Il nesso causale, anche alla luce della teoria del rischio

Calabrò Arles 13/04/17
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Il principio di personalità della responsabilità penale, espresso dall’art. 27 della Costituzione, esige che tale forma di responsabilità possa essere affermata in relazione ad un fatto proprio e colpevole. Ai fini dell’applicazione della legge penale è, dunque, necessario che sussista un rapporto di causalità tra la condotta posta in essere dall’autore del reato e l’evento.

Il nesso causale rientra nell’ambito dell’elemento oggettivo del reato, accanto alla condotta e l’evento. Tale nesso trova, infatti, esplicito fondamento normativo nell’art. 40 c.p.. Ai sensi dell’art. 40 c.p. è necessario, ai fini della punibilità, che sussista un rapporto di causalità tra la condotta, attiva od omissiva, e l’evento dannoso o pericoloso da cui dipende l’esistenza del reato. Il nesso di causalità, pertanto, attiene sia ai reati commissivi sia a quelli omissivi.

Inoltre, riguarda sia i reati di pericolo che quelli di danno. A tal proposito, occorre precisare che il nesso di causalità si atteggia in modo diverso, a seconda che il reato sia commissivo od omissivo.

Infatti, nella prima ipotesi, la causalità è di tipo naturalistico ossia è da intendersi in termini di derivazione materiale dell’evento dalla condotta posta in essere dal soggetto agente. In tal caso, infatti, il nesso causale si instaura tra elementi (condotta ed evento) entrambi apprezzabili nel mondo fenomenico.

Nella seconda ipotesi, invece, la causalità è da intendersi in senso normativo o ipotetico, poiché la condotta omissiva non si traduce in un comportamento materialmente percepibile.

La distinzione tra causalità materiale (o naturalistica) e normativa (o giuridica) si apprezza inoltre anche per i reati di evento e quelli di mera condotta. Difatti, in dottrina, si afferma che la causalità materiale si avrebbe solo nei reati di evento, inteso in senso naturalistico, quale effettiva lesione del bene – interesse protetto dalla norma incriminatrice. Il nesso di causalità, inteso in senso materiale, non potrebbe, invece, essere affermato nei reati di mera condotta, data la mancanza in tali reati di un evento in senso naturalistico. Nei reati di mera condotta, infatti, si ha la sussistenza solo di un evento in senso giuridico, inteso quale lesione solo potenziale del bene interesse protetto in termini di offesa. Dunque, per questi reati, la causalità dovrebbe essere intesa di matrice squisitamente normativa.

Orbene, cio premesso, preme rilevare come diverse siano state le teorie prospettate in dottrina e giurisprudenza per la ricostruzione dell’accertamento causale.

Secondo la teoria condizionalistica o dell’equivalenza causale, una condotta può dirsi causa dell’evento quando rappresenti una condizione senza la quale l’evento non si sarebbe verificato. Il giudice deve, quindi, procedere ad un giudizio c.d. contrafattuale ossia di eliminazione mentale della condotta tenuta e verificare se l’evento si sarebbe ugualmente realizzato. In caso positivo il giudice deve concludere per l’insussistenza del nesso causale. Nell’ambito dei reati omissivi, invece, l’eliminazione mentale si atteggia in modo diverso. In tal caso, infatti, il giudice deve supporre come posta in essere la condotta doverosa omessa e verificare se l’evento si sarebbe comunque verificato.

Secondo la teoria della causalità adeguata, invece, la condotta può dirsi causa dell’evento qualora sia probabile, secondo l’id quod plerumque accidit, il verificarsi dell’evento medesimo. Il giudice, secondo i propugnatori di tale teoria, deve effettuare un giudizio di c.d. prognosi postuma. La prognosi è postuma appunto perché effettuata nel corso del giudizio, ma il giudicante deve valutare il comportamento dell’agente, ex ante, ossia al momento in cui quest’ultimo ha posto in essere la condotta incrimintrace.

Secondo, infine, la teoria della causalità umana, sostenuta da autorevole dottrina, il rapporto di causalità sussisterebbe in relazione a tutti quegli eventi, che rientrano nella signoria o dominio del soggetto agente. Il nesso causale, dunque, sarebbe interrotto solo in rarissimi casi.

In giurisprudenza, per l’accertamento del nesso causale, per anni ha dominato la cd. teoria condizionalistica, sia pure con il correttivo della sussunzione del medesimo nesso causale sotto leggi scientifiche di copertura, universali o statistiche. Le Sezioni Unite della Suprema Corte, in più circostanze, hanno però affermato come l’accertamento del nesso causale debba avvenire “oltre ogni ragionevole dubbio” (ovvero avvalendosi del cosidetto metodo BARD – Beyond Any Reasonable Doubt-, coniato dalle Corti inglesi ed americane).

Dunque, a tal fine, non è sufficiente la sola probabilità statistica, ma è necessaria anche quella logica, in termini di certezza processuale di colpevolezza.

Ciò chiarito, giova precisare come, nonostante le nozioni di causalità penale e civile coincidano, la giurisprudenza soventi affermi che diversa è la regola probatoria.

Nel giudizio civile, infatti, vale la regola del più probabile che non, in omaggio all’atipicità dell’illecito ed alla funzione non sanzionatoria ma reintegratoria del sistema della responsabilità aquiliana. Ai fini dell’accertamento del nesso condizionalistico tra condotta ed evento, le Sezioni Unite penali, quindi, sostengono la necessità di abbandonare il ricorso a semplici percentuali espresse dalle formule quali, a mero titolo esemplificativo, quelle spesso utilizzate in dottrina: “serie ed apprezzabili probabilità di successo” oppure “probabilità vicina alla certezza”.

L’accertamento del verificarsi dell’evento può essere esaminato anche alla luce della teoria del rischio. Per rischio, in particolare, si intende la possibilità di conseguenze dannose o negative a seguito di circostanze non sempre prevedibili. Secondo tale teoria l’accertamento del nesso causale andrebbe valutato sulla base dell’aumento del rischio del verificarsi dell’evento, provocato dalla condotta del soggetto agente.

Infatti, nell’ambito delle attività pericolose ritenute tuttavia socialmente utili, il legislatore autorizza il realizzarsi di tali attività, sempre che l’esercizio delle stesse sia contenuto in un’area di “rischio consentito”. Il superamento di questa area fa quindi, scattare un accertamento della responsabilità penale del soggetto agente.

Nell’ambito di tali attività può iscriversi anche quella relativa allo svolgimento di attività di impresa. Da qui la necessità di prevedere adeguate forme di tutela.

La tutela del lavoro, in tutte le sue espressioni organizzative ed esecutive, trova esplicito riconoscimento sia a livello costituzionale, nell’art. 35, sia nell’art. 2060 c.c..

Donde, la necessità di realizzare un rafforzamento della tutela del lavoro anche attraverso il ricorso alla sanzione penale in relazione a reati derivanti da infortunio sul lavoro. Questi reati integrano fattispecie omissive, alle quali si applica la clausola di equivalenza prevista dall’art. 40 secondo comma, c.p.: non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale, infatti, a cagionarlo.

Per affermare la responsabilità omissiva è dunque necessario individuare, in primo luogo, l’obbligo giuridico di agire in capo a determinati soggetti (cd. posizione di garanzia).

Tale posizione è volta a neutralizzare la fonte del pericolo. Ora, indubbiamente, questa funzione di garanzia, nel nostro ordinamento, è rivestita anche dal datore di lavoro.

Infatti, alla luce delle disposizioni normative, il datore di lavoro è tenuto, nell’esercizio dell’impresa, ad adottare le misure idonee a tutelare l’integrità fisica e morale dei lavoratori. Su tale soggetto ricade la responsabilità dell’impresa ovvero dell’unità produttiva. Il datore di lavoro deve, dunque, predisporre misure di sicurezza volte a prevenire la realizzazione degli infortuni.

In giurisprudenza ci si è interrogati, tuttavia, sui criteri da adottare per l’individuazione del soggetto responsabile. Infatti, secondo un primo orientamento sarebbe sufficiente la sola esistenza dell’obbligo di agire per radicare la responsabilità di tale soggetto. È questa la c.d. teoria formale. Questa tesi è tuttavia criticata perché finirebbe per introdurre una responsabilità di mera posizione.

Secondo, invece, la tesi funzionale su base fattuale, l’individuazione del soggetto responsabile potrebbe aversi anche rispetto a garanti di fatto.

Anche questa tesi, tuttavia, è criticata perché finirebbe per introdurre un vulnus al principio di legalità formale.

Dunque la giurisprudenza dominante accoglie la tesi c.d. mista od organica, in virtù della quale, per l’individuazione del soggetto responsabilem è necessaria la ricorrenza di due presupposti: l’esistenza dell’obbligo giuridico di agire e il conferimento al soggetto di poteri effettivamente impeditivi dell’evento. Nei poteri impeditivi risiederebbe la differenza tra obbligo di garanzia ed obbligo di sorveglianza, penalmente irrilevante. Quest’ultimo ha rilievo, infatti, solo in sede amministrativa.

Dunque, la responsabilità in questione andrebbe radicata in capo al datore di lavoro, il quale, oltre ad essere titolare di una serie di obblighi, può esercitare poteri decisionali e di spesa. Residuerebbe, comunque, un obbligo di vigilanza, in caso di delega di funzioni al responsabile del servizio, sempre che tale soggetto abbia gli effettivi poteri in materia di prevenzione e protezione.

Si discute, infine, se il datore di lavoro sia responsabile, allorquando la condotta del lavoratore sia stata negligente.

In altri termini, si tratta di verificare se la condotta negligente del lavoratore sia suscettibile di spiegare – e a quali condizioni – efficacia interruttiva del nesso causale.

In base ai principi generali, infatti, le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando da sole sono state sufficienti a produrre l’evento.

Sono state prospettate diverse letture della norma in ordine alle cc.dd. concause di determinati eventi fenomenici concretizzatesi in rerum naturae.

Secondo un primo orientamento, l’art. 41 secondo comma, c.p. farebbe riferimento ad una serie causale autonoma. Questa tesi è, tuttavia, criticata, poiché, se così fosse, la norma sarebbe inutile, essendo un doppione dell’art. 40 c.p.. Le tesi prevalenti ricostruiscono le concause in termini di serie causale dipendente, in omaggio alla rubrica della norma.

Vi sono diversi orientamenti, tuttavia, riferiti all’efficacia interruttiva del nesso casusale.

Secondo, la teoria della causalità adeguata, la concausa sopravvenuta interruttiva andrebbe valutata secondo un giudizio di probabilità. Dunque la concausa è preponderante e spezza il nesso solo se è più probabile rispetto alla probabilità inversa.

Secondo la tesi della causalità umana, invece, il nesso potrebbe dirsi interrotto solo a condizione che operi un fattore del tutto abnorme, eccezionale e rarissimo.

La teoria dell’aumento del rischio, infine, attribuisce efficacia interruttiva alla concausa solo se determina una situazione di rischio del tutto nuova e diversa da quella creata dalla condotta del soggetto agente.        

Applicando quest’ultime coordinate ermeneutiche alla tematicha che qui si sta tentando di affrontare,  preme rilevare come la giurisprudenza, in diverse circostanze e ricorrendo alle predette teorie, sia più propensa ad affermare la responsabilità del datore di lavoro piuttosto che a non riconocerla.

Infatti, secondo la tesi pretoria ormai dominante,  la condotta del lavoratore ove anche fosse ritenuta negligente non rappresenterebbe comunque quel fattore del tutto eccezionale e rarissimo in grado di spezzare il nesso causale. Invero, la responsabilità del datore di lavoro potrebbe essere negata, solo se la condotta negligente del lavoratore fosse del tutto eccezionale e cioè tenuta al di fuori dell’esercizio delle proprie funzioni.

 

Milano, 2 aprile 2017

Calabrò Arles

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