolo 6 della l. 69/2005 intitolato “
Contenuto del mandato d’arresto europeo nella procedura passiva di consegna” prevede, al comma 1, le informazioni che devono essere in esso riportate, ricalcando esattamente l’elenco previsto dall’articolo 8.1 D.Q.
[39]. Il comma due prevede la possibilità, qualora le informazioni di detto elenco (con l’esclusione di quelle relative all’autorità emittente) non siano presenti nel Mandato ricevuto, di procedere ai sensi dell’articolo 16 per ottenere l’integrazione dei dati mancanti. É anche prevista la possibilità di procedere in tal modo per l’acquisizione di ulteriori elementi ritenuti necessari per la verifica della sussistenza di eventuali cause di rifiuto della consegna (ex art. 18), oltre che per quella relativa alle garanzie richieste allo Stato d’emissione cui lo Stato italiano può subordinare la consegna ex art. 19 l. 69/2005. É interessante osservare come, la legge di recepimento, integri a tal proposito una prima discrepanza con la Decisione Quadro che, all’articolo 15 paragrafo 2, prevede la richiesta di informazioni integrative solamente in riferimento agli articoli 3, 4, 5 ed 8 in essa contenuti (ed ai quali si rimanda) mentre, la legge di recepimento italiana, ponendo il riferimento al suo articolo 18, allarga l’ambito di tale richiesta, in quanto nel lungo elenco in esso contenuto, sono presenti ipotesi non contemplate nell’atto europeo
[40].
Il comma 3 contiene una disposizione molto controversa in quanto in palese difformità con quanto stabilito in sede europea. Si afferma infatti che la consegna è consentita, ove ne ricorrano i presupposti, solamente se, allegata alla relativa richiesta, vi sia copia del provvedimento restrittivo della libertà personale o della sentenza di condanna a pena detentiva su cui si basa la richiesta medesima, riproponendo quanto era previsto nel sistema estradizionale precedente.
Innanzitutto si può rilevare una palese mancanza in tale disposizione, il cui esclusivo richiamo ad una “sentenza di condanna a pena detentiva” esclude le sentenze di proscioglimento che infliggono misure di sicurezza restrittive della libertà personale e che, come si può ricavare dall’articolo 1 comma 2
[41], possono essere poste a base di un Mandato d’Arresto Europeo
[42].
Sia l’articolo 8 che l’allegato alla D.Q. predisposto in sede europea come modello di Mandato, prevedono solamente “l’indicazione” del provvedimento in questione, così come riportato letteralmente dal comma 1 punto
c) dell’articolo in esame, non prevedendo che esso vada allegato al M.A.E.. Questo in base anche ai connotati stessi che la natura giuridica del nuovo provvedimento sta assumendo, venendo considerato un nuovo tipo di decisione giudiziaria (
eurordinanza) in cui la decisione sulla richiesta di cattura e di consegna si basa sulle informazioni previste nella Decisione Quadro relativa. La necessità dell’allegazione del provvedimento posto a base del Mandato potrebbe a dire il vero interpretarsi come necessaria per la verifica relativa alla motivazione del provvedimento cautelare, secondo il combinato disposto dell’articolo 1 con l’articolo 18 lettera
t)
[43], oltre che come sussidio alla verifica della firma del provvedimento a monte da parte di un giudice e della definitività della sentenza, secondo quanto riscontrato nelle disposizioni di principio della legge
[44].
Oltre che il provvedimento appena esaminato, alla richiesta andranno allegate anche “una relazione sui fatti addebitati alla persona della quale è domandata la consegna, con l’indicazione delle fonti di prova, del tempo e del luogo di commissione dei fatti stessi e della loro qualificazione giuridica” (punto a), “il testo delle disposizioni di legge applicabili, con l’indicazione del tipo e della durata della pena “(punto b), “i dati segnaletici ed ogni altra possibile informazione atta a determinare l’identità e la nazionalità della persona della quale è domandata la consegna” (punto c). Queste disposizioni ricalcano il secondo comma dell’articolo 700 c.p.p. il quale, nel sistema precedente, stabiliva quali fossero gli allegati necessari che lo Stato richiedente doveva presentare insieme alla richiesta di estradizione.
La parte più controversa di queste disposizioni è certamente quella riguardante la relazione su quanto addebitato al soggetto. Innanzitutto tale relazione è in parte ripetitiva di quanto già contenuto nel Mandato stesso, secondo il punto
e) dell’articolo 6 comma 1 (
descrizione delle circostanze della commissione del reato, compresi il momento, il luogo e il grado di partecipazione del ricercato), inoltre andrà allegata solo a quelle richieste emanate per l’esercizio di un’azione penale, in quanto l’inerenza ai “fatti addebitati” non consente una sua estensione alle sentenze definitive di condanna. Rispetto all’articolo 700 c.p.p. la legge 69/2005 richiede anche l’indicazione delle “fonti di prova”, cosa che nel sistema precedente si rendeva necessaria solamente per i casi di estradizione in assenza di Convenzione, per consentire alla Corte d’Appello la verifica dei “gravi indizi di colpevolezza” necessaria per la decisione in base all’articolo 705 del nostro codice di rito. Il legislatore, in questo modo, parrebbe aver dato seguito alle osservazioni della Commissione affari costituzionali che, nel parere del 30 novembre 2003 sulla proposta di legge allora in discussione, sottolineava come la consegna sulla base della “mera presunta commissione del fatto” od in base ad un Mandato “sprovvisto di motivazione” fosse costituzionalmente incompatibile
[45]. In questo modo si è però perso di vista il fatto che, nell’sistema estradizionale tra i Paesi dell’UE, basato sulla Convenzione europea di estradizione del 1957, non era previsto l’esame degli indizi di reità posti a base dell’emissione del titolo estradizionale (art. 12, comma 2, lettera
a) ne era prevista l’applicazione dell’articolo 273 c.p.p., che lo prevede per l’emissione delle misure cautelari, per l’espressa esclusione imposta dal medesimo codice al comma 2 dell’articolo 714. Rendendosi necessario solamente l’accertamento dell’identità del soggetto da estradare e, tramite l’esame degli atti inviati dallo Stato richiedente, l’esistenza del titolo su cui si fonda la richiesta
[46], così come ricordato dalla Corte di cassazione in tema di Mandato d’Arresto Europeo
[47].
I punti b) e c), pur riprendendo le disposizioni del sistema precedente, appaiono meno problematici in quanto sembrano adattarsi anche al nuovo sistema del M.A.E.. L’allegazione delle disposizioni di legge applicabili con l’indicazione del tipo e della durata della pena, oltre che essere dati previsti dal citato allegato alla Decisione Quadro e, per quel che riguarda la pena, rientranti anche tra le informazioni presenti nel Mandato stesso ( pena inflitta, se vi è una sentenza definitiva, ovvero, negli altri casi, pena minima e massima stabilita dalla legge dello Stato di emissione), risulteranno necessarie alla Corte d’Appello per lo svolgimento di quel “controllo sufficiente” previsto dal testo europeo che, necessariamente, si baserà anche sulla scienza penalistica e sulle leggi dello Stato richiedente, oltre che per verificare se il caso in esame rientri o meno nel campo d’applicazione previsto dall’articolo 2 D.Q. e recepito agli articoli 7 ed 8 della legge 69/2005.
La trasmissione di tutti questi documenti, ed in particolare quella delle fonti di prova, unitamente a quelli che potrebbero essere eventualmente richiesti ai sensi dell’articolo 16, in relazione ad esempio alla valutazione dell’incidenza delle aggravanti (articolo 7 co 3), della valutazione dei gravi indizi di colpevolezza (articolo 17 co. 4) o della valutazione di eventuali scriminanti (articolo 18 co. 1), vista nell’ottica dello Stato richiedente, potrebbe essere problematica qualora il procedimento si trovasse in una fase in cui detti atti fossero ancora coperti da segreto istruttorio.
La legge, riguardo la presenza dei dati richiesti dal comma 1 e delle allegazioni appena viste, è estremamente rigorosa prevedendo, nel primo caso, che, nell’ipotesi di una loro mancanza, ai sensi dell’articolo 16, l’autorità giudiziaria possa richiederle allo Stato membro d’emissione, direttamente o tramite il Ministero della Giustizia, fissando un termine non superiore a 30 giorni per la loro ricezione. In caso questa non avvenga viene prevista l’applicazione del comma 6 dell’articolo 6 il quale afferma che “Se l’autorità giudiziaria dello Stato membro di emissione non dà corso alla richiesta del Ministro della giustizia … la corte di appello respinge la richiesta”. Analogo procedimento avverrà quindi anche per le richieste inerenti all’acquisizione di elementi utili alla verifica dei casi previsti dagli articoli 18 e 19.
Nonostante si parli di “richiesta respinta” ci si trova in presenza di una causa di inammissibilità sopravvenuta per mancanza di condizioni formali che, come si evince dal testo, blocca ogni accertamento di merito. Nel secondo caso, il procedimento di richiesta è regolato dall’articolo 6 comma 5 e prevede che “Se lo Stato membro di emissione non provvede, il presidente della corte di appello o il magistrato da questi delegato richiede al Ministro della giustizia l’acquisizione del provvedimento dell’autorità giudiziaria in base al quale il mandato d’arresto europeo è stato emesso, nonché la documentazione di cui al comma 4, informandolo della data della udienza camerale fissata. Il Ministro della giustizia informa l’autorità giudiziaria dello Stato membro di emissione che la ricezione del provvedimento e della documentazione costituisce condizione necessaria per l’esame della richiesta di esecuzione da parte della corte di appello. Immediatamente dopo averli ricevuti, il Ministro della giustizia trasmette al presidente della corte di appello il provvedimento e la documentazione unitamente ad una loro traduzione in lingua italiana ”. L’espressione con cui si afferma che detta documentazione è condizione necessaria per l’esame della richiesta, a prima vista potrebbe far pensare che, fino al momento in cui detti atti non vengano ricevuti, ogni indagine resti sospesa. L’applicazione, alle ipotesi del co. 5, di quanto contemplato nel co. 6, come espressamente previsto da quest’ultimo, non lascia però dubbi sulla sorte che la richiesta avrà anche in questo caso, stabilendo un’analogia, in caso di mancanza di informazioni e di allegati che, altrimenti, avrebbe potuto comportare illogiche distinzioni nell’applicazione di misure coercitive in attesa della decisione sulla consegna.
Con una scelta “unica”, poi, nel panorama europeo delle leggi di attuazione del nuovo sistema di consegna “non estradizionale” introdotto dalla Decisione quadro, la disposizione di cui all’art. 18, lett. e), l. n. 69 del 2005 delinea un motivo di rifiuto inerente all’omessa previsione, nella normativa dello Stato emittente, di limiti massimi alla carcerazione preventiva, stabilendo che la Corte d’appello deve rifiutare la consegna di una persona colpita da un’eurordinanza quando il provvedimento giudiziario che ne è “a monte” ha natura cautelare e la legislazione dello Stato emittente non preveda limiti massimi di carcerazione preventiva.
Ponendosi in una prospettiva esclusivamente “domestica”, il legislatore nazionale non sembra aver ponderato con sufficiente attenzione il rilievo per cui anche gli altri ordinamenti europei prevedono strumenti e meccanismi di verifica volti ad evitare l’indebito protrarsi della privazione della libertà personale in corso di procedimento, sulla stregua di soluzioni normative e tecniche di controllo giudiziale diversamente modulate secondo la specificità dei vari sistemi, eppure dotate di altrettanta efficacia rispetto alla ratio ed alla finalità di tutela del bene supremo della libertà personale.
Stabilire, infatti, una verifica periodica da parte dell’autorità giudiziaria consente, forse anche meglio di un sistema ancorato alla rigida previsione di limiti massimi, di salvaguardare il principio della ragionevole durata della custodia preventiva, bilanciando, con sequenze temporali continue e ravvicinate, il controllo della persistenza e del grado d’intensità delle esigenze cautelari con l’attualità e l’ampiezza dell’eventuale sacrificio dello status libertatis (ad es., in Germania, Belgio, Svezia, Finlandia, ecc., le cui legislazioni, pur non contemplando direttamente un limite massimo di durata della custodia preventiva, ne consentono un controllo continuativo e periodico attraverso specifici meccanismi processuali).
In conclusione dall’analisi della legge, alla luce delle difformità con la Decisione Quadro ivi riscontrate, emerge che, tramite essa, il legislatore italiano ha introdotto un’autentica fase preliminare della procedura di consegna. Tale fase, essendo rivolta alla verifica delle condizioni formali previste per il M.A.E., oltre che a verificare la presenza della documentazione allegata ad esso ai sensi della legge italiana, consente l’acquisizione delle informazioni integrative necessarie, in caso di eventuali mancanze, e comporta, nel caso di esito negativo delle relative domande, il rigetto della richiesta. Nel caso invece si riscontri la presenza di quanto previsto o, nel caso in cui lo Stato membro d’emissione provveda alle eventuali integrazioni nei tempi prescritti, detta fase si concluderà con il passaggio alla successiva fase del controllo di merito sulla richiesta.
6.l’“eurordinanza” alla prova dei fatti
A soli pochi mesi dall’entrata in vigore della Legge 22 aprile 2005, n. 69, la Suprema Corte ha già iniziato a tracciare le prime linee di orientamento su alcuni profili centrali dell’applicazione del Mandato d’arresto europeo, fornendo in particolare un’interpretazione logico-sistematica delle disposizioni relative ai presupposti dei gravi indizi di colpevolezza e della motivazione del provvedimento cautelare «a monte» del mandato d’arresto
[48].
Con la pronuncia n. 33642 del 13-14 settembre 2005 (ric. Hussain Osman) la S.C. ha statuito, sulla base di passaggi argomentativi del tutto condivisibili e pienamente in linea con la lettera e lo spirito della decisione quadro, i seguenti principi generali:
1) che la disposizione di cui all’art. 17, comma 4, L. n. 69 del 2005, nel prevedere che la Corte d’Appello pronunci sentenza con cui dispone la consegna del ricercato se «sussistono gravi indizi di colpevolezza», va interpretata alla luce dell’art. 9 della stessa legge, che esclude espressamente nella materia in questione l’applicabilità delle disposizioni contenute negli artt. 273, commi 1 e 1bis, 274, comma 1, lett. a) e c), e 280 c.p.p., con la conseguenza che l’autorità giudiziaria italiana non è tenuta ad effettuare una nuova pregnante valutazione delle esigenze cautelari e delle fonti di prova su cui si basa il mandato, analogamente a quella spettante nell’ordinamento interno al Tribunale del riesame;
2) che le informazioni integrative che la Corte d’Appello può richiedere allo Stato emittente, ex artt. 6, comma 2, e 16, comma 1, L. n. 69 del 2005, ai fini della decisione sulla consegna, sono quelle già in possesso di quest’ultimo, dovendosi ritenere incompatibile con il principio di sovranità degli Stati membri e con gli stessi tempi della procedura di consegna, una richiesta volta all’acquisizione, nello Stato membro di emissione, di mezzi di prova non assunti o non ancora assunti, nell’ambito della relativa procedura (nella specie, si trattava dell’espletamento di una perizia sulla idoneità offensiva di esplosivi in sequestro);
3) che la clausola di non discriminazione, prevista quale motivo di rifiuto della consegna nella disposizione di cui all’art. 18, comma 1, lett. a), della l. n. 69 del 2005, deve risultare da circostanze specifiche ed oggettive, sulla cui base possa ritenersi la presenza di un pregiudizio effettivo per la posizione della persona ricercata, in relazione ad uno dei motivi ivi espressamente enunciati. Nella pronuncia n. 34355 del 23-26 settembre 2005 (ric. Petre), inoltre, la S.C., muovendosi sulla stessa linea ermeneutica già indicata, ha opportunamente precisato ed integrato la sostanza del proprio indirizzo, affermando in particolare i seguenti principi:
a) che la nuova legge italiana di attuazione della decisione quadro sul mandato d’arresto europeo non può essere interpretata nel senso che abbia inteso prescrivere un controllo da parte dell’autorità richiesta più penetrante rispetto a quello previsto dalla Convenzione europea di estradizione, se non nei ristretti limiti eventualmente ricavabili da espresse previsioni della decisione quadro (in particolare, il considerando n. 12, seconda parte, e gli artt. 3 e 4);
b) che per quanto attiene alla riconoscibilità «dei gravi indizi di colpevolezza», quale indefettibile «ragione» sottostante all’emissione di un mandato d’arresto da parte di un altro Paese dell’Unione europea, l’autorità giudiziaria italiana si deve limitare a verificare che il mandato sia, per il suo contenuto intrinseco o per gli elementi raccolti in sede investigativa o processuale, fondato su un compendio indiziario che l’autorità emittente ha ritenuto seriamente evocativo di un fatto reato commesso dalla persona di cui si chiede la consegna;
c) che il presupposto della motivazione del mandato d’arresto, cui è subordinato l’accoglimento della domanda di consegna ex artt. 1, co. 3, e 18, co. 1, lett. t), l. n. 69 del 2005, non può essere parametrato alla nozione ricavabile dalla tradizione giuridica italiana, dovendosi ritenere necessario che l’autorità di emissione dia «ragione» del mandato d’arresto, ciò che può realizzarsi anche attraverso la puntuale allegazione delle evidenze fattuali a carico della persona di cui si chiede la consegna.
Ne discende, secondo l’impostazione seguita dalla S.C., che il «controllo sufficiente» cui devono essere sottoposte le decisioni relative all’esecuzione di un mandato d’arresto europeo, secondo l’esplicita indicazione dettata nel considerando n. 8 della decisione quadro, non può correttamente ravvisarsi in quello tipico di un regime valutativo e motivazionale assimilabile al modello imposto dall’art. 705 c.p.p. per le ipotesi relative alle situazioni regolate dalla disciplina relativa alla cd. estradizione extraconvenzionale (ossia, i casi in cui la domanda di estradizione è presentata da uno Stato con il quale l’Italia non è vincolata dal rispetto di specifici accordi).
Nell’ambito delle finalità espressamente delineate dalla decisione quadro, e senza creare i presupposti di quella che altrimenti rischierebbe di apparire un’indebita forma di ingerenza e/o sovrapposizione sul fondamento probatorio dell’autonoma, e parimenti sovrana, determinazione posta alla base del provvedimento cautelare straniero sottostante all’emissione di un mandato d’arresto europeo, la «valutazione» della gravità degli indizi di colpevolezza su cui si basa il provvedimento cautelare non compete all’autorità giudiziaria dell’esecuzione, ma pertiene invece direttamente all’autorità giudiziaria di emissione.
La «riconoscibilità» dei gravi indizi di colpevolezza da parte dell’autorità giudiziaria italiana deve incentrarsi, allora, sull’esame del contenuto – originario, ovvero successivamente integrato con le informazioni richieste ex art. 16, comma 1, della legge italiana di attuazione – del Mandato d’Arresto Europeo, dovendo lo stesso essere fornito di argomentazioni adeguate e controllabili, dotate di congruità logica e di compiutezza, e seriamente indicative, secondo l’autorità emittente, dell’esistenza di un fatto reato commesso dalla persona richiesta in consegna.
Non è soltanto il criterio logico-sistematico «interno», fondato sul collegamento tra il disposto letterale di cui all’art. 17, co. 4 e quello di cui all’art. 9, co. 5, della L. n. 69 del 2005, a giustificare la correttezza di siffatta interpretazione, ma è lo stesso dato testuale «esterno» ricavabile dalla disamina del contenuto normativo e delle finalità della decisione quadro ad imporla: nessuna disposizione della decisione quadro, che è il testo normativo europeo da applicare fedelmente nel nostro ordinamento secondo la regola generale dettata nell’art. 10 del Trattato C.E. e quella particolare specificata dall’art. 34, par. 2, lett. b), T.U.E., richiede all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di valutare la rilevanza del presupposto dei gravi indizi di colpevolezza.
La circolazione del mandato d’arresto nel territorio europeo si fonda, infatti, su un complesso di informazioni che i Paesi membri dell’U.E. hanno ritenuto rilevanti ai fini della concretizzazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni penali (ex art. 1, par. 2, e consideranda nn. 5, 6 e 7 della decisione quadro), secondo il Programma generale compiutamente articolato dal Consiglio dell’U.E. il 30 novembre 2000 e tracciato nelle sue linee guida dal Consiglio europeo di Tampere del 15-16 ottobre 1999: l’art. 8 della decisione quadro, a tal fine, elenca tassativamente quelle informazioni, ritenendo necessarie, tra l’altro, solo l’indicazione dell’esistenza di un provvedimento giurisdizionale (sentenza esecutiva, mandato d’arresto o qualsiasi altra decisione giudiziaria esecutiva dotata della stessa forza), della natura e qualificazione giuridica del reato [lett. d)] tenendo conto dell’art. 2, nonché della «descrizione delle circostanze della commissione del reato, compreso il momento, il luogo e il grado di partecipazione del ricercato» [lett. e)].
Una diversa interpretazione del «controllo sufficiente» da parte dell’autorità giudiziaria dell’esecuzione, oltre ad essere tecnicamente impedita dalla stessa indisponibilità degli atti del procedimento straniero, costituirebbe, infatti, un passo indietro rispetto alle stesse caratteristiche della procedura estradizionale comunemente applicata sinora a livello europeo e basata sul modello convenzionale delineato nel 1957, tradendo al contempo gli obiettivi, il contenuto e le finalità dell’adozione della decisione quadro, che proprio le difficoltà ed i ritardi causati dall’applicazione di quel risalente sistema multilaterale ha inteso superare attraverso la creazione di una nuova procedura di consegna tra gli Stati membri dell’U.E..
La stessa giurisprudenza di merito, del resto, sembra attestarsi su questa linea, allorquando opportunamente precisa
[49] che le esigenze cautelari già valutate dal giudice richiedente esprimono un tipo di apprezzamento non sindacabile dall’autorità italiana in sede di esecuzione, poiché una diversa interpretazione condurrebbe ad attribuire al giudice italiano competenze di merito proprie di una sorta di tribunale del riesame del provvedimento restrittivo dell’autorità giudiziaria straniera, ponendosi in palese contrasto con la lettera e la ratio della decisione quadro del Consiglio dell’U.E..
Non solo, infatti, lo Stato emittente, richiesto di fornire gli elementi per valutare i gravi indizi di colpevolezza, potrebbe rifiutarsi di fornirli, non essendo tale adempimento previsto nella decisione quadro, ma addirittura esso potrebbe anche, nella situazione contraria e facendo valere il principio di reciprocità, pretendere dal nostro Paese il rispetto di quello stesso adempimento, con la conseguenza che, a fronte di una richiesta di consegna proveniente dal nostro Paese, esso potrebbe richiedere di svolgere quegli stessi accertamenti che noi pretendiamo di fare quale Stato di esecuzione.
L’orientamento espresso nelle pronunce in esame si colloca, inoltre, all’interno di un solco giurisprudenziale che la stessa S.C. ha ormai da tempo percorso per quanto attiene alla sostanza del controllo giurisdizionale da esercitare ai fini della emissione di un provvedimento favorevole all’estradizione secondo le regole generali dettate nella norma codicistica di cui all’art. 705 c.p.p.: siffatta disposizione, pur nelle sue ambiguità semantiche e nonostante un, parzialmente, contrario orientamento dottrinale, richiede, infatti, la sussistenza documentata e la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza, a carico dell’estradando, solo se non esiste convenzione di estradizione tra lo Stato italiano e quello che ha richiesto l’estradizione, ovvero, qualora vi sia una convenzione, che questa espressamente condizioni l’estradizione medesima alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza; ciò trova la sua ratio nel fatto che in costanza di regime convenzionale l’esistenza di adeguati indizi di reità deriva, per presunzione incontrovertibile, da determinati documenti che la convenzione espressamente indica ed ai quali il giudice dello Stato richiesto non può negar fede quando essi gli siano stati ufficialmente comunicati per il solo esame formale che ne deve compiere
[50].
La stessa Corte di Giustizia CE, con una pronunzia del 16 giugno 2005 sulla decisione quadro del Consiglio dell’U.E. in materia di tutela delle vittime nell’ambito del procedimento penale
[51] (oramai famosa sentenza Pupino), e dunque proprio in ordine alla rilevanza da attribuire ad un atto normativo di diritto derivato adottato nell’ambito del cd. Terzo Pilastro dell’U.E., sembra avallare la correttezza dei presupposti argomentativi utilizzati dalla S.C. (nella sentenza n. 34355) in relazione alla regola di cui all’art. 17, co. 4, L. n. 69 del 2005, allorquando ha fatto espresso riferimento, stante la presunzione di conformità della legge interna alla normativa europea, all’esigenza di adottare, fra le possibili opzioni ermeneutiche sperimentabili, quella maggiormente conforme al dettato di tale normativa.
Nella su citata sentenza, infatti, la Corte di Giustizia ha statuito che il giudice nazionale, italiano nel caso di specie, è tenuto ad interpretare il diritto interno, per quanto possibile, in maniera conforme alla lettera ed allo scopo della decisone quadro al fine di conseguire il risultato da quest’ultima perseguito.
In ordine al rilievo della clausola di non discriminazione di cui all’art. 18, lett. a), della legge di attuazione, prevista in linea generale nel sistema codicistico dalla disposizione di cui all’art. 698, comma 1, c.p.p., la S.C., in linea con il suo costante orientamento ermeneutico, ha opportunamente precisato che per far valere la relativa eccezione non è sufficiente la mera allegazione di un allarme sociale provocato dalla gravità del reato, dovendo il fumus persecutionis nei confronti della persona ricercata discendere dalla comprovata sussistenza di circostanze obiettive e specifiche, rivelatrici, per una scelta normativa, o di fatto, seguita nello Stato richiedente, della possibilità che l’estradando venga sottoposto ad atti persecutori o discriminatori, ovvero a trattamenti crudeli, disumani o degradanti, o comunque ad atti che configurano una violazione di uno dei diritti fondamentali della persona.
Peraltro, nel caso poc’anzi considerato (ric. Hussain Osman), ad avviso della S.C. la tradizione civile dello Stato di emissione (Gran Bretagna), quale emergente anche dalla promulgazione dell’Human Rights Act del 1998, costituisce in ogni caso un’ampia garanzia dell’esclusione di trattamenti persecutori o discriminatori nei confronti della persona ricercata.
Né sotto tale profilo potrebbe rilevare, poi, quale fattore ostativo alla consegna, purché siano assicurate le fondamentali esigenze della difesa, la circostanza che l’ordinamento straniero presenti garanzie processuali non corrispondenti alle nostre
[52].
Infine, particolarmente opportuna appare la precisazione della S.C. in ordine al rilievo della non necessaria coincidenza tra la base motivazionale del provvedimento cautelare sul cui fondamento il mandato d’arresto europeo è stato emesso [ex artt. 1, comma 3 e 18, lett. t) della legge di attuazione] e le complesse regole che governano la struttura ed il contenuto del processo motivazionale dei provvedimenti giurisdizionali nel nostro ordinamento: ciò che conta è che l’autorità giudiziaria emittente dia contezza della ragione del mandato d’arresto, consentendo, anche attraverso puntuali allegazioni fattuali, di verificarne la congruità da parte dell’autorità di esecuzione.
Stante la diversità degli
standards motivazionali richiesti nei vari ordinamenti dei Paesi membri dell’U.E. (ad es., in Inghilterra la
Magistrates’ Court non è tenuta automaticamente a rendere decisioni motivate e la giuria, laddove prevista, non pronuncia mai una decisione motivata) e l’assenza di una precisa obbligazione dettata in tal senso dallo strumento comunitario, una diversa soluzione ermeneutica apparirebbe del tutto irrazionale e comunque di dubbia compatibilità con il principio del reciproco riconoscimento, comportando un’arbitraria forma di ingerenza e sovrapposizione delle regole proprie di un ordinamento su quelle dell’altro (magari derivanti da una tradizione giuridica secolare, da sempre osservata e rispettata, finanche nell’ambito del previgente sistema estradizionale europeo)
[53] .
Con una recente pronuncia del 26 gennaio 2006, n. 3640, ric. Spinazzola
[54], la Corte di Cassazione ha stabilito che anche a seguito della L. n. 69 del 2005 restano intatte le attribuzioni affidate dalla Costituzione all’Autorità giudiziaria nazionale sulla libertà personale del soggetto di cui è stata richiesta la consegna, con la conseguenza che ai fini del mantenimento dello stato di detenzione, successivamente alla convalida dell’arresto, è necessaria la contestuale emanazione di un’ordinanza coercitiva adeguatamente motivata in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari consistenti nel pericolo di fuga.
Va inoltre menzionata un’altra recente pronuncia della S.C. (sez. VI, 20 dicembre 2005, n. 46357, ric. Cusini
[55], reperibile al sito sopra indicato), in cui si è stabilito che nel procedimento per la convalida dell’arresto delle persone richieste dall’estero, è sufficiente che pervenga entro il termine di cui all’art. 13, comma 3, L. n. 69 del 2005, la segnalazione della persona nel S.I.S. effettuata dall’autorità competente, contenente le sole indicazioni previste dall’art. 6, co. 1: ne consegue che non determina la perdita di efficacia del provvedimento emesso dal Presidente della Corte di Appello il mancato arrivo della relazione sui fatti addebitati alla persona.
Infine, vanno ricordate le Sezioni Unite che con la Sentenza del 30.1.2007, n. 4614
[56] confermano l’orientamento secondo il quale l’autorità giudiziaria italiana deve verificare, ai fini della consegna, se nella legislazione dello stato membro di emissione sia espressamente fissato un termine della durata della custodia cautelare o in mancanza se un limite implicito sia comunque desumibile da altri meccanismi processuali che instaurino, obbligatoriamente e con cadenze predeterminate, un controllo giurisdizionale funzionale alla prosecuzione o meno della custodia.
Nella giurisprudenza di merito, infine, oltre quella sopra indicata, si registrano, in particolare, due pronunce: una della Corte di appello di Bologna, in data 21 giugno 2005, ed un’altra del Tribunale di Bolzano in data 28 luglio 2005.
Con la prima pronuncia si è affermata la sussistenza delle condizioni per l’accoglimento della richiesta di esecuzione di un M.A.E., su consenso dell’interessato, allorquando dagli atti trasmessi attraverso il sistema di informazione Schengen (S.I.S.), assieme alla documentazione Si.re.ne., risulti l’esistenza di un provvedimento restrittivo della libertà personale (nel caso di specie, si trattava del reato di sottrazione di minore)
[57].
Al riguardo, tuttavia, si è criticamente osservato che la valutazione, sia pure implicitamente effettuata dalla Corte d’appello, di sostanziale equipollenza della documentazione trasmessa attraverso l’ufficio Si.re.ne e del mandato d’arresto europeo agli atti e documenti relativi al procedimento principale – che secondo l’art. 6 L. n. 69 del 2005 l’autorità giudiziaria di emissione deve comunque trasmettere all’autorità giudiziaria italiana – rischia di determinare una vera e propria
interpretatio abrogans sia dell’art. 6, co. 3, sia del combinato disposto di cui agli artt. 1, co. 3, e 18, co. 1, lett.
t), della legge italiana, nella parte in cui prevedono che, in caso di mandato d’arresto emesso per finalità processuali, l’acquisizione del provvedimento cautelare straniero – posto alla base del mandato d’arresto – è funzionale al duplice accertamento sulla sottoscrizione da parte di un giudice e sulla sussistenza della motivazione, obbligando la Corte d’appello a rifiutare l’esecuzione ove lo stesso risulti mancante di motivazione
[58].
Nella seconda pronuncia, invece, si è ritenuto:
a) che nel procedimento per l’esecuzione di un M.A.E. l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal presidente della Corte d’appello, a seguito dell’arresto ad opera della polizia giudiziaria, costituisce un provvedimento emesso da un giudice incompetente (poiché monocratico, anziché collegiale) e da considerare pertanto tamquam non esset;
b) che va affermata la competenza del tribunale del riesame a valutare la legittimità della misura cautelare applicata dalla Corte d’appello a seguito dell’arresto operato sul territorio italiano in forza di un m.a.e. emesso in un altro Stato membro
[59].
Di tenore opposto all’ordinanza del Tribunale di Bolzano è inoltre il
decisum del Trib. Torino, sez. riesame, 9 ottobre 2005, n. 23 ric. Dobos
[60], che ha dichiarato l’inammissibilità della relativa istanza portando in rilievo il fatto che l’art. 9 ultimo comma della L. n. 69 del 2005 contempla, attraverso il rinvio, all’art. 719 c.p.c., il ricorso per Cassazione avverso le ordinanze coercitive, circoscrivendone la operatività alle sole violazioni di legge, con la conseguenza che al riguardo non vi sarebbe alcun vuoto normativo da colmare, ma una chiara e precisa scelta legislativa in relazione alla quale, avuto riguardo a quanto previsto nell’ambito della disciplina dell’estradizione passiva, non si profila alcun dubbio di legittimità costituzionale.
Va infine segnalata un’ordinanza della Corte di Appello di Salerno (25 agosto 2005, ric. Giuliano
[61], reperibile al sito internet suindicato) che ha respinto l’obiezione difensiva secondo la quale, dopo la decisione della Corte Costituzionale tedesca, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge tedesca di attuazione del mandato di arresto europeo, si dovrebbe rifiutare la consegna in base al principio di reciprocità; la Corte di Appello di Salerno ha osservato al riguardo che il principio di reciprocità è irrilevante e dunque non applicabile posto che in materia si deve fare riferimento alla Decisione Qquadro e alla L. n. 69 del 2005 dovendosi ritenere che quando il legislatore ha inteso richiamare il principio di specialità lo ha fatto espressamente (v. ad esempio l’art. 4, ultimo comma L. n. 69 del 2005).
7.il paradosso costituzionale
“Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18.1 lett. E) l. n. 69 del 2005, in riferimento agli artt. 3, 11 e 117.1 Cost., per contrasto con la disciplina europea e per irragionevolezza del considerare la nostra soluzione nazionale dei limiti massimi come parametro non solo interno, ma da imporre agli Stati esteri pur in un contesto in cui quegli Stati consapevolmente hanno disciplinato il problema (la verifica della opportunità e legittimità del protrarsi della custodia cautelare) risolvendolo con soluzioni valutate anche come maggiormente adeguate del nostro dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.” Corte appello Venezia, sez. I, 25 ottobre 2006
[62].
Può una norma ordinaria che riproduce fedelmente una norma costituzionale essere soggetta a scrutinio di legittimità per mancata osservanza degli obblighi di osservanza degli impegni comunitari oggi, anch’essi, eretti a precetto costituzionale?
É un vero paradosso ma è ciò che è avvenuto con l’ordinanza in parola.
Con provvedimento n. 53 del 25 ottobre 2006 la Corte d’appello di Venezia ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, lett.
e), L. n. 69 del 2005, che recepisce nel nostro ordinamento la Decisione quadro sul mandato d’arresto europeo e le nuove procedure di consegna tra gli Stati membri dell’Unione europea, deducendone il contrasto sia con gli artt. 11 e 117 comma 1 Cost., sotto il profilo della sostanziale vanificazione della normativa europea in ordine alla previsione, in forme tassative e stringenti, di un catalogo di motivi di rifiuto dell’esecuzione del mandato d’arresto, sia con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza della norma interna di attuazione, che sembra voler imporre agli altri Stati membri una finalità di tutela della libertà personale che essi potrebbero aver disciplinato con soluzioni diverse, ma parimenti efficaci, se non più adeguate, rispetto agli orientamenti giurisprudenziali della Corte europea dei diritti dell’uomo
[63].
Il tenore letterale di detta norma, però, lega, in maniera inequivocabile, l’opposizione del motivo di rifiuto al mero dato dell’assenza di termini custodiali massimi nella legislazione dello Stato emittente il M.A.E., trasponendo sul piano interno la stessa formulazione letterale utilizzata dall’art. 13 co. 5 della vigente Costituzione italiana.
Le prime applicazioni giurisprudenziali della norma ne hanno subito posto in rilievo una connotazione di forte problematicità, dando luogo ad interpretazioni pericolosamente divergenti, ove si consideri l’elevata frequenza di mandati d’arresto emessi per finalità propriamente cautelari.
L’originalità della norma interna e, al contempo, la profonda diversità dei sistemi nazionali di regolamentazione e controllo della legittimità della custodia cautelare, pur nella comune adesione al principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie degli Stati membri dell’U.E. (ex Considerando n. 6 della Decisione quadro 2002/584/GAI) ed ai principi generali tracciati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, non rendono certo agevole la delineazione di un sicuro ed affidabile percorso ermeneutico, in grado di resistere nel tempo alle inevitabili oscillazioni imposte dalla prassi.
Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, un’esegesi che forzasse il dettato e la ratio della norma così come formulata non potrebbe rientrare nell’ambito di un’interpretazione conforme allo strumento comunitario, in quanto non potrebbe spingersi sino al punto di abrogare la norma interna, che costituisce la proiezione del principio delineato dall’art. 13 co. 5 Cost., sui rapporti di cooperazione internazionale dello Stato
[64].
Entro tale prospettiva ermeneutica, dunque, proprio in ragione delle conseguenze in
malam partem che ne discenderebbero, non potrebbe considerarsi legittima un’interpretazione «sistematica e razionalizzatrice» sul modello di quella già adottata dalla S.C. in altre occasioni
[65], in quanto il principio di interpretazione conforme – come riconosciuto dalla stessa Corte di Giustizia C.E. nel caso c.d. «Pupino»
[66] – trova un limite invalicabile nell’impossibilità di pervenire ad un’applicazione tale da sfociare in un risultato compatibile con quello perseguito dalla stessa Decisione quadro che si intende recepire nell’ordinamento.
Un diverso orientamento giurisprudenziale, successivamente formatosi, ha puntato tuttavia a valorizzare, nell’ambito di una prospettiva «razionalizzatrice» della norma interna, il dato della possibile «equivalenza», in concreto, degli effetti del controllo giudiziale sui limiti temporali della custodia, ai fini della decisione positiva sulla consegna.
Delineati in tal modo i termini del contrasto giurisprudenziale sul rilievo da assegnare al motivo di rifiuto disciplinato dall’art. 18, lett.
e), le sezioni unite della S.C. hanno stabilito il principio secondo cui l’autorità giudiziaria italiana deve verificare, ai fini della consegna, se nella legislazione dello Stato membro di emissione sia espressamente fissato un termine di durata della custodia cautelare fino alla sentenza di condanna di primo grado o, in mancanza, se un limite temporale implicito sia comunque desumibile da altri meccanismi processuali che instaurino, obbligatoriamente e con cadenze predeterminate, un controllo giurisdizionale funzionale alla legittima prosecuzione della custodia cautelare, o, in alternativa, all’estinzione della stessa
[67].
Ne discende, ad avviso della S.C., che la possibilità di proroga della durata della custodia cautelare non è incompatibile con il concetto di limite massimo, mentre con esso sembrano incompatibili quei meccanismi processuali dai quali derivi che, alle scadenze temporali, pur in mancanza di un provvedimento del giudice, lo stato custodiale non debba integralmente cessare.
La ratio di garanzia sottesa alla previsione di cui all’art. 18, lett. e), L. n. 69 del 2005 può in concreto apprezzarsi, dunque, anche nelle ipotesi in cui il limite massimo di custodia cautelare sia posto dalla legge «non in modo diretto, ma mediato attraverso la previsione di un controllo da instaurarsi entro un tempo inderogabile predeterminato dalla legge», e sempre che, ove il controllo non sia effettuato, o conduca ad un risultato negativo sulla necessità dello status custodiae, si determini la «automatica liberazione» dell’imputato.
L’interpretazione «costituzionalmente orientata» che viene in tal modo indicata dalle sezioni unite sembra mostrare, tuttavia, un possibile punto debole allorquando, nel tentativo di colmare la distanza siderale oggettivamente intercorrente tra la extra-vagante norma interna e l’atto di diritto derivato che essa dovrebbe fedelmente recepire nel nostro Ordinamento, ritiene di non condividere l’obiezione per cui, in tal modo, verrebbe ad essere aggiunta una condizione non prevista dalla Convenzione europea di estradizione, sul presupposto che l’ipotesi di rifiuto in questione, pur non esplicitamente indicata dalla decisione quadro, si ispirerebbe a garanzie fondamentali del processo dalla stessa comunque richiamate.
Pur apparendo senz’altro auspicabile, in una prospettiva
de lege ferenda, un’abrogazione, ovvero una netta correzione dell’art. 18, lett.
e), da parte del legislatore ordinario, in modo da riformularne con maggior precisione i contorni e limitarne i possibili effetti dirompenti nei rapporti di cooperazione giudiziaria a livello infraeuropeo
[68], ben difficilmente potrebbe negarsi l’attuale discrasia tra la tassatività dei precisi motivi di rifiuto contemplati dalla decisione quadro sul mandato d’arresto europeo ed il generale impianto normativo delineato dalla L. n. 69 del 2005, il cui art. 18, oltre all’ipotesi della lett.
e), introduce ulteriori casi di rifiuto della consegna nelle lett.
b),
c),
g),
s) e
t), parimenti non contemplati dal legislatore europeo, né in alcun modo previsti dai trattati bilaterali in materia di estradizione.
Ulteriori motivi di rifiuto della consegna (ad es., il consenso dell’avente diritto secondo la legge italiana, l’esercizio di un diritto, l’adempimento di un dovere, il caso fortuito e la forza maggiore, lo stato di gravidanza della persona richiesta in consegna ovvero la presenza di prole di età inferiore a tre anni, ecc.), la cui eventuale opposizione da parte dell’autorità giudiziaria italiana potrebbe creare gravi problemi e ritardi nella gestione dei rapporti con le autorità giudiziarie degli altri Paesi europei, costringendo la giurisprudenza di legittimità a tentare nuove operazioni di «ortopedia» interpretativa, in assenza di un «calibrato» intervento da parte del legislatore.
Se, per un verso, appare probabile una declaratoria di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale proposta dalla Corte d’appello rimettente, sul presupposto che l’autorevole indirizzo ermeneutico tracciato dalle sezioni unite costituisca ormai la manifestazione di un «diritto vivente» rispetto al quale non sono più proponibili decisioni interpretative di segno diverso, è pur vero, d’altra parte, che la novità della questione ed il rilievo dei parametri di costituzionalità invocati dal Giudice rimettente potrebbero sollecitare l’avvio di una riflessione da parte del Giudice delle leggi sui limiti di conformità delle norme interne alla legislazione comunitaria e sul grado di apertura dell’Ordinamento italiano ai principi e agli istituti elaborati dall’U.E. nel delicato settore del c.d. «terzo pilastro», relativo alla disciplina della materia della cooperazione giudiziaria penale e di polizia tra gli Stati membri.
In relazione al parametro fissato nell’art. 3 Cost., l’esplicitazione a livello nazionale di garanzie fondamentali in qualche misura ricavabili dal testo della Decisione Quadro o, comunque, desumibili dalle generali finalità del rispetto dei principi di cui all’art. 6 T.U.E., dovrebbe avvenire secondo criteri di «ragionevolezza», ossia in modo tale da non compromettere, ovvero porre a rischio, con azzardate scelte lessicali, metodologiche e di contenuto, l’impianto strutturale e la stessa funzionalità dei risultati che lo strumento comunitario intende raggiungere (e che l’ordinamento interno ha il dovere di attuare in modo conforme, ex art. 34, par. 2, lett. b), T.U.E.).
Il necessario rispetto dei c.d. controlimiti al primato del diritto comunitario sul diritto interno, derivanti dalla considerazione dei principi fondamentali dell’Ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona – quale ineludibile condizione per l’ingresso nel nostro Ordinamento delle norme internazionali generalmente riconosciute o delle norme derivate dall’applicazione dei trattati istitutivi di organizzazioni internazionali aventi gli scopi indicati dall’art. 11 Cost.
[69] – dovrebbe essere attentamente bilanciato, anche in questo caso, con la piena osservanza dell’obbligo costituzionale imposto al legislatore ordinario dall’art. 117 co. 1 Cost., al fine di garantire la fedele attuazione e la conseguente effettività dei vincoli derivanti dall’Ordinamento comunitario e dagli impegni internazionali assunti dal nostro Paese.
Sotto questo profilo, la sostanziale analogia tra le fonti normative rappresentate dalle direttive comunitarie e dalle decisioni quadro varate nell’ambito del titolo VI del T.U.E. e la riconosciuta uniformità – da parte della stessa Corte di Giustizia CE (con la citata sentenza sul caso «Pupino») – dell’interpretazione a titolo pregiudiziale delle decisioni quadro ex art. 35 T.U.E. rispetto a quella prevista ex art. 234 T.C.E. per le direttive comunitarie, potrebbero costituire ulteriori elementi di valutazione per saggiare la trasponibilità nel settore – non ancora «comunitarizzato» – della cooperazione giudiziaria penale di argomentazioni già utilizzate dalla Corte costituzionale per dichiarare, come è avvenuto in altre occasioni, l’illegittimità di una legge regionale in contrasto con una direttiva comunitaria in ordine al mancato rispetto dei vincoli derivanti dall’Ordinamento comunitario ex art. 117 co. 1 Cost.
[70] (laddove le prescrizioni della direttiva imponevano agli Stati membri un’uniformità di comportamenti, disattesa invece dalla legge regionale, venendosi in tal modo ad incidere sulla «complessiva efficacia» del procedimento comunitario).
8.conclusioni
Come in tutti i processi d’integrazione comunitaria che si sono avuti in 50 anni di storia europea, quando si deve implementare una nuova materia, il primo obiettivo da raggiungere è il superamento delle barriere normative fra i vari Paesi.
Cosicché all’inizio, Ordinamenti piuttosto evoluti (almeno sulla carta) possono risentire di un certo “appiattimento” a causa dell’azione comunitaria. Altri, meno avanzati, al contrario se ne avvantaggiano.
É stata sempre di tal genere la vis attrattiva di questo Club europeo che diventa irresistibile per i Paesi meno progrediti.
Successivamente ad un iniziale appiattimento è possibile osservare una collocazione su standards di protezione elevati della normazione europea.
Non bisogna mai dimenticarsi, infatti, che tutta l’azione comunitaria “
in materia di sanità, sicurezza, protezione dell’ambiente e protezione dei consumatori si basa su un livello di protezione elevato”[71] e che, quindi, inevitabilmente l’Europa ha come obiettivo primario quello di uno
standard di vita molto elevato a tutti i suoi Cittadini.
L’Europa, infatti, nasce sul comune intento di evitare guerre fra Paesi europei, per il supremo bene della Pace nella massima considerazione del benessere dei Popoli.
Gli standards elevati di prestazioni, devono essere, quindi, utili parametri di riferimento ed interpretativi, quando, nei casi di norme confliggenti deve essere fatta una scelta esegetica.
Complesso, infatti, è stato tuttavia il dibattito sul problema dei rapporti fra diritto comunitario e diritto nazionale, che si pone con riferimento ai casi nei quali il giudice nazionale deve pronunciarsi su una fattispecie che appaia suscettibile di rientrare tanto nella previsione di una norma comunitaria quanto in quella di una norma interna e che ha visto la Corte costituzionale e la Corte di Giustizia impegnate in un prolungato scambio di botte e risposte
[72], conclusesi col riconoscimento della prevalenza del diritto comunitario sul diritto nazionale, accertabile in sede di controllo diffuso, con conseguente eventuale disapplicazione da parte di qualunque giudice del diritto interno anche successivo che sia incompatibile con il diritto comunitario senza necessità di rinvio della questione alla Corte costituzionale. Questa regola enunciata nella celebre sentenza Simmenthal della Corte di Giustizia e fu accettata nella sentenza n. 170 del 1984 della Corte costituzionale italiana, pur con una riserva per il caso in cui da parte degli organi legislativi dell’Unione europea venissero violati i diritti fondamentali garantiti della Costituzione italiana (c.d. teoria dei “controlimiti”)
[73].
Questo sistema interpretativo, non sempre è risolutivo ed, inoltre, non offre grandi risvolti pratici al Giudice per la risoluzione del caso concreto.
Soprattutto, i casi giurisprudenziali sul M.A.E., dimostrano come la questione dei “controlimiti” (che è stata concepita con riferimento all’opera della Corte costituzionale e non a quella degli altri giudici) non sia agevolmente spendibile sul piano giudiziario vero e proprio senza dar luogo a risultati difficilmente accettabili.
Un’ipotetica decisione della Corte costituzionale la quale denunciasse una violazione dei principi supremi della Costituzione italiana aprirebbe un problema politico di primaria importanza per gli organi costituzionali dello Stato italiano circa l’atteggiamento da assumere nei confronti dell’Unione europea.
Un aiuto concreto sotto tale profilo ci giunge dalla stessa Corte di Giustizia con la sentenza della Grande Corte del 3 maggio 2007 C/303/05
[74].
La causa è introdotta da un rinvio pregiudiziale della Corte Costituzionale Belga chiamata a decidere sul sindacato di legittimità della legge applicativa della Decisione Quadro sul Mandato di Arresto Europeo nei Paesi Bassi per la parte confliggente con i principi costituzionali di qual Paese.
La Corte Belga sosteneva che la decisione quadro fosse invalida in quanto la materia del mandato d’arresto europeo avrebbe dovuto essere attuata con una convenzione e non con una decisione quadro dato che, in forza dell’art. 34, n. 2, lett. b), UE, le decisioni quadro possono essere adottate solo per «il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri», circostanza che, a suo avviso, non si verifica in questa fattispecie e che nel caso in esame si sarebbe dovuta adottare una Convenzione.
Inoltre, l’art. 2, n. 2 Decisione Quadro, avrebbe violato il principio di uguaglianza e di non discriminazione poiché, per i fatti punibili menzionati in quest’ultima disposizione, in caso di esecuzione di un Mandato d’Arresto Europeo, viene disatteso senza un’obiettiva e ragionevole giustificazione il requisito della doppia incriminazione, mentre lo stesso requisito viene mantenuto per altri reati.
Ancora, la legge d’attuazione Belga non avrebbe rispettato neppure i dettami del principio di legalità in materia penale poiché non avrebbe elencato alcun reato con un contenuto normativo sufficientemente chiaro e preciso, ma soltanto vaghe categorie di condotte indesiderabili
[75]. L’assenza di una definizione chiara e precisa dei reati avrebbe condotto, ad avviso della ricorrente, una disparità nell’applicazione della detta legge da parte delle diverse autorità incaricate dell’esecuzione di un Mandato d’Arresto Europeo, con conseguente violazione anche del principio di uguaglianza e del divieto di discriminazione.
La Grande Camera dalla CGCE ha respinto le eccezioni sulla base della considerazione che la Decisione Quadro è diretta a sostituire il sistema multilaterale di estradizione tra gli Stati membri con un sistema di consegna tra autorità giudiziarie di persone condannate o sospettate, al fine dell’esecuzione di sentenze o per sottoporle all’azione penale sul fondamento del principio del reciproco riconoscimento.
Il reciproco riconoscimento dei mandati di arresto spiccati da diversi Stati membri richiede il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri relative alla cooperazione giudiziaria in materia penale e, più nello specifico, delle norme relative alle condizioni, alle procedure e agli effetti della consegna tra autorità nazionali. Per questo è vero che il mandato d’arresto europeo avrebbe anche potuto essere disciplinato con una Convenzione; tuttavia nella discrezionalità del Consiglio rientra la possibilità di privilegiare lo strumento giuridico della Decisione Quadro quando, come in questa fattispecie, siano presenti le condizioni (riavvicinamento delle legislazioni in materia penale) per l’adozione di tale atto.
Quanto alla denunciata violazione di alcuni diritti fondamentali quali quelli della legalità dei reati e delle pene, nonché il principio di uguaglianza e non discriminazione, occorre innanzitutto rilevare che, in forza dell’art. 6 UE, l’Unione è fondata sul principio dello Stato di diritto e rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario. Ne consegue che le istituzioni sono soggette al controllo della conformità dei loro atti ai trattati e ai principi generali di diritto, al pari degli Stati membri quando danno attuazione al diritto dell’Unione (v., in particolare, sentenze 27 febbraio 2007, causa C-354/04 P, Gestoras pro Amnistía e a./Consiglio, Racc. pag. I-0000, punto 51 e causa C-355/04 P, Segi e a./Consiglio, Racc. pag. I-0000, punto 51).
Per quanto riguarda i reati elencati nell’art. 2.2 della D.Q., anche se gli Stati membri ne riprendessero letteralmente l’elenco ivi dettato, per darle attuazione, la definizione stessa di tali reati e le pene applicabili sono quelle risultanti dal diritto «dello Stato membro emittente».
Siccome, però, questa Decisione Quadro, sostiene la Corte, non è volta ad armonizzare i reati in questione fra gli Stati membri per quanto riguarda i loro elementi costitutivi o le pene di cui sono corredati, la stessa risulta compatibile con i Principi fondamentali in materia di diritti dell’Uomo dell’Unione.
Pertanto, anche se l’art. 2.2, della decisione quadro sopprime il controllo della doppia incriminazione per le categorie di reati menzionate in tale disposizione, la loro definizione e le pene applicabili continuano a rientrare nella competenza dello Stato membro emittente, il quale, come peraltro recita l’art. 1.3, della stessa decisione quadro, deve rispettare i diritti fondamentali e i fondamentali principi giuridici sanciti dall’art. 6 UE e, di conseguenza, il principio di legalità dei reati e delle pene.
Per il rilievo sulla non discriminazione, continua la Corte, occorre rilevare che il principio di uguaglianza e di non discriminazione impone che situazioni analoghe non siano trattate in maniera diversa e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che tale trattamento non sia obiettivamente giustificato (v., in particolare, sentenza 26 ottobre 2006, causa C 248/04, Koninklijke Coöperatie Cosun, Racc. pag. I-0000, punto 72 e giurisprudenza citata).
Il Consiglio ha ritenuto, in base al principio del reciproco riconoscimento e considerato l’elevato grado di fiducia e di solidarietà tra gli Stati membri, che, vuoi per la loro stessa natura, vuoi per la pena comminata – d’un massimo edittale di almeno tre anni – le categorie dei 32 reati di cui all’art. 2.2 rientrassero tra quelle che arrecano all’ordine e alla sicurezza pubblici un pregiudizio tale da giustificare la rinuncia all’obbligo di controllo della doppia incriminazione.
Pertanto, conclude la Corte, la distinzione risulta, in ogni caso, oggettivamente giustificata.
In buona sostanza, dalla recente pronuncia della CGCE pubblicata il 20.5.2007, è possibile trarre la conclusione che lo spirito d’attuazione del Mandato d’Arresto Europeo deve essere cercato più sul piano pratico che su quello dogmatico, sia perchè questa D.Q. non si occupa affatto del problema di riavvicinamento delle norme sostanziali e processuali penali degli Stati membri, sia perchè per il grado di fiducia reciproca e di diffusione dei principi democratici e di difesa dei diritti umani in Europa non è pensabile dare alla stessa minore attuazione rispetto a quella che si concedeva alle sostituite Convenzioni multilaterali.
Le difficoltà che la giustizia comunitaria ha incontrato finora in casi di questo tipo troveranno verosimilmente rimedio a mano a mano che si diffonderà, fra i giudici nazionali, una maggiore conoscenza del diritto comunitario; di conseguenza, diverrà più agevole anche l’esercizio delle funzioni che hanno richiesto finora dalla Corte di Lussemburgo una grande capacità di inventare soluzioni nuove per far fronte a situazioni spesso quasi completamente inedite.
Superate queste difficoltà, come avvenuto per le altre materie d’integrazione europea, anche per il settore penale si potrà rilevare un puro accrescimento della libertà dei cittadini dell’Unione.
Elenco autori:
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AA.VV. Il mandato d’arresto europeo, a cura di Pansini-Scalfati, Napoli, 2005
AA.VV. Mandato d’arresto europeo e procedure di consegna, a cura di Kalb, Milano, 2005
AA.VV. Mandato d’arresto europeo, a cura di Bargis-Selvaggi, Torino, 2005
AA.VV. Commento alla l. 22 aprile 2005, n. 69, a cura di Bricchetti, Barazzetta, Battista, Calvanese, De Amicis, Dedola, Frigo, Frosini e Selvaggi, Guida dir., 2005, n. 19,
AA.VV. Il mandato di arresto europeo, a cura di Chiavario, De Francesco, Manzione e Marzaduri, Torino, 2006
Armone La Corte di Giustizia e il terzo pilastro dell’Unione europea, in Foro it., 2006, IV, c. 587
Barile P. Il cammino comunitario della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1973, 2406
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Patrone I. J. Questione Giustizia 1/2002
Bruti Liberati E. Per la Commissione “decisione storica”, Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2005
Caianiello-Vassalli Parere pro-veritate Cassazione penale, 2002, p. 462 – 467
Calvanese- Dalla Convenzione di Parigi al
De Amicis Vertice di Laeken, la lunga strada del mandato d’arresto europeo, Guida al diritto 5/2002
Calvanese – Mutuo riconoscimento solo nelle
De Amicis intenzioni, Guida al diritto, n. 19/2005
Celotto A. I primi passi del “cammino comunitario” della Corte costituzionale nelle osservazioni apparse in “Giurisprudenza costituzionale”, in A. Pace (a cura di), Corte costituzionale e processo costituzionale, Milano, Giuffrè, 2006, p. 175
Ceresa – Gastaldo I mezzi di impugnazione, in AA.VV., Mandato di arresto europeo, a cura di Bargis e Selvaggi, cit., 315 e ss.
Chiavario Lineamenti di diritto processuale penale, II ed., Torino, 2006
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De Amicis- Al via in Italia il mandato
Iuzzolino d’arresto U.E., in D&G, 2005, n. 19 (inserto speciale)
De Amicis – Mandato d’arresto UE e legge
Iuzzolino italiana: così le disposizioni finali e transitorie, D&G, 2005, n. 21
De Amicis Il mandato d’arresto UE? Si applica così. Estradizione, sì al reciproco affidamento, D.&G., 2005, n. 37
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Delmas-Marty Verso un diritto penale comune europeo?, Riv. Ital. Dir. Proc. Pen., 1997
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Iuzzolino E la legge di attuazione va alla Consulta. I dubbi di legittimità punto per punto,in D&G, 2006, n. 47
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Tonini Manuale di procedura penale, VI ed., Milano, 2005
Villoni O. Decisione quadro e Legge italiana di attuazione: aspetti generali, Dattiloscritto giornata di studio della Formazione Decentrata del C.S.M., Roma, 18.05.2005
Giurisprudenza:
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Sentenza nn. 55-59 e 61-63/63 del 9 giugno 1964, Acciaierie fonderie ferriere di Modena vs. Alta Autorità, in: http://europa.eu.int/smartapi/cgi/sga_doc?smartapi!celexplus!prod!CELEXnumdoc&lg=en&numdoc=61963J0055
Grande Camera Sentenza n. C/105/03 del 16.6.2005, Pupino: http://curia.eu.int7jurisp/cgi-bin/form.pl?lang=it;
Sentenza del 15.7.1964, Costa/Enel, in http://curia.eu.int;
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C. Costituzionale Sentenza n. 168 del 18.4.1991;
Sentenza n. 232 del 21.4.1989;
Sentenza n. 48 del 18.6.1979;
Sentenza n. 183 del 27.12.1973;
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Sentenza n. 183 del 1973;
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Sentenza n. 4614 del 30.1.2007, Sezioni Unite, in Foro it., 2007, n. 3;
Sentenza, 13.10.2005, Sez. VI, Pangrac, in CED Cass., n. 232584; Sentenza, 28.4.2006, Sez. VI, Arioua, CED Cass., n. 234126;
Sentenza, 12.6.2006, Sez. VI, Truppo, CED Cass., n. 234166;
Venezia, 3.11.2005, in Giur. Merito, 2007, 1, 150;
Bologna, 21.6.2005, Guillemin, in Foro it., 2005, II, c. 522;
Venezia, Sez. I, 25.10.2006, Giur. merito 2007, 5, 1427.
Tribunale Bolzano, Sez. Riesame, 28.7.2005, Theiner, in Foro it., 2005, II, c. 498;
[1] La struttura dell’UE è acquisizione del Trattato di Maastricht poi sensibilmente rivista anche dal successivo trattato di Amsterdam; brevemente, al primo pilastro appartengono le politiche comunitarie classiche mentre gli altri due pilastri compendiano la politica estera e di sicurezza comune (PESC, secondo pilastro) e le politiche afferenti alla giustizia ed affari interni (GAI, come riorganizzata ad Amsterdam) che rappresentano il cd. terzo pilastro. La cooperazione giudiziaria in materia penale è dunque una politica di terzo pilastro.
[2] Vedi anche S. Manacorda,
Union européenne et droit pénal: esquisse d’un systéme, Rev. sc. crim., 2000, pag. 95 ss.
[3] Il tentativo di riformare il sistema basato sulla Convenzione del Consiglio d’Europa del 1957, intrapreso soprattutto con le due Convenzioni UE del 1995 e del 1996, è stato, nei fatti, un fallimento dovuto alle profonde e diversificate resistenze degli Stati Membri; le due Convenzioni non sono infatti mai entrate in vigore.
[4] Processo che ha permesso alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee nella sentenza Van Gend und Loos (26/62), già negli anni 60, di scrivere:
“un nuovo ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale a favore del quale gli stati membri, hanno rinunziato, se pure in settori limitati, ai loro poteri sovrani ed al quale sono soggetti non solo gli stati membri, ma pure i loro cittadini”; ed oggi il processo andato molto innanzi.
[5] Come definiti dalla stessa CGCE, vedi Parere 2/94 del 1996.
[6] Un ripensamento dell’attuale assetto delle fonti comunitarie e della struttura in pilastri è in corso nella Convenzione “costituzionale” sul futuro dell’Europa. Molti, sia tra i tecnici che i politici, sono i partigiani dell’estensione del metodo comunitario anche alle politiche attualmente ricomprese nel secondo e terzo pilastro. Tale innovazione rappresenterebbe una svolta epocale per l’ordinamento giuridico europeo.
[7] Vedi Delmas-Marty-Vervaele (a cura di),
Le mise en oeuvre du Corpus Juris dans les Etats Membres, Vol I, Antwerpen – Groingen – Oxford, 2000.
Corpus Juris è un progetto privato, accademico, finanziato dalla Commissione Europea con un grosso impatto sul dibattito non solo dottrinario ma anche istituzionale.
[8] Il Libro Verde della Commissione è disponibile e scaricabile sul
web site dell’OLAF: www.europa.eu.int/olaf/livre_vert. É stato presentato nel dicembre 2000.
[9] Quasi come una
“full faith and credit clause” (sull’esempio dell’analoga clausola inserita nella Costituzione degli Stati Uniti d’America) operante nel campo della Giustizia per gli atti giudiziari prodotti dalle Corti Europee, ma, a quanto pare, senza quella serie di comuni rimedi e strumenti di revisione esistenti (ma fosse anche solo lo stesso giustiziabile
bill of rights) in altri sistemi come quello statunitense.
[10] Al principio il dibattito italiano è stato profondamente condizionato da un autorevole parere reso da due ex presidenti della Corte Costituzionale, entrambi anche ex Ministri della Giustizia, richiesto dal Governo come Parere
pro veritate, Cassazione penale, 2002, p. 462 – 467.
Vincenzo Caianiello e Giuliano Vassalli sono giunti alla conclusione, almeno nel parere reso al Governo, che la allora proposta (oggi atto giuridico in vigore) di decisione quadro presentava parecchi profili di dubbia costituzionalità.
In breve le motivazioni addotte erano:
a) la proposta viola il principio di tassatività della norma penale e la richiesta “riserva di legge” per le norme penali, in quanto è basata su una lista che non rispecchia tali principi e costituisce semplicemente una sommaria enunciazione di “oggetti” rilevanti per il diritto penale;
b) la proposta viola i principi costituzionali sulla libertà personale come stabiliti dall’articolo 13, in accordo con gli articoli 104 e 111 della Costituzione (competenza ad emettere un ordine di custodia, riserva di legge riguardo le forme e le possibilità di tali ordini, organizzazione delineata in Costituzione del sistema giudiziario, motivazione obbligatoria per tutte le misure che dispongono misure restrittive della libertà, e possibilità di ricorrere in Cassazione per una violazione di legge) permettendo una deroga dalle leggi nazionali in materia di emanazione ed esecuzione di ordini di custodia, leggi che nel nostro sistema sono strettamente legate a previsioni costituzionali e costantemente vagliate dalla Corte Costituzionale;
c) la proposta viola i principi costituzionali in materia di estradizione, articoli 10 e 26 della Costituzione italiana, tale violazione riguarda norme pertinenti la protezione e promozione dei diritti fondamentali la cui primazia deve essere confermata con riguardo a tutte le norme e leggi, incluse quelle internazionali (pattizie o consuetudinarie);
d) la proposta viola inoltre, nell’opinione dei due stimati giuristi, le limitazioni previste dagli articoli 31 e 34 del Trattato sull’Unione Europea, la lista dei crimini infatti eccede le indicazioni incluse nell’articolo 31 lett. e) e non rispetta l’articolo 34 comma 2, lett. d), violando le competenze delle autorità nazionali con riguardo alla scelta delle forme e degli strumenti.
[11] Questa è l’interpretazione che sembra dare alla D.Q. anche la Grande Camera della CGCE con la Sentenza del 3.5.2007 C/303/05 reperibile qui
[12] Seppur spesse volte ancor meno organica.
[13] Cfr. M. Delmas-Marty,
Verso un diritto penale comune europeo?, Riv. Ital. Dir. Proc. Pen., 1997, p. 543 e ss.
[14] Un riferimento espresso agli strumenti internazionali e convenzionali ed alla giurisprudenza “internazionale” (e quindi sostanzialmente alla CEDU) è fatta nella legge delega per l’approvazione del “nuovo” codice di procedura penale: Legge 81 del 16 febbraio 1988.
[15] Legge Costituzionale n. 2 del 23 febbraio 1999, articolo 1.
[16] Selvaggi E.
Il mandato europeo d’arresto alla prova dei fatti, Cassazione penale, 2002, pag. 2979.
Renault G. Schengen, un modale pour l’Europe pénale? In: Les dossiers du journal des tribunaux, 6 pag. 84 ss.
Bruti Liberati E. – Patrone I. J. Il mandato d’arresto europeo. In: Questione Giustizia 1/2002, pagg. 70 ss.
[17] Per tutti: Renault G.
Schengen, op. cit. pagg. 84 ss. In effetti, ciò è quanto l’articolo 59 della Convenzione applicativa dell’Accordo di Schengen dichiara esplicitamente.
Contra: Salazaar L. L’estradizione nella Convenzione di Schengen, Diritto Penale e Processo 8/1998, pag. 1037, per il quale gli aspetti innovativi di Schengen (di cui si parlerà) già anticipano, con le dovute differenze, delle esigenze e delle procedure di semplificazione che, a distanza di più di dieci anni, emergeranno in sede di elaborazione del mandato d’arresto europeo.
[18] Per un’analisi dettagliata del Sistema, si veda:
Schengen Information System, Sirene: Recommendations and Best Practices. In: EU Schengen Catalogue, Vol.2, dicembre 2002.
[19] Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo, Svezia e Spagna.
[20] Acronimo di Supplementary Information Request at National Entry.
[21] Calvanese E. – De Amicis G.
Dalla Convenzione di Parigi al Vertice di Laeken, la lunga strada del mandato d’arresto europeo. In: Guida al diritto 5/2002, pag. 110.
[22] Questo è l’orientamento della Corte di Giustizia delle Comunità Europee:
“[…] The individual nature of the decision may be deduced from the fact […].(The nature of the decision n.d.a.) depends on its scope rather than on its form […].”, Sentenza del 16 luglio 1956, in causa 8/55, Fédération charbonnière de Belgique vs. Alta Autorità, in: http://europa.eu.int/eurlex/lex/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:61955J0008:EN:HTML
“[…] In order to ascertain whether a decision of the High Authority is general or individual its content must in particular be examined to establish whether its provisions affect directly and individually the persons bound by them .[…] The determination of the legal nature of a measure emanating from the Council or the Commission does not depend only on its official designation, but should first take into account its object and content .[…]”, Sentenza del 9 giugno 1964, nelle cause riunite 55-59 e 61-63/63, Acciaierie fonderie ferriere di Modena vs. Alta Autorità, in: http://europa.eu.int/smartapi/cgi/sga_doc?smartapi!celexplus!prod!CELEXnumdoc&lg=en&numdoc=61963J0055
“Il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa
consultazione del Parlamento Europeo e del Comitato Economico e Sociale, stabilisce direttive volte al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune.”.
Sul punto: Pocar F. Diritto dell’Unione e delle comunità europee, Milano, 2004, pagg. 299 ss.
[24] Sentenza del 16 giugno 2005, in causa C-105/03, Pupino:
“[…] Sarebbe difficile per l’Unione adempiere alla sua missione se il principio di leale cooperazione […] non si imponesse anche nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale […]. Occorre concludere che il principio di interpretazione conforme si impone riguardo alle decisioni quadro adottate nell’ambito del titolo VI del Trattato sull’Unione Europea. Applicando il diritto nazionale, il giudice del rinvio, chiamato ad interpretare quest’ultimo, è tenuto a farlo, per quanto possibile, alla luce della lettera e dello scopo della decisione quadro al fine di conseguire il risultato perseguito […]. Occorre tuttavia rilevare che l’obbligo per il giudice nazionale di far riferimento al contenuto di una decisione quadro, quando interpreta le norme pertinenti del suo diritto nazionale, trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività. Questi principi ostano in particolare a che il detto obbligo possa condurre a determinare o ad aggravare, sul fondamento di una decisione quadro e indipendentemente da una legge adottata per l’attuazione di quest’ultima, la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni […]”.
La sentenza si può leggere in: http://curia.eu.int Sul punto: Bruti Liberati E. Per la Commissione “decisione storica”.In: Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2005, pag. 26.
Maciocchi P. Cooperazione penale rafforzata. In: Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2005, pag. 26.
Selvaggi E. Decisioni quadro più pesanti. In: Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2005, pag. 27.
Selvaggi E. Ripercussioni anche sul mandato d’arresto europeo. In: Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2005, pag. 27.
[25] Per tutti: Villoni O.
Decisione quadro e Legge italiana di attuazione: aspetti generali. In: Dattiloscritto dell’intervento presso la giornata di studio della Formazione Decentrata del Consiglio Superiore della Magistratura. Roma, 18.05.2005.
[26] Quindi, dopo l’11 settembre del 2001.
[27] Considerazione n. 17 delle conclusioni della Presidenza:
L’Unione Europea ribadisce la sua piena solidarietà con il popolo americano e la Comunità Internazionale nella lotta contro il terrorismo nel pieno rispetto dei diritti e delle libertà individuali. L’attuazione del piano di azione stabilito il 21 settembre si svolge conformemente al calendario stabilito. I progressi realizzati indicano che gli obiettivi saranno conseguiti. L’accordo sul mandato d’arresto europeo costituisce un progresso decisivo. La definizione comune dei reati di terrorismo, l’elaborazione di elenchi di terroristi e di organizzazioni, gruppi ed entità terroristiche, la cooperazione tra servizi speciali nonché la normativa adottata in materia di blocco dei beni a seguito della risoluzione 1373 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite costituiscono altrettante risposte concrete nella lotta al terrorismo. Il Consiglio Europeo invita il Consiglio e la Commissione a procedere sollecitamente alla messa a punto del programma diretto a migliorare la cooperazione tra gli Stati membri in materia di minacce di uso di mezzi biologici e chimici; tale cooperazione avverrà nel quadro delle attività dell’Agenzia europea per la protezione civile.
Considerazione n. 45 delle conclusioni della Presidenza:
La decisione quadro sulla lotta alla tratta degli esseri umani, il mandato d’arresto europeo nonché la definizione comune dei reati di terrorismo e delle pene minime rappresentano un importante progresso. Occorre proseguire gli sforzi volti a superare le difficoltà connesse con la diversità dei sistemi giuridici, in particolare agevolando il riconoscimento delle decisioni giudiziarie sia in campo civile che penale. In questo contesto, l’armonizzazione del diritto di famiglia ha registrato un progresso fondamentale con l’abolizione delle procedure intermedie per il riconoscimento di talune sentenze e, in particolare, il diritto di visita transfrontaliera dei figli minori.
[28] Il testo della Decisione quadro n. 2002/584/GAI è pubblicato in G.U.C.E. n. L 190 del 18 luglio 2002.
[29] Questa disposizione presta il fianco a critiche, dal momento che l’automatismo dell’arresto prescinde dai presupposti di urgenza previsti, dal nostro ordinamento, in tema di arresto provvisorio (articolo 716 c.p.p.).
Campo d’applicazione del mandato d’arresto europeo.
1. Il mandato d’arresto europeo può essere emesso per dei fatti puniti dalle leggi dello Stato membro emittente con una pena privativa della libertà o con una misura di sicurezza privative della libertà della durata massima non inferiore a dodici mesi oppure, se è stata disposta la condanna a una pena o è stata inflitta una misura di sicurezza, per condanne pronunciate di durata non inferiore a quattro mesi.
2. Danno luogo a consegna in base al mandato d’arresto europeo, alle condizioni stabilite dalla presente decisione quadro e indipendentemente dalla doppia incriminazione per il reato, i reati seguenti, quali definiti dalla legge dello Stato membro emittente, se in detto Stato membro il massimo della pena o della misura di sicurezza privative della libertà per tali reati è pari o superiore a tre anni:
. partecipazione a un’organizzazione criminale;
. terrorismo;
. tratta di esseri umani;
. sfruttamento sessuale dei bambini e pornografia infantile;
. traffico illecito di stupefacenti e sostanze psicotrope;
. traffico illecito di armi, munizioni ed esplosivi;
. corruzione;
. frode, compresa la frode che lede gli interessi finanziari delle Comunità Europee ai sensi della Convenzione del 26 luglio 1995 relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee;
. riciclaggio di proventi di reato;
. falsificazione di monete, compresa la contraffazione dell’euro;
. criminalità informatica;
. criminalità ambientale, compreso il traffico illecito di specie animali protette e il traffico illecito di specie e di essenze vegetali protette;
. favoreggiamento dell’ingresso e del soggiorno illegali;
. omicidio volontario, lesioni personali gravi;
. traffico illecito di organi e tessuti umani;
. rapimento, sequestro e presa di ostaggi;
. razzismo e xenofobia;
. furti organizzati o con l’uso di armi;
. traffico illecito di beni culturali, compresi gli oggetti d’antiquariato e le opere d’arte;
. truffa;
. racket e estorsioni;
. contraffazione e pirateria in materia di prodotti;
. falsificazione di atti amministrativi e traffico di documenti falsi;
. falsificazione di mezzi di pagamento;
. traffico illecito di sostanze ormonali ed altri fattori di crescita;
. traffico illecito di materie nucleari e radioattive;
. traffico di veicoli rubati;
. stupro;
. incendio volontario;
. reati che rientrano nella competenza giurisdizionale della Corte penale internazionale;
. dirottamento di aereo/nave;
. sabotaggio.
3. Il Consiglio può decidere in qualsiasi momento, deliberando all’unanimità e previa consultazione del Parlamento Europeo alle condizioni di cui all’articolo 39, paragrafo 1 del trattato sull’Unione Europea (T.U.E.), di inserire altre categorie di reati nell’elenco di cui al paragrafo 2 del presente articolo. Il Consiglio esamina, alla luce della relazione sottopostagli dalla Commissione ai sensi dell’articolo 34, paragrafo 3, se sia opportuno estendere o modificare tale elenco.
4. Per quanto riguarda i reati non contemplati dal paragrafo 2, la consegna può essere subordinata alla condizione che i fatti per i quali è stato emesso il mandato d’arresto europeo costituiscano un reato ai sensi della legge dello Stato membro di esecuzione indipendentemente dagli elementi costitutivi o dalla qualifica dello stesso.
[31] Così Selvaggi E. – Villoni O.
Questioni reali e non sul mandato d’arresto europeo. In:Diritto penale e processo 2/2002, pag. 450.
Calvanese E. – De Amicis G. Dalla Convenzione di Parigi al Vertice di Laeken la lunga storia del mandato d’arresto europeo. In: Guida al diritto 1/2002, pag. 106.
[32] In realtà, è preferibile parlare di “presunzione di sussistenza” del requisito della doppia incriminabilità.
Motivi di non esecuzione obbligatoria del mandato di arresto europeo.
L’autorità giudiziaria dello Stato membro di esecuzione (in prosieguo: “autorità giudiziaria dell’esecuzione”) rifiuta di eseguire il mandato d’arresto europeo nei casi seguenti:
1) se il reato alla base del mandato d’arresto è coperto da amnistia nello Stato membro di esecuzione, se quest’ultimo era competente a perseguire il reato secondo la propria legge penale;
2) se in base ad informazioni in possesso dell’autorità giudiziaria dell’esecuzione risulta che la persona ricercata è stata giudicata con sentenza definitiva per gli stessi fatti da uno Stato membro a condizione che, in caso di condanna, la sanzione sia stata applicata o sia in fase di esecuzione o non possa più essere eseguita in forza delle leggi dello Stato membro della condanna;
3) se la persona oggetto del mandato d’arresto europeo non può ancora essere considerata, a causa dell’età, penalmente responsabile dei fatti all’origine del mandato d’arresto europeo in base alla legge dello Stato membro di esecuzione.
Motivi di non esecuzione facoltativa del mandato di arresto europeo.
L’autorità giudiziaria dell’esecuzione può rifiutare di eseguire il mandato d’arresto europeo:
1) se, in uno dei casi di cui all’articolo 2, paragrafo 4, il fatto che è alla base del mandato d’arresto europeo non costituisce reato ai sensi della legge dello Stato membro di esecuzione; tuttavia in materia di tasse e di imposte, di dogana e di cambio, l’esecuzione del mandato di arresto europeo può essere rifiutata in base al fatto che la legislazione dello Stato membro di esecuzione non impone lo stesso tipo di tasse o di imposte o non contiene lo stesso tipo di normativa in materia di tasse, di imposte, di dogana e di cambio della legislazione dello Stato membro emittente;
2) se contro la persona oggetto del mandato d’arresto europeo è in corso un’azione nello Stato membro di esecuzione per il medesimo fatto che è alla base del mandato d’arresto europeo;
3) se le autorità giudiziarie dello Stato membro dell’esecuzione hanno deciso di non esercitare l’azione penale per il reato oggetto del mandato d’arresto europeo oppure di porvi fine, o se la persona ricercata ha formato oggetto in uno Stato membro di una sentenza definitiva per gli stessi fatti che osta all’esercizio di ulteriori azioni;
4) se l’azione penale o la pena è caduta in prescrizione secondo la legislazione dello Stato membro di esecuzione e i fatti rientrano nella competenza di tale Stato membro in virtù del proprio diritto penale;
5) se in base ad informazioni in possesso dell’autorità giudiziaria dell’esecuzione risulta che la persona ricercata è stata giudicata con sentenza definitiva per gli stessi fatti da un paese terzo a condizione che, in caso di condanna, la sanzione sia stata applicata o sia in fase di esecuzione o non possa più essere eseguita in forza delle leggi del paese della condanna;
6) se il mandato d’arresto europeo è stato rilasciato ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà, qualora la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda, se tale Stato si impegni a eseguire esso stesso tale pena o misura di sicurezza conformemente al suo diritto interno;
7) se il mandato d’arresto europeo riguarda reati:
a) che dalla legge dello Stato membro di esecuzione sono considerati commessi in tutto o in parte nel suo territorio, o in un luogo assimilato al suo territorio; oppure b) che sono stati commessi al di fuori del territorio dello Stato membro emittente, se la legge dello Stato membro di esecuzione non consente l’azione penale per gli
stessi reati commessi al di fuori del suo territorio.
[35] Per tutti: Salazaar L.
Il mandato d’arresto europeo: un primo passo verso il mutuo riconoscimento delle decisioni penali, Diritto penale e processo 2/2002, pag. 1044.
[36] In generale, sulla legge italiana di attuazione del mandato d’arresto europeo, v. i primi contributi offerti da AA.VV.,
Mandato d’arresto europeo, a cura di Bargis-Selvaggi, Torino, 2005; AA.VV.,
Mandato d’arresto europeo e procedure di consegna, a cura di Kalb, Milano, 2005; AA.VV.,
Il mandato d’arresto europeo, a cura di Pansini-Scalfati, Napoli, 2005; AA.VV.,
Il mandato di arresto europeo, a cura di Chiavario, De Francesco, Manzione e Marzaduri, Torino, 2006; AA.VV.,
Commento alla l. 22 aprile 2005, n. 69, a cura di Bricchetti, Barazzetta, Battista, Calvanese, De Amicis, Dedola, Frigo, Frosini e Selvaggi, in Guida dir., 2005, n. 19, 65 s.; De Amicis-Iuzzolino, Al via in Italia il mandato d’arresto U.E., in D&G, 2005, n. 19 (inserto speciale), 11 s.; De Amicis-Iuzzolino,
Mandato d’arresto UE e legge italiana: così le disposizioni finali e transitorie, ivi, 2005, n. 21, 118 s.; Selvaggi-De Amicis,
La legge sul mandato d’arresto europeo tra inadeguatezze attuative e incertezze applicative, in Cass. pen., 2005, 1814 s.; AA.VV.,
Commento alla l. 22 aprile 2005, n. 69, a cura di Del Tufo, Scalfati, Marchetti e Tonini, in Dir. pen. proc., 2005, 938 s.; De Amicis, L’attuazione del mandato d’arresto europeo nell’ordinamento italiano, in Giur. merito, 2006, 767 s.; Chiavario,
Lineamenti di diritto processuale penale, II ed., Torino, 2006; Tonini,
Manuale di procedura penale, VI ed., Milano, 2005, 879 e s..
[37] Per tutti: Villoni O.
Decisione quadro e legge italiana di attuazione: aspetti generali. In: Dattiloscritto dell’intervento presso la giornata di studio della formazione decentrata del Consiglio Superiore della Magistratura – Roma, 18.05.2005.
[38] Detta norma non solo è incompatibile con la Decisione quadro ed il suo spirito, bensì è innovativa (in negativo) anche nei confronti del precedente sistema (si confronti l’articolo 12 della Convenzione del 1957), il quale consentiva
l’arresto e la consegna su richiesta dei Pubblici Ministeri, dato il riferimento generico a “[…] decisione esecutiva di condanna o di un mandato di arresto o di qualsiasi altro atto avente la stessa forza, rilasciato nelle forme prescritte nella legge dalla Parte richiedente […]”.
[39] a) identità e cittadinanza del ricercato;
b) nome, indirizzo, numero di telefono e di fax, indirizzo di posta elettronica dell’autorità giudiziaria emittente;
c) indicazione dell’esistenza di una sentenza esecutiva, di un provvedimento cautelare o di qualsiasi altra decisione giudiziaria esecutiva che abbia la stessa forza e che rientri nel campo di applicazione degli articoli 7 e 8 della presente legge;
d) natura e qualificazione giuridica del reato;
e) descrizione delle circostanze della commissione del reato, compresi il momento, il luogo e il grado di partecipazione del ricercato;
f) pena inflitta, se vi è una sentenza definitiva, ovvero, negli altri casi, pena minima e massima stabilita dalla legge dello Stato di emissione;
g) per quanto possibile, le altre conseguenze del reato.
[40] Ersilia Calvanese – Gaetano De Amicis,
Mutuo riconoscimento solo nelle intenzioni, in Guida al Diritto, n. 19 – 2005, p. 77.
[41] Detto articolo descrive il MAE come una decisione giudiziaria volta alla consegna di una persona, “
…al fine dell’esercizio di azioni giudiziarie in materia penale o dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale”.
[42] Adolfo Scalfati,
La procedura passiva di consegna, in Diritto penale e processo n. 8 – 2005.
[43] Gaetano De Amicis – Gabriele Iuzzolino,
Al via in Italia il mandato d’arresto UE, in Diritto e Giustizia, n. 19 – 2005, p. 62
[44] V. art. 1 comma 3 l. 69/2005.
[45] Ersilia Calvanese – Gaetano De Amicis,
Mutuo riconoscimento solo nelle intenzioni, Guida al diritto, 19/2005, p. 78.
[46] Cfr. Cass. 27/03/2000, n. 1118, , Sez. VI, rv. 215851, Odigie Obeide; Cass. 01/12/2004, n. 47039, Sez. VI, rv. 230498, Rabei Osman.
[47] Cfr. Cass. 13/09/2005, n. 33642, Sez. Feriale, Hussain.
[48] V., in particolare, Cass. 23-26 settembre 2005, Ilie Petre, n. 34355, in D.&G., 2005, n. 37, 41 ss., con nota di De Amicis,
Il mandato d’arresto UE? Si applica così. Estradizione, sì al reciproco affidamento, ivi, 36 ss., nonché in Guida dir., 2005, n. 41, 79 s., con note di Selvaggi,
Dai principi generali interni ed europei i parametri del «controllo sufficiente», ivi, 83 s., e Frigo,
Va seguito un modello di massima garanzia, ivi, 86 ss. Cfr., inoltre, Cass. 13-14 settembre 2005, Hussain Osman, n. 33642, in Diritto&Giustizia.it del 16 settembre 2005, con nota di De Amicis, op. ult. cit., 36 ss., nonché in Guida dir., 2005, n. 38, 67 s., con note di Selvaggi,
Un’interpretazione in linea con lo spirito della decisione quadro, ivi, 74 ss., e di Frigo,
Lettura riduttiva della Cassazione, ivi, 76 ss. ed in Foro it., 2005, II, c. 497 ss., con nota di Iuzzolino.
[49] App. Venezia, sez. IV, 16 settembre 2005, P.G.M., reperibile sul sito
www.giustizia.lazio.it, voce Mandato di Arresto Europeo a cura di Selvaggi. La sentenza della predetta corte di merito è stata poi confermata da Cass., sez. VI, 13-14 ottobre 2005, n. 36630, reperibile sul sito prima citato.
[50] Cfr., ex plurimis, Cass. 3 marzo 2000, Odigie Obeide, in Cass. pen., 2001, p. 1271; Cass. 27 maggio 1999, Galati, ivi, 2001, 549; Cass. 16 dicembre 1997, Chatzis, in C.E.D. Cass. n. 209778; Cass. 11 gennaio 1999, Shabana, ivi, n. 213322.
[51] Corte giust. CE (Grande Sezione), 16 giugno 2005, C-105/03, Pupino, leggibile sul sito: http://curia.eu.int7jurisp/cgi-bin/form.pl?lang=it.
[52] V. Corte Appello Venezia 3.11.2005 con nota di M. Rolla,
La libertà personale tra procedimento estradizionale e mandato di arresto europeo, Giur. Merito, 2007, 1, 150.
[53] V., al riguardo, De Amicis-Iuzzolino,
Al via in Italia il mandato d’arresto UE, in D.&G., 2005, n. 19 (inserto speciale), 58 ss.
[56] Ricorrente Palombarini, in Foro it., 2007, n. 3.
[57] App. Bologna ord., 21 giugno 2005, Guillemin, in Foro it., 2005, II, c. 522, con nota di Iuzzolino.
[58] In tal senso, v. i rilievi di Iuzzolino,
Squadre investigative e arresto europeo, in D.&G., 2003, n. 15 (inserto speciale), c. 523.
[59] Trib. Bolzano 28 luglio 2005, Theiner, in Foro it., 2005, II, c. 498 s., con nota di Iuzzolino, nonché in Guida dir., 2005, n. 36, 82 s., con nota di Frigo,
Inadeguato il regime delle impugnazioni nella procedura passiva di consegna, ivi, 86 s.; sul regime dell’impugnazione quale forma di controllo sulle decisioni in tema aventi ad oggetto il mandato di arresto europeo cfr. Ceresa-Gastaldo,
I mezzi di impugnazione, in AA.VV., Mandato di arresto europeo, a cura di Bargis e Selvaggi, cit., 315 e ss.
[62] Giur. merito 2007, 5, 1427
[63] Cfr., al riguardo, per un primo commento, Iuzzolino,
E la legge di attuazione va alla Consulta. I dubbi di legittimità punto per punto,in D&G, 2006, n. 47, 50
[64] Cfr. – in relazione ad un caso in cui era stata richiesta la consegna da uno Stato, ossia il Belgio, che utilizza il meccanismo dei controlli periodici da parte del giudice, con scadenze frequenti e predeterminate, senza la previsione di automatismi liberatori collegati al superamento di limiti massimi di detenzione preventiva – Cass., sez. VI, 8 maggio 2006, Cusini, in Cass. pen., 2006, 3145, con osservazioni critiche di Selvaggi; Foro it., 2006, II, c. 409, con nota di richiami, D&G, 2006, n. 23, 77.
[65] Cfr., ad es., Cass., sez. VI, 23 settembre 2005, Ilie, nonché, Cass., sez. F., 13 settembre 2005, Hussain, in D&G, 2005, n. 37, 41 s., con nota di G. De Amicis,
Il mandato d’arresto UE? Si applica così. Estradizione, sì al reciproco affidamento, ivi, 36 s., nonché in Guida dir., 2005, n. 41, 79 s., con note di Selvaggi,
Dai principi generali interni ed europei i parametri del «controllo sufficiente», ivi, 83 s., e di Frigo,
Va seguito un modello di massima garanzia, ivi, 86 s. con riguardo alla valutazione della gravità degli indizi posti alla base del provvedimento cautelare straniero ed al requisito della sua motivazione, seguite da numerose altre (ad es., Cass., sez. VI, 13 ottobre 2005, Pangrac, in Ced Cass., n. 232584; Cass., sez. VI, 28 aprile 2006, Arioua, ivi, n. 234126; Cass., sez. VI, 12 giugno 2006, Truppo, ivi, n. 234166), ove la S.C. ha mostrato di valorizzare un metodo interpretativo non incentrato sulla considerazione del mero dato letterale al fine di ridimensionare i possibili effetti distorsivi di talune disposizioni interne
extra vagantes rispetto al contenuto ed alle finalità della Decisione quadro.
[66] V Corte giust. CE, 16 giugno 2005, Pupino, C-105/03, in Cass. pen., 2005, 3167, nonché in Dir. pen. proc., 2005. Sui limiti e gli effetti della cosidetta interpretazione conforme, vedi, in particolare, i commenti di Manes,
L’incidenza delle decisioni quadro sull’interpretazione in materia penale: profili di diritto sostanziale, in Cass. pen., 2006, 1150 s.; di Armone,
La Corte di Giustizia e il terzo pilastro dell’Unione europea, in Foro it., 2006, IV, c. 587 s.; di Fabbricatore,
Caso Pupino: sul riconoscimento dell’efficacia diretta delle decisioni quadro, in Dir. pen. proc., 2006, 640 s., nonché di Ruvolo,
Il giudice nazionale a confronto con la nozione di interpretazione conforme e con la sua «particolare» applicazione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Nuove autonomie, 2006, 251 s., e di Starita,
A proposito di effetti diretti delle decisioni quadro, ivi, 84 s.
[67] Cass., sez. un., n. 4614 del 5 febbraio 2007, Ramoci, in Foro it., 2007, n. 3, con osservazioni di Iuzzolino, nonché in Guida dir., 2007, n. 10, 43 s., con note di commento di Frigo,
Annullare la garanzia del limite massimo sconfina nelle prerogative del legislatore, ivi, 55 s., e di Selvaggi,
Recuperata una soglia di ragionevolezza, ivi, 60 s., con riguardo ad un caso in cui lo Stato richiedente (la Germania) non solo, per prassi, tende a contenere in tempi ridotti la durata complessiva della
custodia ante iudicium, ma la cui legislazione prevede, soprattutto, un meccanismo fondato su un limite massimo di custodia cautelare (sei mesi), assicurando, anche nell’eventualità di una proroga, la sottoposizione a controlli
ex officio, cadenzati nel termine massimo di tre mesi, cui è condizionata la necessità di mantenere l’imputato nello
status custodiae (imponendosi, in mancanza, un automatico effetto liberatorio).
[68] Cfr., sul punto, i condivisibili suggerimenti indicati da Iuzzolino,
E la legge di attuazione va alla Consulta ecc., cit., 52, che ipotizza una riformulazione che faccia riferimento alla necessità che i termini di carcerazione preventiva siano compatibili con il principio della ragionevole durata della detenzione, pur non dovendo necessariamente esser predeterminati dalla legge dello Stato che ha emesso il Mandato d’Arresto Europeo.
[69] Cfr., ad es., C. cost. 18 aprile 1991, n. 168; C. cost. 21 aprile 1989, n. 232; C. cost., 18 giugno 1979, n. 48; C. cost. 27 dicembre 1973, n. 183.
[70] Cfr., ad es., C. cost. 3 novembre 2005, n. 406 e C. cost., 28 marzo 2006, n. 129.
[72] La principali delle quali sono costituite da Corte cost., sent. n. 14 del 1964; Corte di Giustizia, sent. 15 luglio 1964,
Costa/Enel; Corte cost. sent. n. 98 del 1975; Corte cost., sent. n. 183 del 1973; Corte di Giustizia, sent. 9 marzo 1978,
Simmenthal ; Corte cost., sent. n. 170 del 1984. Importante in proposito è anche l’evoluzione della giurisprudenza del
Bundesverfassungsgericht, 29 maggio 1974 (c.d.
Solange I); 22 ottobre 1986 (c.d.
Solange II); e 12 ottobre 1993 (c.d.
Maastrichturteil). In proposito cfr., da ultimo, A. La Pergola,
Il giudice costituzionale italiano di fronte al primato e all’effetto diretto del diritto comunitario: note su un incontro di studio, in
Giur.cost., 2003, 2419 ss.; A. Celotto, I primi passi del “cammino comunitario” della Corte costituzionale nelle osservazioni apparse in “Giurisprudenza costituzionale”, in A. Pace (a cura di), Corte costituzionale e processo costituzionale, Milano, Giuffrè, 2006, p.175 ss.; A. Pertici, Il diritto comunitario nella giurisprudenza costituzionale: un bilancio in attesa di una “svolta”, ivi, p. 722 ss.
[73] Cfr. P.Barile,
Il cammino comunitario della Corte costituzionale, in
Giur.cost., 1973, 2406 ss.
http://www.cortedicassazione.it/Notizie/GiurisprudenzaComunitaria/CorteGiustizia/CorteGiustizia.asp# e in Guida al Diritto Comunitario n. 3/2007.
[75] Rilievi del tutto simili, quest’ultimi, a quelli mossi in Italia nel famoso parere dei Presidenti Caianiello e Vassalli, in Cassazione penale, 2002, p. 462 – 467.
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