Il TITOLO I, del Decreto Legge 4 luglio 2006, n. 233, convertito con Legge 4 agosto 2006 n. 248, altrimenti noto come decreto Decreto Bersani, reca “misure urgenti per lo sviluppo, la crescita e la promozione della concorrenza e della competitività, per la tutela dei consumatori e per la liberalizzazione di settori produttivi”.
In particolare, l’articolo 1, denominato “Finalità e ambito di intervento”, recita “1. Le norme del presente titolo, adottate ai sensi degli articoli 3, 11, 41 e 117, commi primo e secondo, della Costituzione, con particolare riferimento alle materie di competenza statale della tutela della concorrenza, dell’ordinamento civile e della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, recano misure necessarie ed urgenti per garantire il rispetto degli articoli 43, 49, 81, 82 e 86 del Trattato istitutivo della Comunità europea ed assicurare l’osservanza delle raccomandazioni e dei pareri della Commissione europea, dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e delle Autorità di regolazione e vigilanza di settore, in relazione all’improcrastinabile esigenza di rafforzare la libertà di scelta del cittadino consumatore e la promozione di assetti di mercato maggiormente concorrenziali, anche al fine di favorire il rilancio dell’economia e dell’occupazione, attraverso la liberalizzazione di attività imprenditoriali e la creazione di nuovi posti di lavoro.
1-bis. Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano in conformità agli statuti speciali e alle relative norme di attuazione.”
Credo che non occorra andare oltre per comprendere, con un sufficiente grado di oggettività, che le intenzioni del legislatore, almeno nelle previsioni di apertura del decreto, sono tese al rilancio economico e sociale del Paese.
Tuttavia, competitività, liberalizzazioni, aumento della produttività, prima che questioni di governo, sono materie di attenzione popolare dal momento che vengono invocate, ovviamente per interessi diversi, da tutte le parti sociali.
Eppure, nonostante tali iniziative legislative siano degne di considerazione almeno nel merito – nei fatti lo vedremo nel tempo – ritengo che ci sia un grande assente al quale occorre tributare la dovuta attenzione per la semplice ragione che è il primo fattore di successo di un ipotetico, speriamo prossimo, rilancio economico e sociale del paese, la “risorsa umana”.
Obiettivamente si può e si deve riconoscere che l’Italia è un paese che spesso vive in ritardo, rispetto ad altri paesi, la costruzione del proprio sviluppo, come nel caso del passaggio, nel dopoguerra, da una società agricola ad una società industriale, avvenuto grazie all’efficace sintonia tra pubblico e privato, il primo attraverso lo strumento della riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno, il secondo attraverso l’investimento di risorse da parte degli imprenditori e l’assunzione del relativo rischio, o come nel caso più recente nel passaggio dall’industria pesante al terziario avanzato ancora in fase primordiale.
Il Prof. Pier Giuseppe Monateri ha pubblicato sul sito della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, un “Rapporto sul Mobbing”, ineguagliabile per completezza e competenza.
Il rapporto citato ripercorre, in un’ottica comparatistica, dalla genesi ai giorni nostri, l’evoluzione del fenomeno sociale del mobbing, le peculiarità del fenomeno nel settore pubblico ed in quello privato, la responsabilità civile e la responsabilità penale da mobbing.
Dottrina e giurisprudenza forniscono diverse definizioni di mobbing. Richiamo la seguente, peraltro ripresa anche dal Prof. Monateri, che giudico pienamente espressiva del fenomeno:“qualunque condotta che si manifesti, in particolare, attraverso comportamenti, parole, atti, gesti, scritti capaci di arrecare offesa alla personalità, alla dignità o all’integrità fisica o psichica di una persona, di metterne in pericolo l’impiego o di degradare il clima lavorativo”.
Ciò detto, alla luce della disciplina promossa dal citato decreto e delle convergenti dichiarazioni di principio di autorevoli professionisti, di cui in prosieguo illustrerò le opinioni/interviste, vorrei uscire dalla dimensione socio-lavorativa del mobbing per descrivere le conseguenze nefaste che lo stesso comporta per i datori di lavoro in relazione alla redditività dell’impresa.
Presupposto fondamentale per la costruzione logica dell’analisi in argomento, sul quale unanimemente si concorda, è lo straordinario processo della nuova economia, accelerata dallo sviluppo tecnologico, che anche sulla scia del passaggio dall’industria pesante al terziario avanzato, non conosce soste e costantemente rimodella e trasforma mercati, organizzazioni e professioni, obbligando le singole componenti dell’intero sistema ad adattarsi alle nuove esigenze.
Va da se che in tale contesto le variabili fondamentali per generare valore, profitto, o volgarmente successo, sono le nuove tecnologie e le intelligenze, queste ultime intese non solo come fisicità della risorsa umana, ma come competenza che la stessa è in grado di esprimere.
Le parole di Mario D’Ambrosio (Presidente Nazionale AIDP – Associazione Italiana per la Direzione del Personale) pronunciate in un’ intervista rilasciata nello scorso mese di marzo, ad un mensile economico:“nella società basata sulla conoscenza la maggiore responsabilità dei manager delle risorse umane sarà di valorizzare le Persone e la ricchezza dei loro saperi” tuonano come un giudizio universale per tutti coloro che ad una sana preparazione professionale, veicolo di sviluppo, preferiscono le pratiche in argomento.
I temi della competenza professionale e della costante formazione, mai come in questo momento, sono stati sull’altare della cronaca. Si ricorda per tutti la formazione continua degli avvocati, ma ancora, non basta propagandare la formazione, occorre che venga realizzata in coerenza con le attitudini personali dei destinatari, non sono più tempi per chiedere ad un fisico di fare il bilancio d’esercizio.
Arroccarsi sulle rendite di posizione, senza permettere lo sviluppo delle professionalità del personale sottostante, non solo è una posizione statica, di breve respiro, che come tutte le posizioni statiche diventa stitica, ma si traduce nella gestione del potere e non nella gestione industriale propria delle aziende.
Esemplare su questo tema, “gestione del potere anziché gestione industriale”, è il recente libro “FIAT I segreti di un’epoca” scritto da un autorevolissimo manager italiano, di quelli che ci invidiano anche all’estero, Giorgio Garuzzo, di cui si riporta uno stralcio della acuta introduzione di Alan Friedman “Giorgio Garuzzo assieme a Vittorio Ghidella è stato forse il più abile di tutti i manager che il Gruppo FIAT abbia avuto nel dopoguerra. Il suo libro è un viaggio dal di dentro, un accesso privilegiato alle decisioni, alle strategie che guidarono la Fiat dagli anni Settanta fino alla metà degli anni Novanta, dai fasti della Fiat Uno fino ai disastri provocati da una classe dirigente che poco conosceva il prodotto e ancor meno i mercati e le prassi internazionali e che si disinteressava della vita industriale dell’azienda per infilarsi in tutti gli affarucci nazionali. Ai miei occhi questo libro ha il grande pregio di aiutare a rispondere alla domanda che sovente mi sento fare: come si è riusciti a far andar male un colosso come la Fiat, malgrado la sua forza storicamente enorme ? [ ….] E’ per questo che sono più che onorato di presentare un libro speciale, importante e coraggioso. Chi legge queste pagine non può non apprezzare il fatto che comunque ci sono sempre italiani pronti a steccare nel coro, come diceva Indro Montanelli. Italiani che lavorano per una società e un’economia migliori e più aperte”.
In tale contesto il fenomeno mobbing, sopra appena cennato, è solo una delle componenti “negative”, dalle pesanti ricadute, di un sistema digiuno di valori, comunemente definiti etici e sociali, ma attrezzato per la loro ricerca dopo ogni scandalo che ne invoca la necessità.
In realtà, la conseguenza più dannosa di tale fenomeno viene inflitta all’azienda in termini di redditività ed efficienza economica a causa dell’assenteismo e minore produttività dei lavoratori mobbizzati, come pure ampiamente riconosciuto ed argomentato nella Risoluzione A5-0283/2001 del Parlamento Europeo.
Va rilevato che il fenomeno in questione, pur nella unicità dei suoi caratteri, benché sia inevitabilmente più diffuso nelle Aziende statali che in quelle private, come dimostrato anche dalle statistiche contenute nel rapporto del Prof. Monateri, produce risultati diversi nei due ambiti pubblico e privato.
Nel settore privato gli effetti di una certa italianità nella gestione delle risorse umane è individuabile nelle dimensioni medio/piccole delle imprese nostrane il famoso capitalismo familiare.
In una recente intervista Roger Abravanel, “director emeritus” di Mc Kinsey, ha affermato che la scarsa propensione alla ricerca di professionalità all’esterno della famiglia ha indotto quest’ultime ad adattare lo sviluppo delle aziende alle esigenze familiari precludendosi possibili vie di sviluppo.
Nel settore pubblico l’effetto più vistoso del mobbing è il forte calo di produttività dei soggetti colpiti, che spesso, stando alle parole del Prof. Monateri sono “persone che sono al di sopra della media e proprio per questo vengono prese di mira”, cui va aggiunto il costo sociale che tali disturbi psicofisici comportano in termini di indennità di malattia o di eventuali pre-pensionamenti forzosi.
Il tema della gestione delle risorse umane, per le conseguenze che derivano alle aziende in termini di produttività, sembra sempre più attuale. E a rendere evidente la stringente esigenza di una corretta gestione sono le recentissime opinioni espresse in due interviste separate da due eminenti personalità il Dottor Pier Luigi Celli, Direttore generale della Luiss, già Direttore Generale della RAI, e il Senatore Tiziano Treu Presidente della undicesima Commissione permanente (Lavoro, previdenza sociale).
Il primo, in una intervista dal titolo “I mediocri scelgono i mediocri” rilasciata al quotidiano Il Sole 24 Ore il 28 febbraio 2007, titolo che esprime con pienezza l’aria fina che respira il Dottor Celli, ha così risposto: domanda “Ma che cosa si deve intendere per classe dirigente” risposta “Non so se sia una classe o un ceto. Si tratta di una serie di responsabili che, pur operando in particolari settori, esercitano il loro potere e ruolo in modo civico, pensando al bene comune, come fanno le vere élite. Oggi abbiamo meno élite e sempre più dirigenti preoccupati di conservare se stessi.” domanda“Quali sono le doti di un vero dirigente ?” risposta “Sono la lungimiranza e la generosità. Per essere classe dirigente bisogna avere la vista lunga ed essere generosi. Inoltre serve una buona cultura di base, non solo tecnica. L’attuale classe dirigente non legge, non prende in mano i buoni libri. Dice che non ha tempo da perdere, non vuole perdere tempo con la cultura. Il risultato ? E’ sotto gli occhi di tutti. E la colpa non è certamente del Paese”.
Il secondo, in un’intervista rilasciata al mensile “L’IMPRESA – rivista italiana di management” del mese di marzo 2007, di cui, per brevità se ne riporta uno stralcio, domanda: “E’ un problema di modelli di gestione delle risorse umane ?” risposta; “E’ un problema di mentalità; credo che dovremo approfondire il problema del trasferimento delle innovazioni, non solo tecnologiche, ma anche manageriali. In Italia abbiamo modelli di eccellenza nella gestione delle imprese che non vengono trasferiti adeguatamente nella generalità del tessuto economico (nella manifattura e soprattutto nei servizi). Non è possibile che io apprenda cose interessanti dalle ricerche in tema di risorse umane e poi continui a incontrare imprenditori del nord-est o anche del nord-ovest che mi mostrano situazioni irrazionali e diagnosi così rudimentali dei problemi del lavoro da risultare preoccupanti.” Domanda; “Qualche altra considerazione ?” risposta; “Un altro problema è la formazione. Il gap italiano maggiore è proprio sulla formazione. La metà della forza lavoro italiana ha ancora solo la scuola media inferiore. Siamo cioè a cinquant’anni fa e la media comprende anche gli imprenditori. […..] La formazione continua viene praticata in media solo dal 3-4% dei dipendenti. Continuando così il Paese non sarà in grado di competere” domanda; “ Di fronte a queste sfide quale dovrebbe essere il ruolo della funzione HR ?” risposta; “Intanto non è vero che la forza della funzione HR sia il presidio delle relazioni sindacali, anzi se guardiamo al mondo è vero il contrario. Io penso che sia meglio una gestione dei rapporti di lavoro basata sul consenso e sulla gestione, almeno in parte, condivisa. L’essenza della funzione HR è governare il cambiamento, utilizzarlo per il benessere delle persone ed evitare che sia invece un elemento di trauma continuo. […] Occorre cercare delle forme di gestione delle risorse umane che sappiano affrontare le istanze che vengono da persone diverse.”
Fintantoché i titolari di posizioni di responsabilità saranno impegnati a conservare le rendite materiali, anziché sviluppare quei valori immateriali di equità, fondamentali per ogni costruzione sociale che ponga al centro del sistema il capitale umano, quali il valore della conoscenza, della motivazione, di un sano sistema di premi e punizioni, nonché non meno importante l’etica che sottende lo scopo sociale della società, il declino economico e sociale sarà inevitabile.
Si propone agli interessati di inviare al seguente indirizzo di posta elettronica
progil1@yahoo.it, commenti, contributi etc. al fine di presentare la richiesta di trattare il tema ad una trasmissione televisiva d’opinione.
06.04.07
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