Il mobbing è stato identificato con “le pratiche dirette ad isolare un dipendente dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore” (Trib. Torino, 30.XII.99), producendo un danno alla salute risarcibile ex art.2087 cc . Tali condotte vessatorie possono esplicitarsi in comportamenti attivi o omissivi, non necessariamente illeciti in sé, posti in essere dal
datore di lavoro o da soggetti intermedi con continuità. Sotto il profilo civilistico, quindi, si richiama l’art.2087, che pone a carico del datore di lavoro l’obbligo di sicurezza, volto alla tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore. In base a ciò, a carico del datore di lavoro è configurabile una responsabilità di natura contrattuale rispetto all’impedimento del singolo comportamento vessatorio. Più in generale, è possibile considerare il datore responsabile anche ai sensi dell’art.2043 per violazione dell’obbligo generale di non arrecare ad altri un danno ingiusto. Sotto il profilo penale, in assenza di un reato ad hoc, a seconda della condotta concreta può sussistere responsabilità:
ex art.323 cp, se le vessazioni, compiute nell’ambito di un ufficio pubblico, configurino il delitto di abuso d’ufficio;
ex artt. 582-83 cp se siano derivate lesioni;
ex art.594 se siano occorse ingiurie;
ex art.609 bis, se sia intervenuta violenza sessuale.
È interessante notare che, dopo l’introduzione dello stalking, si inizia a parlare anche di stalking occupazionale, quando l’attività persecutoria inizia sul luogo di lavoro e si protrae nella sfera personale del mobbizzato.
La classificazione del mobbing, in generale, può definirsi: orizzontale, tra colleghi; verticale, ad opera del superiore gerarchico; ascendente, propria dei dipendenti danno del superiore gerarchico.
La giurisprudenza di merito ha precisato che il mobbing è composto da un elemento oggettivo e da uno psicologico. L’elemento oggettivo sono le vessazioni; l’elemento psicologico è il dolo specifico di nuocere alla psiche del lavoratore,al fine di emarginarlo. A tal riguardo, si rileva che, secondo Cass. 898/14, per mobbing “si deve intendere una condotta che, in violazione degli obblighi di protezione ex art.2087, consista in reiterati e prolungati atteggiamenti ostili , di intenzionale persecuzione e discriminazione psicologica ,con mortificazione ed emarginazione del lavoratore.” Ciò premesso, la sentenza indica quali elementi indicativi di fatto: la molteplicità delle condotte persecutorie, anche lecite, poste in essere in modo mirato, sistematico e prolungato; l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; il nesso causale tra la
condotta del superiore e il pregiudizio psico-fisico; la prova dell’elemento soggettivo.
Condotte rilevanti sono : molestie, maltrattamenti, ingiurie, condizioni di lavoro disagiate e frustranti, richieste continue di lavoro straordinario,negazione immotivata di permessi, trasferimenti illegittimi da un’unità produttiva all’altra,che assumano un’entità tale da comportare l’insorgere di vere e proprie patologie (cfr. cass.
12.048/11). Le condotte costituenti mobbing, quindi, possono essere illecite per violazione di una specifica disposizione di tutela, oppure per contrasto con la norma generale del 2087 cc
La problematicità della fattispecie sotto esame è ravvisabile nell’esempio del demansionamento. Secondo Cass. 7985/13, il mero “svuotamento delle mansioni” è insufficiente a ipotizzare una condotta vessatoria, “occorrendo, a tal fine, anche l’allegazione di una preordinazione finalizzata all’emarginazione del dipendente”. Difatti, il demansionamento può essere dovuto ad altri fattori: esigenze organizzative, incompetenza etc. In più, il giudice deve tener conto di fatti specifici e rilevanti ai fini dell’emarginazione della vittima, e non di “valutazioni delle mansioni” inerenti il contenuto formale degli incarichi conferiti.
Sotto il profilo dell’accertamento, la prova del nesso di causalità tra condotta lesiva del datore ed evento dannoso è , di regola, difficile. Difatti, il danno psichico non deriva da una sola condotta chiaramente vessatoria, ma da un insieme di episodi la cui lesività prescinde dalla gravità di ciascuno di essi.
Il danno da mobbing, infine, è stato qualificato, da orientamenti recenti, come danno esistenziale e, in quest’ultima ottica, viene ritenuto fattispecie autonoma rispetto al danno alla salute.
Per quanto riguarda il profilo giurisprudenziale, la casistica è estremamente variegata, data la molteplicità possibile di comportamenti. Cercheremo, quindi, dei fili logici conduttori, attinenti soprattutto al nesso causale e all’onere della prova rilevanti per le condotte “incriminabili” e gli eventi dannosi.
Con riguardo all’onere della prova, Cass. n. 10424/14 pone l’onere di prova in capo al lavoratore. Nella fattispecie, il dipendente non aveva provato a sufficienza il nesso eziologico intercorrente tra la condotta del superiore gerarchico ed il danno subito, l’intento persecutorio e la molteplicità di comportamenti lesivi. Interessante rilevare che , nel caso in cui il lavoratore non abbia chiaramente qualificato la domanda di accertamento e condanna per mobbing, il giudice del merito , nel caso in cui non risulti univocamente che le
condotte del superiore abbiano carattere vessatorio, possa comunque valutare se esse siano, effettivamente, mortificanti per il lavoratore, e quindi fondanti per il risarcimento.
Secondo Cass. 8804/14,il lavoratore deve provare che esiste un nesso causale tra le vessazioni subite durante l’attività lavorativa e la patologia insorta (nella specie, infarto cardiaco). Quest’ultima pronuncia riconosce esplicitamente il fondamento giuridico del mobbing nell’art.2087 cc. Difatti, la Corte precisa che “il ricorrente non aveva assolto al proprio preliminare onere di dimostrare l’esistenza di una condotta datoriale inadempiente agli obblighi che derivano dall’osservanza delle misure che debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro”. Nel merito, conclude che il lavoratore non ha dimostrato l’esistenza del danno alla salute connesso con la nocività dell’ambiente di lavoro: solo di fronte alla prova del nesso causale spetta al datore, invece, dimostrare di aver adottato tutte le misure in grado di prevenire il verificarsi del danno. La 172/14 pone la differenza tra mobbing e danno alla professionalità: il primo consiste nella sofferenza del soggetto cagionata da trattamenti ingiusti di colleghi e superiori, il secondo è invece il
demansionamento del lavoratore protratto nel tempo. Tale evento può comportare, inoltre, una perdita di opportunità lavorative per il dipendente. Le due figure sono indipendenti.
Cass.23949/13, sotto il profilo processuale, rileva che è inammissibile la domanda , rispetto alla prima presso il giudice di merito, su circostanze non comparse in primo grado e sulle quali non v’è stato contraddittorio.
Per 22.538/13, qualora il giudice accerti il nesso causale intercorrente tra le assenze reiterate e l’insanità dell’ambiente lavorativo, il datore di lavoro non può intimare lice3nziamento legittimo. Secondo 19.814/13, occorre una valutazione oggettiva del mobbing, che non coincide affatto con la percezione soggettiva della supposta vittima, eventualmente affetta da sensi di persecuzione patologica ( i c.d. “avversi numi” di foscoliana memoria). Nella fattispecie, i fatti denunciati sono rimasti indimostrati o irrilevanti. Difatti, i risultati della prova testimoniale, unitamente alla ctu, hanno rivelato un atteggiamento tendente a personalizzare come ostile ogni avvenimento. In conclusione, dunque, i caratteri distintivi del mobbing sono dati dalla necessaria sussistenza, oggettivamente accertabile, del nesso causale tra le vessazioni dell’autore e il danno della vittima.
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