Il termine patto di quota lite deriva etimologicamente dal latino medievale quota litis e consiste nella convenzione fra il cliente e l’avvocato con la quale è fissata come compenso professionale, in caso di vittoria, un’aliquota dei diritti che formano oggetto della lite o del procedimento.
Tanto il codice civile quanto i principi deontologici hanno costantemente vietato tale convenzione fino all’entrata in vigore del D.L. 04/07/2006, n. 233 (più noto come “decreto Bersani”), convertito dalla L. 04/08/2006, n. 248. La ratio di questo divieto risiedeva nella necessità di salvaguardare l’indipendenza del professionista il quale doveva assumere un ruolo di terzietà rispetto alle sorti della vertenza: l’assunto costituiva corollario del più ampio principio di dignità e decoro del professionista. Al contempo tale disposizione tendeva a tutelare l’interesse dello stesso cliente, evitando facili tentazioni di mercimonio su vertenze dall’esito prevedibilmente favorevole (prime fra tutte le cause relative ad obbligazioni risarcitorie da danno extracontrattuale).
Prima del 2006 il divieto di patti quota lite era previsto sia dal codice civile che dal codice di deontologia Forense. L’art. 2233 comma 3° c.c. stabiliva che “gli avvocati, i procuratori e i patrocinatori non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, sotto pena di nullità e dei danni”. Di analogo tenore l’art. 45 dell’allora vigente C.d.F., il quale espressamente vietava l’accordo tra il legale e il cliente diretto ad ottenere quale corrispettivo dell’attività una percentuale del bene controverso ovvero una percentuale rapportata al valore della lite.
Quindi, in base alle norme sopra richiamate erano considerati vietati gli accordi attraverso i quali il compenso era:
a) Rappresentato da una parte dei beni, o crediti litigiosi;
b) Correlato al risultato pratico dell’attività svolta dal legale ovvero consistente in una percentuale del valore del bene o dei crediti litigiosi (ipotesi questa di creazione giurisprudenziale, non essendo prevista dalla norma, ispirata alla medesima ratio del divieto del patto di quota lite).
Come detto il quadro normativo subiva un capovolgimento con la già citata Legge Bersani: nello specifico l’art 2, comma 2°, lett. a) D.L. 04/07/2006, n. 233 abrogava il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obbiettivi perseguiti e il successivo comma 2° bis espressamente prevedeva che: “Sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali”. Da quest’ultima disposizione si evinceva implicitamente l’abrogazione del divieto di stipulare i patti di quota lite: la norma prevedendo la nullità dei patti non redatti in modo scritto, implicitamente li ammetteva ove stipulati in tale forma.
La novella legislativa lasciava tuttavia inalterato il tenore letterale dell’art. 1261 c.c. che, come detto, proibiva agli avvocati di rendersi cessionari dei diritti oggetto di vertenza.
Le novità sopra indicate, relative alle modifiche del codice civile, facevano sorgere l’esigenza di un coordinamento con il C.d.F. nella parte in cui si prevedeva il divieto della determinazione del compenso in percentuale al valore della lite.
Il previgente testo del codice deontologico veniva così modificato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 18/01/2007, introducendosi la seguente disposizione: “è consentito all’avvocato pattuire con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obbiettivi, fermo il divieto dell’articolo 1261 c.c. e sempre che i compensi siano proporzionali all’attività svolta”.
A seguito della novella, dalla combinata lettura degli artt. 2233, 1261 c.c. e 45 C.d.F., era possibile distinguere due tipi di patti di quota lite:
a) Il primo, diventato legittimo, era quello con cui il compenso del difensore veniva parametrato al risultato pratico dell’attività svolta oppure al valore dei beni o dei crediti oggetto della controversia;
b) Il secondo, invece illegittimo e sanzionato da nullità, era quello che rendeva il difensore cessionario dei diritti sui quali era sorta contestazione.
Tale distinzione, diretta a vietare le ipotesi di cessione dei beni controversi, riceveva nel 2012 l’adesione del Legislatore allorquando, con la L. 247 del 31/12/2012, entrata in vigore il 02/02/2013, veniva reintrodotto uno specifico divieto: in particolare nell’art. 13 del citato testo, disciplinando il compenso dell’avvocato, vietava i patti “(…) con i quali l’avvocato percepisce come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione, o della ragione litigiosa”. Tale disposizione riproponeva il medesimo divieto già contenuto nella vecchia formulazione dell’art. 2233 comma 3° antecedente alla L. 248/2006.
Ma la metamorfosi normativa non si arresta qui: a seguito dell’entrata in vigore del nuovo Ordinamento Forense, introdotto con Legge, 31/12/2012 n° 247, il Consiglio Nazionale disponeva una nuova e (si spera) definitiva novella del codice deontologico. In data 31 gennaio 2014 la disciplina relativa all’istituto in disamina veniva trattata nell’art. 25 del nuovo codice.
Eccone il testuale tenore:
– Accordi sulla definizione del compenso
1. La pattuizione dei compensi, fermo quanto previsto dall’art. 29, quarto comma, è libera. È ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfettaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene il destinatario della prestazione, non soltanto a livello strettamente patrimoniale.
2.Sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso, in tutto o in parte, una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa.
3.La violazione del divieto di cui al precedente comma comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi.
L’introduzione della nuova modifica legislativa destava ulteriori problemi d’interpretazione: in particolare risultava evidente la necessità di un coordinamento tra i commi 3° e 4° dell’art. 13 della L. 242/2012 e dei commi 1° e 2° dell’art. 25 del nuovo Codice deontologico.
Infatti, con le ultime modifiche introdotte dal Legislatore, mentre appariva certa l’illegittimità dei patti consistenti nella cessione di una parte del bene controverso ex art. 13 comma 4° L. 242/2012 ed ex art. 25 comma 2° C.d.F., altrettanto non si poteva dire per l’altra configurazione di questo patto, ovvero l’ipotesi in cui il compenso fosse parametrato al risultato pratico dell’attività o ad una percentuale sul valore dei beni oggetto della controversia.
Una parziale riposta al quesito era ravvisabile nell’art. 13 comma 3° della L. 242/2012 e dall’art. 25 comma 1° del C.d.F. nella parte in cui dette disposizioni specificano che è legittima la determinazione del compenso in percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene il destinatario della prestazione. In difetto di analoghe previsioni concernenti i patti con i quali il compenso è previsto a percentuale sul risultato che si andrà ad ottenere, deve ritenersi che tali convenzioni risultino vietate.
Questa interpretazione non sfugge a critiche, poiché difficilmente è dato individuarsi in concreto un metodo di pattuizione del compenso, considerato legittimi, costituito da un percentuale sul valore dell’affare o sull’esito previsto. Ad esempio potranno facilmente individuarsi percentuali differenziate per più obbiettivi che consentano di raggiungere un esito non diverso da quello raggiungibile con la percentuale a consuntivo.
Questo determinerebbe sicuramente un restringimento dell’area di operatività del divieto contenuto ex art. 25 comma 2° C.d.F. e ex art. 13 comma 4° L. 247/2015 potendo trovare un’applicazione certa solo nelle ipotesi in cui fosse attribuita all’avocato una porzione del bene controverso.
La giurisprudenza sembra aver risolto questo problema d’interpretazione nel ritenere violato il divieto del patto di quota lite nell’ipotesi in cui il compenso del legale consista in una parte del bene e dei crediti litigiosi ed anche qualora il compenso sia stato correlato al risultato pratico dell’attività svolta (Cass. Civ. Sez. II, 02/10/2014, n. 20839).
Le sezioni Unite della Suprema Corte hanno invece affermato la legittimità di quei patti che siano parametrati al raggiungimento degli obbiettivi ma con il rispetto della condizione che i compensi siano proporzionali all’attività espletata. “La proporzionalità e la ragionevolezza nella pattuizione del compenso rimango l’essenza comportamentale richiesta all’avvocato, indipendentemente dalle modalità di determinazione del corrispettivo a lui spettante” (Cass. Civ. Sez. Unite, 25/11/2014 n. 25012).
A rafforzare questa interpretazione giurisprudenziale concorre anche la lettura coordinata degli att. 25 e 29 del C.d.F. in virtù della quale l’avvocato, pur potendo parametrare il proprio compenso agli obbiettivi perseguiti, deve altresì tener conto il criterio di proporzionalità, commisurando la misura del corrispettivo richiesto alla misura dell’attività svolta.
Per completezza si rileva come recentissima giurisprudenza di merito, ritenendo oramai superata la questione relativa alla radicale nullità del patto, ha rigettato un’eccezione diretta far valere la mancanza di forma dell’accordo quotalizio affermando che tale questione “deve essere tempestivamente contestato e non può esser rilevato d’ufficio” (Trib. Roma Sez. XI, Sent., 13/01/2015).
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