Il 2 marzo 2017 è scaduto il termine per presentare, alle Direzioni Territoriali del Ministero del Lavoro o all’Inps, le domande di adesione all’ottava salvaguardia. La misura permette ai lavoratori, rimasti scoperti a causa della cosiddetta “riforma Fornero”, dopo oltre sei anni dalla sua entrata in vigore, di andare in pensione con le regole precedenti il 2011.
L’attuale legislazione previdenziale ha prodotto enormi discriminazioni, colpendo una moltitudine di lavoratori che, pur prossimi alla pensione, sono costretti a continuare a lavorare, ma si è rivelata ancor più penalizzante per una particolare categoria di lavoratori – o meglio ancora – di lavoratori post laborem, fatta conoscere con il termine mediatico di “esodati”.
Questi lavoratori incentivati all’esodo, si sono trovati in una grave situazione di incertezza economica in quanto i requisiti per maturare il diritto alla pensione sono stati fatti slittare in avanti con l’adozione di provvedimenti legislativi aventi efficacia retroattiva e, perciò, idonei a mettere in discussione i loro “diritti acquisiti”. Sono accomunati in un unico ed eguale destino di aver lasciato il lavoro per proseguire figurativamente o a proprie spese un accumulo contributivo al cui termine avrebbero conseguito il diritto alla quiescenza: percorso questo che la legge Fornero ha, invece, interrotto introducendo pesanti effetti retroattivi, con le ben note conseguenze sulla vita stessa degli ex lavoratori in questione.
Come se ciò non bastasse, ben presto, è emerso che la schiera dei colpiti, in realtà, era molto più variegata. Così, il parterre si è arricchito di sempre nuove categorie di lavoratori che, a seconda della situazione, venivano etichettatati come Contributori Volontari[1], Mobilitati[2], Quindicenni[3], Esuberati[4], Precoci[5], ecc.
I requisiti di accesso sono quelli stabiliti dalla legge n. 232 dell’11 dicembre 2016 e riguardano cinque categorie di esodati e cioè i lavoratori che sono andati in mobilità a seguito di accordi, governativi o non, stipulati entro il 31 dicembre 2011; i prosecutori volontari autorizzati alla contribuzione prima del 4 dicembre 2011; i lavoratori cessati dal servizio entro il 30 giugno 2012, attraverso accordi individuali o collettivi; i lavoratori congedati nel 2011 per assistere figli affetti da grave disabilità e, infine, i lavoratori che avevano un contratto a tempo determinato e in somministrazione cessati dal lavoro tra l’1 gennaio 2007 e il 31 dicembre 2011.
Con la legge di stabilità 2017 il Governo ha stabilito, inoltre, che questa dovesse essere l’ultima salvaguardia prevista, tanto da proporre l’abolizione del fondo relativo.
Dall’esame dei dati diffusi dall’Inps risulta che il numero dei lavoratori che fruirà dell’ottava salvaguardia è pari a 30.700 soggetti.
Ma, sindacati e la rete dei vari comitati di settore replicano che il numero degli aventi diritto è sicuramente superiore e pari ad almeno 34 mila lavoratori poiché mentre per alcune tipologie di ex lavoratori, nei confronti dei quali è previsto il perfezionamento dei requisiti entro 36 mesi dal termine mobilità, estendendone di fatto la tutela fino al 6 gennaio 2021, per altre tipologie, vincolate al regime delle decorrenze per un periodo di soli 24 o 12 mesi, la tutela si limita per alcuni al 6 gennaio 2019, mentre per altri non va oltre il 6 gennaio 2018.
In sostanza, una discriminazione nel diritto che, nei casi limite, tra due ex lavoratori appartenenti a differenti tipologie, ancorché caratterizzati da una perfetta identità di requisiti, arriva a superare i cinque anni.
Un notevole numero di persone, quindi, pur avendone diritto, resterà escluso e discriminato.
Così, in una lettera aperta inviata al Presidente della Repubblica il 7 gennaio 2017, il Comitato esodati “Licenziati o cessati senza tutele”, denuncia la violazione del principio di eguaglianza tra i cittadini di fronte alla legge, provocata dal provvedimento dell’ottava salvaguardia ed chiede un suo intervento affinché si arrivi alla piena restituzione di quanto a suo tempo negato.
In questi anni, si è assistito ad una vera e propria tragedia sociale e finora, ben otto provvedimenti di “salvaguardia” hanno tentato di arginare la falla, evitando che decine di migliaia di persone rimanessero senza reddito e permettendo loro di andare in pensione con le regole in vigore prima della legge Fornero.
E, nonostante ciò, si contano ancora varie migliaia di soggetti. Se si prendono a riferimento i recenti report pubblicati dall’INPS, le ultime stime si attestano intorno alle seimila unità, rimaste fuori dalle tutele, ragion per cui si invoca l’emanazione urgente di un ulteriore provvedimento legislativo.
Dall’entrata in vigore della legge ad oggi siamo stati spettatori di un vero e proprio stillicidio di cifre sul numero esatto dei penalizzati.
Sicchè, questa platea di vessati ha deciso di adire per vie legali contro il Ministro Elsa Fornero e il Ministero del Lavoro, ritenuti responsabili dell’impasse istituzionale che ha tenuto e continua a tenere una moltitudine di ex lavoratori con il fiato sospeso.
L’azione legale intentata per “mobbing sociale” ha avuto inizialmente uno scopo squisitamente simbolico, ma non esclude la possibilità di ottenere un reale risarcimento per danni morali.
Il mobbing, secondo la nota teorizzazione del concetto che si deve allo studioso H. Leymann[6], e la più recente articolata definizione elaborata dallo psicologo del lavoro H. Ege[7], è una violenza psicologica ed è generalmente impalpabile, sottile.
Il “mobbing sociale” è una forma particolare di mobbing che si estende in un contesto più allargato di quello classico o lavorativo. Le sue dinamiche hanno luogo all’interno della società civile. Il contesto di riferimento non è più un ambiente lavorativo ma un intero Stato con il suo sistema di leggi, autorità, strutture, poteri, forze politiche e sociali, ecc.
Pur tenendo conto degli interventi governativi, di cui sopra si è accennato, non si può sottovalutare che l’assoluta novità della questione, oltre a realizzare l’intento diretto al raggiungimento di una maggiore visibilità della drammatica condizione di questi sfortunati, pone all’attenzione un tema inesplorato in campo giuridico.
In altre parole è lecito interrogarsi se nelle “mobili frontiere del danno ingiusto”[8] può trovare ospitalità l’idea di promuovere un’azione legale, contro le istituzioni, finalizzata al risarcimento, anche solo formale, per danni morali derivanti da questa “nuova” forma di mobbing, che riguarda una moltitudine di persone uniti dal fatto di essere lavoratori ormai espulsi, in quanto tali, dal proprio contesto lavorativo – magari, per paradosso – proprio per sfuggire a dinamiche interne percepite come mobbizzanti.
Anche se, ad onor del vero, all’indomani della notizia non è mancato chi ha liquidato l’iniziativa come “fantagiustizia”.
Tale atteggiamento circospetto trova fondamento nel fatto che il mobbing descrive un fenomeno individuato e studiato dalla sociologia e dalla psicologia, non riconducibile però, ancor oggi, nonostante numerosi tentativi, ad una specifica definizione legislativa e sul quale non c’è nessuna certezza giuridica. È, perciò, assegnato ai tribunali il compito di sopperire all’assenza di una norma specifica. Resta pertanto percorribile solo la strada del procedimento civile per il risarcimento del danno eventualmente patito.
Così, nel ricorso si parte dal presupposto che possa essere riconosciuto un danno “da emozione” causato dallo stato di preoccupazione e di sconforto in cui questi cittadini sono caduti, derivante non tanto dalle dolorose conseguenze del varo della riforma, quanto da come è stata gestita la comunicazione ufficiale sulla normativa in itinere che ha spinto i lavoratori a veri e propri gesti di disperazione.
Con la presentazione dell’atto[9] di risarcimento del danno morale da sofferenza e patema d’animo, si contesta la gestione approssimativa e superficiale della comunicazione che ha condotto le parti lese ad ammalarsi a causa di un forte stato di stress psicologico motivato da un costante senso di allarme sociale procurato dalla sfiancante attesa dell’emanazione dei provvedimenti in esame. Si parla di una vera e propria sequela di “docce gelate” ininterrotta durata mesi e mesi e fatta di continue dichiarazioni e controdichiarazioni che, nel loro insieme, hanno letteralmente demolito la tenuta nervosa degli attori.
La richiesta di risarcimento del danno morale per mobbing sociale è stata depositata in tribunale, corredata dei certificati medici di tanti che hanno sofferto di patologie psicologiche dovute allo stress subìto. Si avanza una richiesta di risarcimento danni di diecimila euro ciascuno.
Il procedimento è in corso e c’è chi auspica di “vedere presto la Fornero in tribunale”.
Al contempo, in questo clima di scoraggiamento e incertezza, qualcuno parla – impietosamente – di non meglio definite “soluzioni allo studio”.
[1] Lavoratori licenziati e autorizzati alla contribuzione volontaria agli enti previdenziali
[2] Lavoratori collocati in mobilità ordinaria
[3] Lavoratori disoccupati con 15/19 anni di contributi previdenziali versati per la pensione minima di vecchiaia
[4] Lavoratori disoccupati over 40
[5] Lavoratori che hanno già maturato 41 anni di contributi
[6] “… è un’azione (o una serie di azioni) ripetute per un lungo periodo di tempo, compiuta da uno o più attori (mobber) per danneggiare qualcuno (mobbizzato), in modo sistematico e con scopo preciso …”
Leymann H. (2000), The Mobbing Encyclopaedia, http://www.leymann.se/English/frame.html
[7] “… è una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori …”
Ege H.,(1996),Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, Pitagora editrice, Bologna
[8] Citazione tratta da un articolo del giurista F. Galgano pubblicato nel 1985 sulla rivista Contratto e impresa
[9] La richiesta di risarcimento del danno è stata notificata al Ministero del Lavoro in data 13 giugno 2013
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