Il paradigma sociale della libertà religiosa

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Queste riflessioni non s’occuperanno della tematica della libertà religiosa all’interno della teoria generale del diritto. Sul punto rivestono ancora importanza decisiva e assoluto rilievo scientifico le opere di Ruffini e Catalano[1]. Semmai, sarà opportuno dare un contenuto sociale al diritto di libertà religiosa, registrarlo alla prova delle istituzioni europee, così spesso rimodellate ma tanto infrequentemente recettive sull’argomento[2], nonché dell’attualità giuridica e sociale del continente. Questo profilo per un verso ha assunto un rilievo specifico nell’ottica del diritto ecclesiastico comparato[3], ma sotto altri aspetti resta ancora un territorio inesplorato, nonostante numerosi episodi recenti (come la rivolta dei sobborghi parigini o quella del quartiere universitario ateniese) svelino non pochi legami tra il difficile esercizio della libertà religiosa da parte di gruppi etnicamente minoritari e il disagio economico, sociale e culturale dei migranti e degli esclusi, specie nei quartieri degradati delle metropoli europee.
Sul caso parigino, le analisi sono sin qui state numerose e interessanti. Da un punto di vista propriamente antropologico, la rivolta delle banlieues ha rinverdito la tradizionale dicotomia tra modello assimilazionista francese e modello multiculturalista canadese[4]. Rispetto a quel vasto tumulto popolare poca resistenza argomentativa poneva la crisi attuale del modello multiculturalista canadese, che certo non presenta neanche oggi le punte drammatiche di conflitto sociale osservabili nei grandi agglomerati transalpini, Parigi e Marsiglia tra tutti.
È stato inoltre possibile articolare una querelle in termini di dottrina dello Stato sulla capacità rivendicativa del movimento francese. Da ciò sono seguite osservazioni critiche contro il modello di Stato Sociale retto sul tax and spending, ma né le ricette liberali né le ricette social-democratiche hanno dimostrato di sapere andare molto oltre. Tendenze liberali ovviamente si sono espresse a favore della progressiva liberalizzazione dei servizi pubblici, insieme peraltro a una parte ormai consistente degli antichi partiti social-democratici; la sinistra socialista invece ha ragionato su soluzioni alternative, ma tutte sostanzialmente comportanti un ritorno di capitale pubblico nelle politiche sociali. Sul versante propriamente politologico, ci si è interrogati sulla organicità delle rivendicazioni parigine e sull’urgenza di dare ad esse un imprimatur di carattere politico. L’esercizio si è rivelato vano, per il palese e prevedibile dissenso tra gli operatori politici, non meno che per la assai più sorprendente disomogeneità, finanche di mobilitazione e contestazione, dei gruppi della sommossa parigina. In modo più tralaticio, e sostanzialmente in un’ottica prettamente demografica, si è osservata la composizione sociale dei banlieuesards: si è notato come essi fossero in non rari casi cittadini francesi e in non rari casi non soggetti di fede islamica. Quid iuris, ci si è chiesti, se la miccia di quelle agitazioni fu ritenuta la legge sui simboli religiosi che vietava il velo islamico nelle scuole[5]? Evidentemente il simbolo religioso ha giocato sul piano dell’ascendenza culturale e non dell’appartenenza confessionale: mortificarlo non significava soltanto, o non che in minima parte, deprivare di contenuti l’esercizio di libertà religiosa; piuttosto implicava non riconoscere, neanche confusamente, le radici almeno remote di un tessuto crescente della popolazione francese[6].
La situazione in Grecia è stata più tormentata. Fondamentalmente, essa si è inserita in un momento di grave instabilità politica e sociale: la crisi economica ha costretto a un ripensamento dell’erogazione pubblica a favore dell’istruzione universitaria; ha determinato un incremento della disoccupazione; ha più spesso messo a rivaleggiare manodopera nazionale e manodopera extracomunitaria; ha incrinato l’equilibrio tra le opposte frange dei movimenti universitari, che nelle agitazioni studentesche, quando si incontrano, ineluttabilmente o quasi finiscono anche per scontrarsi.
Eppure, in Grecia, la motivazione religiosa avrebbe più che una ragione per risultare determinante come e più degli altri fattori sociali che pure affliggono il paese ellenico. Tanto per cominciare, la situazione di Cipro Nord, e i problematici rapporti diplomatici tra Turchia e Grecia, spesso funge da catalizzatore, da elemento probante, di una presunta irriducibilità, anche nei termini della convivenza sociale, tra ortodossia e islamismo.
È inoltre da notare come la composizione demo-religiosa della Grecia non sia affatto monolitica, risolta in una contrapposizione de facto tra una maggioranza plebiscitaria e una minoranza tenacemente riottosa. Au contraire, con buona pace dell’art. 3 della Costituzione che si spinge a definire predominante la religione cristiano-ortodossa (e la cosa è numericamente riscontrabile, stando al sondaggio dell’International Religious Freedom Report del 2006[7]), specie le minoranze ebraiche e bizantine hanno una storia secolare, un proprio radicamento sociale, hanno avuto in passato persino velleità autonomistiche di rappresentanza politica. Dal rovesciamento del regime dei colonnelli, il quartiere universitario in Atene è stato un’oasi, amministrativa e culturale, di sperimentazione politica, spesso tortuosa, ma assolutamente variegata ed aperta. È chiaro che si è in presenza di un’ennesima simbologia, stavolta completamente laica, e che nessuno è disposto a lasciare incustodito il proprio simbolo: non si spiegherebbero altrimenti non solo le reiterate conseguenze politiche degli scontri, ma anche le diffuse agitazioni del movimento anarchico in Europa, a sostegno del movimento ellenico e in solidarietà ad esso per la morte violenta d’uno dei suoi esponenti[8].
Vero è che v’era stato un pericoloso precedente, forse sottovalutato, di crescente interconnessione tra fattore religioso e fattore sociale nella disgregazione degli spazi metropolitani europei: il doppio, e gemellare, avanzare dell’estremismo islamico e di quello xenofobo ad Amsterdam[9], capitale di quei Paesi Bassi che la dottrina internazionalistica a lungo aveva visto come uno degli avamposti più interessanti, insieme alla Svizzera[10], per studiare il proficuo allargamento dei diritti civili in un contesto di progressiva decriminalizzazione di comportamenti frutto di scelte esistenziali, come l’uso di stupefacenti o la massima evidenziazione possibile del proprio orientamento sessuale. È abbastanza visibile il riferimento alla situazione francese: cresce la cultura, antropologica e politica, dell’arrocco. La minoranza radicalizza le proprie componenti più esposte a una frattura con le comunità predominanti; la maggioranza sempre più spesso cede ad argomentazioni di frange apertamente violente e marcatamente identitarie. Che in Italia non si proceda più al decreto di scioglimento ministeriale per associazioni inneggianti all’odio razziale[11], più che testimonianza libertaria di una piena applicazione degli artt. 21 e 49 della Costituzione[12], costituisce anche un quieta non movere che solidarizza spesso con l’indifferenza.
 
Domenico Bilotti


[1] A questo titolo si osservino: G. CATALANO, Il diritto di libertà religiosa, Bari, 2007 e F. RUFFINI, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Bologna, 1992.
[2] Tralasciando la progressiva caducazione di ambizioni “costituenti”, il Trattato di Lisbona (“Reform Treaty”) rappresenta, nella speranza di un progressivo impegno delle istituzioni comunitarie nella promozione dei diritti fondamentali, un significativo passo indietro sia rispetto al Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa sia rispetto al Trattato di Nizza e alla Carta approvata nella medesima circostanza.
[3] Questa tendenza si manifesta in molte opere recenti, tra le quali si segnalano: G. MACRÌ, M. PARISI, V. TOZZI, Diritto Ecclesiastico Europeo, Roma-Bari, 2006; F. MARGIOTTA BROGLIO, C. MIRABELLI, F. ONIDA, Religioni e sistemi giuridici. Introduzione al diritto ecclesiastico comparato, Bologna, 2000.  
[4] Una visione non meramente riepilogativa dei paradigmi multiculturalisti in: W. KYMLICKA, La cittadinanza multiculturale, Bologna, 1999.
[5] Cfr. la l. 17 marzo 2004 n° 228, approvata dal Parlamento francese a seguito di un diffuso e concitato dibattito anche all’interno di medesimi gruppi parlamentari.
[6] Alcune di queste implicazioni vengono colte, sia nei termini d’una dottrina dello Stato multiculturale (recte: moltitudinario) sia in una prospettiva politologica e sociale, da: A. NEGRI, Dalla fabbrica alla metropoli. Saggi politici, Roma, 2008.
[7] Questo rapporto non esprime modifiche sostanziali rispetto ad altre opere che registrano ormai decennalmente l’andamento dei movimenti religiosi e delle confessioni organizzate in Grecia. Si colloca con precisione in questo indirizzo senza rinunciare a significativi spazi di elaborazione personale: A. RESZLER, Il mito di Atene. Storia di un modello culturale europeo, Milano, 2007.
[8] Il riferimento è all’omicidio del quindicenne studente Alexandros Andréas Grigoropoulos, ucciso il 6 dicembre del 2008. Manifestazioni di protesta riguardarono consolati greci in Italia, Germania ed Inghilterra, tra gli altri.
[9] Descrive la situazione, attraverso una toccante testimonianza diretta: A. HIRSI ALI, Non sottomessa. Contro la segregazione nella società islamica, Torino, 2005.
[10] La legislazione olandese ritiene legale il consumo di droghe leggere tra maggiorenni; prevede il matrimonio tra omosessuali e la possibilità che essi utilmente esercitino il diritto d’adozione; l’eutanasia anche nei confronti di minori, sia pure in circostanze dettagliatamente tipizzate; l’apertura, il mantenimento e il controllo sanitario delle “case di tolleranza”. La Svizzera ammette forme di ufficializzazione di unioni tra persone dello stesso sesso e il cd. “suicidio assistito”, ad opera dell’associazione DIGNITAS operante al di fuori delle strutture sanitarie confederali. 
[11] Si pensi al caso del d. m. 9 novembre 2000 disponente lo scioglimento del movimento “Fronte Nazionale” in ottemperanza al d.l. 122/1993, convertito, con modificazioni, in l. 205/1993.
[12] In effetti la formulazione letterale dei due articoli (l’uno nei “Rapporti Civili”; l’altro nei “Rapporti Politici”) non solo va letta in combinato disposto con gli artt. 138 e 139 in relazione al cd. “indisponibile costituzionale”, ma specialmente sulla base del divieto di ricostituzione del disciolto Partito Nazionale Fascista, la cui dottrina razziale costituirebbe senz’altro violazione del suddetto decreto.

Dott. Bilotti Domenico

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