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Sintetico quadro ricognitivo della normativa in tema di imposta di soggiorno
L’imposta di soggiorno costituisce la riedizione dell’antico tributo di origini medievali (la gabella) corrisposta dai viaggiatori per il pernottamento nelle strutture ricettive (in genere, locande, osterie, rifugi) proporzionato in relazione alle ricchezze trasportate dai viandanti e dal numero di viaggiatori.
In origine, il tributo costituiva un fattore di finanziamento essenziale per le località frequentate esclusivamente da avventori occasionali ovvero in occasione di eventi ludici: stazioni termali, stazioni climatiche e balneari alle quali, secondo quanto stabilito dalla L., 11 dicembre 1910, n. 863, cui l’art. 1, era concessa la facoltà di istituire una tassa di soggiorno[1].
In seguito, la disciplina confluì all’interno del Testo Unico della Finanza Locale approvato con R.D., nr. 1926, 14 settembre 1938 in cui il potere di istituire l’imposta venne esteso a tutte le località di interesse turistico di Italia.[2] Come è agevole notare dall’ampliamento della platea dei destinatari della misura (non più circoscritta, in quest’occasione, in ragione della venatura turistica delle località comunali, ma estesa a siti stimati degni di interesse turistico di qualsiasi genere), lo ratio del tributo era mutata: non più una forma di sussidio in favore delle città che attingevano il nucleo essenziale delle proprie risorse economiche dal volume di affari delle imprese alberghiere site sul territorio, ma un tributo corrisposto a titolo di ‘pedaggio di ingresso e di sosta’ nella singola località, a prescindere dalla vocazione strutturalmente turistica di quest’ultima (come si evince dalla clausola di chiusura del dispositivo, «comunque di interesse turistico»).
Restavano esenti dal tributo una nutrita categoria di soggetti in virtù del proprio status individuale ovvero in quanto dimoranti per condizioni di necessità clinico-sanitarie ovvero domiciliati per motivi di lavoro all’interno del Comune.[3]
Ebbene, da un ideale raffronto con la disciplina attuale emerge il tratto di discontinuità, nelle configurazioni normative del tributo rubricato sotto il medesimo nomen iuris: la disciplina vigente prevede l’inquadramento dell’imposta nel novero dei tributi di scopo, sebbene non in senso stretto (in quanto il soggetto passivo non è titolare del diritto di rimborso, qualora l’importo erogato non venga destinato alle finalità indicate dalla norma) [4], nella disciplina in vigore fino alla prima abrogazione dell’istituto (1° gennaio 1989), l’imposta costituiva una ‘tassa di permanenza’ in un Comune diverso da quello di residenza anagrafica, destinata a rappresentare una significativa voce di bilancio all’interno dell’amministrazione locale.
Abolita per effetto dell’art. 10 del D.L. 2 marzo 1989, n°. 66, con l’obiettivo di incentivare il turismo mediante la riduzione delle spese di viaggio [5], l’imposta è stata reintrodotta con due distinti provvedimenti: il primo è il D.l. 31 maggio 2010, n°. 78 che istituì la possibilità di introdurre nel Comune di Roma un’imposta di soggiorno per gli ospiti delle strutture pari al massimo di 10,00 euro per pernottamento (misura del tributo); il D. Lgs. 14 marzo 2011 n. 23, recante disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale, che ha esteso la possibilità ad altri comuni, individuati in base a criteri indicati nella medesima normativa, di istituire il tributo, dell’importo massimo di 5,00 euro per pernottamento.
Nella disciplina attuale, la suddetta imposta contribuisce – insieme alle restanti categorie di tributi già previsti dagli Enti locali, dell’imposta municipale propria (Imu), della Tassa sui rifiuti (Tari), della Tassa e del Canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (Tosap/Cosap), del Tributo per i servizi indivisibili (Tasi), dell’imposta sulla pubblicità – ad arricchire di contenuto l’autonomia finanziaria (c.d. Federalismo fiscale municipale) degli Enti locali in ossequio ai principio di sussidiarietà verticale declinato nell’ambito del federalismo fiscale dei singoli Enti locali.
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L’evoluzione giurisprudenziale sul rapporto tra sanzioni penali e sanzioni ‘regolamentari’
Entrando adesso in medias res, occorre muovere le fila del discorso sciogliendo le questioni preliminari che hanno alimentato il dibattito scientifico in ordine alla natura effettiva (concorso di reati) ovvero apparente (concorso di norme) del concorso tra il delitto di peculato e l’omesso versamento [6] dell’imposta di soggiorno, sanzionato fino a tempi recenti dalle disposizioni previste nello ius particulare dei singoli Regolamenti comunali impositori del tributo e ora, invece, disciplinato dal co. 1-ter dell’art. 4, D. Lgs. 14 marzo 2011, n° 23, introdotto dal D.l. 18 maggio 2020.
Due i punti vitali del problema attraversati dalla giurisprudenza di legittimità: la qualifica del titolare della struttura ricettiva riscossore del tributo da riversare nelle casse comunali (dall’accertamento del quale deriva il riconoscimento della qualifica di incaricato di pubblico servizio ai sensi dell’art. 358 c.p.); il rapporto strutturale tra «il fatto tipico in cui si realizza l’ipotesi di reato» (il peculato) e l’illecito di natura amministrativa di inesatto versamento dell’imposta di soggiorno previsto dai regolamenti degli Enti impositori.
La risoluzione dei due quesiti assolve una funzione propedeutica all’indagine sulle problematiche poste dalla nuova disciplina (introdotta dal D.l. 19 maggio 2020, nr. 34) in merito alla sussunzione del fatto illecito del gestore della struttura residenziale nell’alveo tanto del penalmente rilevante (art. 314 c.p.), quanto nell’illecito amministrativo, ovvero, in ragione del riconoscimento di un rapporto di continenza-specie tra le norme, nel solo illecito di natura amministrativa (art. 4 co. 1-ter, D. Lgs. 14 marzo 2011, nr. 23).
In merito all’esame sulla sussistenza della qualifica soggettiva in capo all’albergatore ovvero al responsabile della struttura ospitante preposto alla riscossione del tributo, la Corte dei Conti, a Sezioni Riunite in sede giurisdizionale, in una recente pronuncia ha statuito che: «I soggetti operanti presso le strutture ricettive, ove incaricati – sulla base dei regolamenti comunali previsti dall’art. 4, comma 3, del d.lgs. N. 23 del 2011 – della riscossione e poi del riversamento nelle casse comunali dell’imposta di soggiorno corrisposta da coloro che alloggiano in dette strutture, assumono la funzione di agenti contabili […]»[7] (Sentenza n. 22/2016/QM).
Con siffatto apparato motivazionale, la Corte rigettava perché destituite di fondamento sistematico-letterale le prospettazioni di segno contrario esposte dalla Procura Generale, la quale censurava l’indebita ascrizione al titolare dell’impresa alberghiera del ruolo di garante nei confronti dell’ente beneficiario del tributo[8]
In buona sostanza, l’Ufficio di Procura Generale invocando anche la citata pronuncia della Consulta [9] riteneva che, in assenza di espressa previsione in un atto normativo di fonte primaria che ascrivesse ai responsabili/gestori della struttura ricettiva una prestazione di natura ‘personale’ in favore dell’ufficio Tributi locale, non potesse ritenersi gravante sul suddetto soggetto la qualifica di agente contabile.
Sulla scia della medesima traccia argomentativa, sono stati i motivi di doglianza esposti nel ricorso presentato in un procedimento penale recentemente definito dalla Suprema Corte, sez. VI, sent., 7 febbraio n°. 6130 del 2019 [10].
In buona sostanza, i motivi di gravame convergevano intorno all’assenza di una disciplina di fonte primaria istitutiva del rapporto tributario tra il gestore della struttura ricettiva e l’Ente locale interessato all’esazione del tributo, comprovata dalla natura gratuita della prestazione offerta dal gestore della struttura in favore dell’ente locale (consistente nella riscossione e rendicontazione del tributo), incompatibile, nelle propalazioni difensive, con il principio retributivo sancito in materia di prestazione lavorativa, dall’art. 36 della Carta Costituzionale [11].
La Corte, riteneva infondati tutti i motivi di doglianza proposti, ancorati all’assenza di una base ‘legale’ definitoria dello status giuridico dell’imputato (assenza di una tipizzazione legale dell’incarico e dei relativi obblighi) e di natura fattuale (natura eminentemente marginale “del maneggio del denaro pubblico”, residuale rispetto all’oggetto dell’attività d’impresa) asseriva che: «In conformità al principio della riserva di legge vigente per la materia tributaria, sancito dall’art. 23 Cost. E riaffermato, nel contesto della ripartizione dei poteri tra Stato centrale ed enti locali, dall’art. 52, comma 1, del D.lgs. 18 dicembre nr. 471 del 1997, sono state individuate la misura massima dell’aliquota nonché i criteri di modulazione della medesima, per cui il tributo deve applicarsi secondo criteri di gradualità in proporzione al prezzo, sino a 5 euro per notte di soggiorno»[12].
In merito alla non marginalità, del rapporto con il denaro pubblico da parte del gestore del complesso residenziale la Corte non ha mancato di precisare che: «Il quadro normativo di riferimento si completa con il necessario richiamo alla norma generale sancita dagli artt. 74, comma 1, R.D. 18 novembre 1923, n. 240 e 178 del R.D. n. 827 del 1924, i cui principi sono peraltro ribaditi nel T.U.E.L. 18 agosto 2000, n° 267, art. 93, comma 2, il quale statuisce che: «Il tesoriere ed ogni altro agente contabile che abbia maneggio di pubblico denaro o sia incaricato della gestione dei beni degli enti locali, nonché coloro che si ingeriscano negli incarichi attribuiti a detti agenti devono rendere il conto della loro gestione e sono soggetti alla giurisdizione della Corte dei conti secondo le norme e le procedure previste dalle leggi vigenti»[13].
Enucleando il contenuto euristico della decisione, due sono i risvolti pratici desumibili nel giudizio della Suprema Corte: la non configurabilità in capo al preposto nella struttura alberghiera del ruolo di soggetto passivo nel rapporto con l’Amministrazione locale (come sostituto d’imposta) in quanto quest’ultimo non realizza un elemento del presupposto dell’obbligazione tributaria: pertanto, i titolari/gestori delle strutture ospitanti non possono essere ritenuti parti – e debitori, in solido con il fruitore dei servizi della struttura – del rapporto obbligatorio con l’Amministrazione finanziaria locale [14].
Cionondimeno, motivata la non ‘eleggibilità’ del titolare della struttura a soggetto passivo (sostituto d’imposta) nel rapporto con l’Amministrazione locale, la Corte ascrive le mansioni del soggetto nell’ambito dell’attività dell’agente contabile, individuandone il presupposto positivo nell’effettivo maneggio di denaro pubblico ovvero nel nesso di pertinenza tra la detenzione della res da parte del gestore e il vincolo di destinazione della stessa (la funzione di gettito fiscale) e il presupposto negativo nella non occasionalità ovvero nella assenza di marginalità-residualità nell’attività di gestione del denaro pubblico da parte dell’albergatore.
Ebbene, ricostruito brevemente il quadro giurisprudenziale che ha attribuito pacificamente al titolare gli obblighi di riscossione-versamento dell’imposta di soggiorno previsti dall’art. 4 del D. Lgs. 2011, nr. 23 (e, in seguito, dall’art. 5-ter della L. 21 giugno 2017, nr. 96) il ruolo di agente contabile, risulta indubitata l’annessione di quest’ultima figura nel novero degli incaricati di pubblico servizio, ai sensi dell’art. 358 c.p., qualifica soggettiva richiesta per integrare il delitto di peculato. Altresì, autorevole dottrina non ha mancato di rilevare che le note costitutive caratterizzanti il servizio come pubblico ai sensi dell’art. 358 c.p.: una «positiva» costituita dalla regolamentazione in norme di diritto pubblico della disciplina delle attività svolte dal soggetto attivo (nel nostro caso, prevista dal combinato disposto degli art. 4 del d. Lgs. 23/2011 e dall’art. 5-ter della L. 96/2017) e un’altra «negativa» consistente nell’insufficienza di semplici mansioni d’ordine ovvero di opera meramente materiale alla configurazione della qualifica di «incaricato di pubblico servizio» [15].
Ai nostri fini, non risulta seriamente dubitabile l’inquadramento dell’agente contabile nel ruolo di incaricato di pubblico servizio[16]: l’attività di riscossione-versamento della imposta di soggiorno è regolata dal combinato disposto dell’art. 4 del D. Lgs. 23/2011 e dell’art. 5-ter del D. Lgs. 24 aprile 2017, n.° 50, convertito, con modificazioni, nella L. 21 giugno 2017, n.° 96.
Pertanto, pur svolgendosi l’attività del gestore/titolare delle strutture ricettive nell’ambito dell’attività di impresa, emerge il rapporto concessorio tra il soggetto attivo e l’Amministrazione finanziaria derivante, peraltro, nella legislazione recente da un’investitura soggettiva di doveri inerenti a un pubblico servizio (cfr. Art. 5- ter, L. 2017, nr. 96) [17]. Accertata la qualifica di incaricato di pubblico servizio da parte dell’albergatore (normativamente) preposto alla gestione dell’imposta, occorre scrutinare il rapporto tra il delitto di peculato e la corrispondente ipotesi di illecito amministrativo – prevista fino a qualche settimana fa solo dai Regolamenti comunali[18] – nei casi in cui l’appropriazione indebita si perfezioni nella detenzione dell’importo oltre il termine di scadenza previsto per la sua devoluzione all’ente locale.
Dapprima, occorre muovere dall’individuazione dei termini di relazione nel caso di studio indicati dall’art. 1 della L. 24 novembre 1981, nr. 689 che così dispone: «Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione».
La disposizione, collocata significativamente in apertura della normativa, declina il principio di legalità valido per l’applicazione delle sanzioni amministrative (e il suo corollario in materia di irretroattività), ‘riservando alla legge’ (in senso formale o materiale) la competenza in ordine alla comminazione di sanzioni amministrative. Su siffatto versante, di ordine formale, nelle pronunce della Suprema Corte emerge l’esclusione del concorso di norme tra la fattispecie penale e l’illecito amministrativo previsto dal principio di specialità (art. 9, L. Nr. 24 novembre 689, n.° 1981), id est, perché le sanzioni sono contenute in un Regolamento comunale e quest’ultimo non costituisce un atto normativo legittimato a sedere al tavolo dei disputanti.
Invero, seguendo il ragionamento (esplicitando più di quanto non traspaia dalle motivazioni) proposto da parte della giurisprudenza di legittimità, dal combinato disposto degli art. 1 e 9 della L. Nr. 681/1989 sarebbe corretto desumere che «la disposizione che prevede una sanzione amministrativa», ossia le «disposizioni che prevedono sanzioni amministrative» (art. 1 co. 1) debbano essere previste da una legge ovvero da un atto avente forza di legge, in ragione dal carattere afflittivo-compensatorio delle stesse che non può eludere il limite dell’espressa previsione legislativa (art. 23 Cost.) [19].
In verità, l’assunto non sembra convincente: lo stesso percorso logico-argomentativo che aveva condotto la Corte ad attribuire al gestore della struttura ricettiva la qualifica di incaricato di pubblico servizio, avrebbe dovuto indurre l’interprete al riconoscimento della natura legislativa delle sanzioni ‘imposte’ in via mediata (id est, ‘richiamando’ altre disposizioni di legge diversa) dal Regolamento comunale interpellato nel caso concreto.
Breve: l’art. 4, D. Lgs. Nr. 23/2011[20] investe i Comuni e gli altri Enti locali in possesso dei requisiti del potere di istituire l’imposta di soggiorno e della facoltà «di disporre ulteriori modalità applicative del tributo» (beninteso, che non evadano i limiti – di necessaria fonte primaria – costituiti dal presupposto e della misura del tributo, del soggetto attivo e del soggetto passivo del rapporto tributario). Rimane, perciò, devoluto alla ‘discrezionalità tecnica’ dell’ente impositore stabilire le modalità concrete di riscossione del tributo (ad esempio, mutevole è la scansione temporale prevista per riscossione del tributo da comune a comune).
Resta fermo, in ogni caso, il divieto per il singolo Ente di predisporre un impianto sanzionatorio autonomo per il mancato adempimento, da valutarsi difficilmente compatibile con gli artt. 3 e 23 e, per via indiretta, con l’art. 41 della Suprema Carta per il significativo condizionamento che l’attività degli operatori nel mercato alberghiero subirebbe da una regolamentazione arbitraria dell’entità delle sanzioni[21] (occorre rammentare che, l’omesso versamento del tributo è sanzionato dal punto di vista amministrativo, indipendentemente dal dolo o dalla colpa del gestore, profilo che viene in rilievo specialmente per i gestori di importanti complessi di strutture ricettive).
Pertanto, come già previsto nei Regolamenti locali, la disciplina sanzionatoria applicabile per i fatti di omesso versamento dell’imposta di soggiorno è materia oggetto di ‘rinvio’[22] ad altre disposizioni riservate a sezioni diverse dell’ordinamento giuridico: talvolta (erroneamente) alla disciplina stabilita dall’art. 13 del D.lgs. 18 dicembre 1997, nr. 471 in materia di «sanzioni non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi (…)»; talaltra alla disciplina prevista dall’art. 7 del D.lgs. 18 agosto 2000, nr. 267 (noto anche come TUEL, Testo unico in materia di Enti Locali) [23].
Riassumendo, la parte ‘precettiva’ del tributo è stabilita dall’art. 4 del D. Lgs. Nr. 4/2011 che attribuisce all’ente impositore l’adozione di «ulteriori modalità applicative» del tributo, mentre la parte ‘sanzionatoria’ era disciplinata, nell’assetto normativo previgente da leggi destinate a regolare altri settori dell’ordinamento [24].
Occorre adesso sondare il rapporto strutturale tra la fattispecie di peculato e l’illecito di omesso versamento al fine di individuare, come nella disciplina previgente, si è snodato ed è stato risolto il quesito in ordine alla sovrapponibilità della tutela prevista in sede penale e in sede amministrativa per il caso in cui l’appropriazione indebita si esteriorizzi nel mancato versamento del tributo dovuto all’ente locale.
Anticipiamo, chiarendo le ragioni della soluzione prescelta nell’ultimo paragrafo, che i due meccanismi sanzionatori predisposti apparivano e appaiono complementari e rispondenti ai diversi obiettivi di politica legislativa perseguiti con l’incriminazione e con l’illecito di natura amministrativa.
Sotto l’aspetto fattuale, è incontrovertibile l’unicità della condotta sottoposta alle sanzioni penali e alle sanzioni amministrative. Analogamente all’illecito di omesso versamento dell’iva (previsto come fattispecie incriminatrice, dall’art. 10 ter D. Lgs. 10 marzo 2000, nr. 74 e come illecito amministrativo dall’art. 13 D.lgs. 471/1997), la condotta del soggetto responsabile è unica, mentre di certo duplice è il versante di interessi offesi, riflesso, in entrambi i casi, nel bene giuridico del prestigio e dell’immagine della pubblica amministrazione (estrinsecato nella lesione della fiducia rispettivamente dei consumatori e degli ospiti della struttura ricettiva) e nel danno cagionato all’amministrazione finanziaria statale (nel caso di omesso versamento dell’iva), locale (nel caso di omesso versamento dell’imposta di soggiorno). Muta l’angolo visuale, ma il fatto rimane il medesimo.
Viceversa, riguardo al profilo sanzionatorio, atteso che, come esposto in precedenza, le uniche conseguenze sanzionatorie di natura amministrativa irrogabili all’ente erano limitate nel massimo alla sanzione di euro 500,00 prevista dall’art. 7-bis del D.lgs. 267/2000, non poteva senz’altro individuarsi in queste ultime la valenza afflittivo-repressiva tale da surrogare la tutela prevista in ambito penale.[25]
Art. 314 c.p. E art. 4 co. 1-ter d. Lgs. 23/2011: concorso di illeciti o concorso apparente di norme?
Addiveniamo ora all’indagine sull’assetto normativo vigente, alla luce delle innovazioni introdotte alla disciplina prevista dal D. Lgs. Nr. 23 del 2011 dal D.l. 34/2020.
Alla disposizione di cui all’art. 5-ter, L. 96/2017 si è aggiunta la disciplina introdotta dal D.l. 18 maggio 2020, n.°34, che ha uniformato l’impianto sanzionatorio nei casi di omesso versamento dell’imposta di soggiorno nelle casse comunali. Due le modifiche sostanzialmente introdotte dalla novella, in rapporto di dipendenza funzionale: il riconoscimento della qualifica di responsabile d’imposta in capo al gestore della struttura dell’obbligo di versamento all’ente locale e l’uniformazione delle conseguenze sanzionatorie (erroneamente, come visto, differenziate dai singoli Regolamenti comunali) per l’omesso versamento previste mediante rinvio materiale (questa volta con un rinvio recettizio) all’art. 13 del D. Lgs. N°. 96 del 1997.
Come risulterà chiaro alla luce delle osservazioni precedentemente svolte, l’ascrizione al titolare della struttura della qualifica di responsabile d’imposta risulta strumentale alla seconda modifica sostanziale della disciplina: il rinvio (materiale) allo spettro sanzionatorio previsto nelle disposizioni in tema di inadempimenti di natura tributaria. Infatti, secondo la dottrina tradizionale, anche se il responsabile d’imposta non realizza il presupposto dell’obbligazione tributaria, rientrerebbe nel novero dei soggetti passivi del rapporto con la pubblica amministrazione.
Inoltre, la qualificazione del gestore della struttura come responsabile d’imposta (e non più solo agente contabile), impone – e, implicitamente, ‘onera’ – quest’ultimo della riscossione dell’imposta nei confronti dell’ospite in quanto, in caso di omesso pagamento, lo stesso albergatore sarebbe chiamato a versare il tributo in quanto soggetto passivo del rapporto responsabile in solido dell’adempimento [26] – secondo i principi civilistici in materia di responsabilità solidale – al pari del cliente (e soggetto passivo principale). In tal senso, il diritto di ripetere quanto corrisposto all’ente locale nei confronti del cliente della struttura non costituisce una garanzia per l’albergatore circa il concreto successo nell’esercizio del proprio diritto di rivalsa [27].
Riemerge, dunque, e con pieno vigore, il nugolo di interrogativi che già aveva attraversato la giurisprudenza degli ultimi lustri.
Alla luce, infatti, della ‘promozione’ del gestore da ‘agente contabile’ a soggetto passivo del debito tributario e del poderoso inasprimento del trattamento sanzionatorio a lui irrogabile [28], quest’ultimo soggiace a conseguenze sanzionatorie di natura marcatamente afflittiva che dischiudono dubbi sulla propria cumulabilità con le conseguenze penali previste per la fattispecie di peculato: il confine tra il concorso formale di illeciti e il concorso apparente di norme non risulta più nettamente ricalcato.
I risvolti applicativi prodotti dalla soluzione per quest’ultima possibilità non sono, come è noto, di poco momento: configurando un caso di depenalizzazione (art. 2 co. 2 c.p.) Della fattispecie derogata, conseguirebbe la definizione dei procedimenti pendenti con una sentenza di proscioglimento ovvero di assoluzione «perché il fatto non costituisce (più) reato» (artt. 129 co. 1, 425 co.1, 469 co. 1, 530 co. 1 c.p.p.) E l’immediata cessazione dell’esecuzione e, di conseguenza, degli effetti penali derivanti dalle sentenze di condanna passate in giudicato [29].
Beninteso, resterebbe salvo l’obbligo di versamento del tributo insieme al pagamento delle sanzioni previste dalla disciplina in vigore al momento dell’indebita appropriazione dell’importo destinato alle casse comunali. [30]
Pertanto, chiara la specificità del fatto descritto nell’illecito amministrativo – in virtù della restrizione del novero dei soggetti passibili di sanzione alla sola categoria degli albergatori – occorre però sondare se risulta soddisfatto il presupposto operativo del principio di specialità costituito dalla omogenea valenza punitiva delle sanzioni irrogabili secondo la norma incriminatrice rispetto a quelle irrogabili secondo la fattispecie di natura amministrativa.
Il tema si iscrive a pieno titolo nella galassia della dinamica dei rapporti tra il sistema del doppio binario sanzionatorio e il principio del ne bis in idem nella sua dimensione nel diritto comunitario e convenzionale: esulando dai nostri fini, una ricostruzione analitica del dialogo tra le Corti sovranazionali (Corte EDU – Corte di giustizia europea – Corte di Cassazione), sembra possibile enucleare dalla sintesi tratta dall’evoluzione del diritto vivente, un limite preventivo di natura programmatica (la cui operatività, pertanto, deve essere vagliata sulla scorta delle particolarità del caso concreto) all’estensione del divieto del doppio giudizio (variante sostanziale), procedimento (variante processuale), costituito dalla «appartenenza delle fattispecie in oggetto al ‘nucleo duro’ del diritto penale e, dunque, caratterizzata da forme accentuate di stigma sociale» [31].
Nel caso che ci occupa, è appena il caso di notare che il reato di appropriazione indebita e, a fortiori, la sua fattispecie ‘qualificata’ dal ruolo di del gestore della struttura di esponente della Pubblica Amministrazione nei rapporti con i terzi, costituisce una fattispecie ‘caratterizzante’ del diritto penale, iscrivibile nel novero di reati che costituiscono il sostrato comune ai sistemi penali della civiltà giuridica moderna.
Pertanto, il mancato versamento dell’imposta di soggiorno dovrebbe ritenersi, al più una forma di estrinsecazione (che non ne esaurisce il disvalore) dell’indebita appropriazione da parte dell’albergatore.
Dalla pronuncia succitata che recepisce l’indirizzo ermeneutico inaugurato dalla Grande Camera della Corte EDU (A e B c. Norvegia, 15 novembre 2016, ric. N. 24130/11 e 29758/11) – in cui è stato mitigato il rigore degli effetti derivanti dal ‘ne bis idem processuale’[32] – si evince una sostanziale inversione dei rapporti di forza tra la dimensione processuale e la dimensione sostanziale del ne bis in idem: postulato (e ribadito) lo spazio di autonomia riservato alla potestà legislativa dei singoli Stati in ordine alla dispiegamento dell’arsenale di tutele ritenuto più efficace per reprimere fatti offensivi di beni-interessi della collettività, la valutazione in merito alla violazione del divieto del doppio procedimento (quest’ultimo inteso in accezione sempre più ristretta, come pronuncia dell’autorità giurisdizionale piuttosto che come procedimento a carico di un individuo) slitta, sul versante diacronico, nella fase decisionale e, nel suo nucleo concettuale, da ostacolo alla astratta configurabilità di una risposta sanzionatoria duplice per lo stesso fatto, a limite per il giudice del caso concreto (nel ‘secondo’ giudizio) [33], di irrogazione di una pena eccessiva rispetto alla gravità del «fatto illecito» nella sua globalità (ossia, mediante la valorizzazione nella commisurazione della pena nel secondo giudizio, anche della sanzione inflitta nel primo).
Il disvalore di condotta impresso nell’appropriazione da parte del gestore dell’incasso detenuto in nome e per conto dell’ente locale, anche se integrato da una condotta omissiva (il mancato versamento delle somme nel termine di scadenza), condensa l’elemento differenziale tra l’illecito penale e l’illecito di natura amministrativa: ragionando altrimenti, infatti, la deroga, tout court, alla disciplina penalistica in forza del contenuto di specialità del precetto amministrativo, dischiuderebbe l’accesso all’opinabile soluzione di irrogare lo stesso trattamento sanzionatorio al gestore che per negligenza abbia trascurato gli obblighi inerenti alla detenzione o comunque alla disponibilità dell’imposta e al gestore che, detenendo consapevolmente l’importo destinato al Comune oltre il termine di scadenza, confidi in un qualunque evento (una proroga per il pagamento da parte del Regolamento comunale, una modifica del decreto legislativo istitutivo del tributo, mera negligenza da parte dell’ufficio di riscossione locale) idoneo a sottrarlo dal dovere di riversare l’imposta presso l’erario locale.
Preliminarmente, tuttavia, occorre muovere il ragionamento dalle premesse fondamentali stabilite dalla nota sentenza Grande Stevens e altri c. Italia (Seconda Sezione – sentenza, 4 marzo 2014), nella quale si è stabilito che la natura penalistica di un illecito rispetto alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo è riconoscibile in base alla sussistenza, in forma alternativa di tre requisiti: la natura stessa del reato, il grado di severità delle sanzioni previste nella comminatoria edittale, la limitazione della dignità sociale dell’imputato conseguente alla pena[34].
Nel caso oggetto di analisi, agevolmente, si rinvengono i requisiti descritti nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
In tal senso, le conseguenze sanzionatorie previste per l’ipotesi di omesso versamento sono iscrivibili, sul piano astratto, nel genere delle sanzioni a carattere punitivo (risultando, peraltro, le medesime previste nella fattispecie di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto ai sensi dell’art. 13 del D.lgs. 471/1997), secondo i parametri indicati dalla giurisprudenza della Corte EDU nel rapporto tra il divieto di bis idem (previsto dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione Europea da ‘rileggere’ alla luce dell’art. 4 Protocollo n. 7 della CEDU) e il c.d. Doppio binario sanzionatorio (penale ed amministrativo),[35] e il ‘fatto illecito’ – rilevante come illecito penale ed amministrativo – può ritenersi integrato dalla stessa condotta di ritenzione illegittima della somma di denaro non versata, mutando solo l’angolo visuale – la platea dei clienti (presenti e futuri), rappresentanti della fiducia collettiva nel buon andamento della pubblica amministrazione – e l’Ente locale danneggiato dal quale si può valutare la gravità della condotta dell’agente.
Tuttavia, a ben vedere, come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, il profilo fondamentale che osta al riconoscimento della medesima valenza punitiva delle sanzioni penali e amministrative e che, di conseguenza, paralizza l’operatività del principio di specialità sancito dall’art. 9 L. N°. 689 del 1981, discende dalla impossibilità di giustapporre gli scopi di prevenzione generale perseguiti dalla fattispecie incriminatrice rispetto a quelli eminentemente repressivi perseguiti con le sanzioni amministrative [36].
Adottando ancora come pietra di paragone la disciplina prevista in tema di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto (D. Lgs. 10 marzo 2000, nr. 74, art. 10-ter), è possibile lumeggiare due profili differenziali fondamentali, desumibili, in chiave euristica, anche da un recente approdo della Corte di Giustizia europea sul tema [37]. Il primo: mentre il reato di omesso versamento dell’iva cagiona un’offesa tendenzialmente relativa al patrimonio della Pubblica Amministrazione statuale, gli incassi a titolo di imposta di soggiorno costituiscono una quota fondamentale del gettito fiscale totale dei singoli Comuni. A titolo esemplificativo, basti pensare che a Roma, mediamente, l’imposta costituisce circa il 22% del gettito fiscale totale.
Pertanto, a fortiori per i Comuni che attingono parte sostanziale delle proprie risorse economico-finanziarie dal turismo (id est, le località per cui fu concepita l’imposta), traspare il ‘peso’ rappresentato nelle voci attive del bilancio dal tributo in oggetto. Dalle premesse poste, traspare la peculiarità di interessi presidiati dalla normativa in materia di imposta di soggiorno rispetto all’analoga disciplina in tema di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto.
Il secondo profilo, consequenziale al primo, riposa su un dato del diritto positivo. Mentre il delitto di cui all’art. 10 ter D.lgs. 74/2000 è integrato dallo inadempimento superiore ad euro 250.000, il delitto di peculato è integrato dall’omesso o ritardato versamento dell’imposta a prescindere dal valore del suo importo: pertanto, anche se le sanzioni amministrative per le ipotesi di omesso versamento dell’imposta di soggiorno e omesso versamento di IVA sono previste dalla medesima disposizione (art. 13 D.lgs. 471/1997), muta il rapporto rispettivamente ricorrente con il delitto di peculato e con il delitto previsto dall’art. 10 ter, D.lgs. 74/2000.
Difatti, mentre l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto assume rilevanza penale nelle ‘ipotesi’ in cui le conseguenze sanzionatorie previste per il corrispondente illecito amministrativo hanno raggiunto un grado di afflittività elevato, il delitto di peculato e l’illecito amministrativo per l’omesso versamento dell’imposta di soggiorno ben potrebbero convergere in una condotta non caratterizzata un intenso livello di gravità (per esempio, in ragione del contenuto importo dell’imposta evasa).
Risulterebbe difficilmente in armonia rispetto ai canoni di proporzionalità e ragionevolezza, il declassamento dell’appropriazione indebita dell’albergatore che integra il delitto di peculato nel corrispondente illecito di natura amministrativa, che sarebbe corredato da sanzioni pecuniarie di modesta entità, nelle ipotesi in cui l’importo non versato sia di trascurabile valore, inadeguate ad assolvere la funzione punitiva della corrispondente fattispecie incriminatrice.
Pertanto, attesa la non strutturale incompatibilità tra i due binari sanzionatori rispetto al principio-limite del ne bis in idem sancito dall’art. 4 Protocollo nr. 7 della Corte EDU e trasposto nell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione Europea, appare raccomandabile, come ventilato in un caso analogo, dalla Corte di Giustizia comunitaria demandare all’autorità giudicante il dovere di determinare il trattamento sanzionatorio proporzionale alla nota di ‘complessiva illeceità’ del fatto [38].
Chiosando, nei casi di «convergenza verso il basso» delle sanzioni amministrative e penali – ossia, nei casi in cui l’omesso versamento è di iniquo valore economico – l’unica opzione percorribile sembra quella del doppio binario sanzionatorio; nei casi di «convergenza verso l’alto», diversamente da quanto avviene per i casi di omesso versamento dell’iva, le uniche sanzioni applicabili[39] saranno quelle di ‘tipo’ amministrativo, in ragione del rapporto di specialità, ai sensi dell’art. 9, L. 689/1981, tra l’illecito amministrativo e l’illecito penale.
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Note
[1] L., 11 dicembre 1910, n. 863, art. 1: «I Comuni, a cui conferisce importanza essenziale nell’economia locale l’esistenza di stabilimenti idroterapici o il carattere di stazione climatica o balneare, hanno facoltà di promuovere con deliberazione dei propri Consigli domanda al Ministero degl’Interni per essere autorizzati ad applicare una tassa di soggiorno a carico di coloro che si recano nel Comune per dimorarvi a scopo di cura soggiorno».
[2] Disponeva l’art. 1: «L’imposta di soggiorno è applicata nelle stazioni di soggiorno, di cura e di turismo, nonché’ nelle altre località climatiche, balneari o termali o comunque di interesse turistico, ancorché non riconosciute ai sensi del R. decreto-legge 15 aprile 1926-IV, n. 765. L’elenco di dette località è stabilito con decreto del Ministro per l’Interno, di concerto con quelli per le finanze e per la cultura popolare. L’imposta è dovuta da chiunque prenda alloggio, in via temporanea, in alberghi, pensioni, locande, stabilimenti di cura e case di salute; è dovuta inoltre, salvo che nelle località per le quali il decreto interministeriale di cui al precedente capoverso disponga diversamente, da tutti coloro che dimorino temporaneamente, per un periodo superiore a cinque giorni in ville, appartamenti, camere ammobiliate od altri alloggi».
[3] Restavano esenti dal tributo secondo quanto disposto dall’art. 5:
I decorati di medaglia d’oro al valor militare; 2. I mutilati e invalidi di guerra delle prime quattro categorie, nonché una persona accompagnatrice, quando la mutilazione od invalidità la renda necessaria; 3. Gli ambasciatori e gli agenti diplomatici delle nazioni estere, nonché i consoli e gli agenti consolari, non regnicoli né naturalizzati, purché esista parità di trattamento negli Stati dai quali dipendono e purché non esercitino nel Regno un commercio, una industria od una professione e non siano amministratori di aziende commerciali; 4. Gli impiegati e salariati dello Stato, nonché gli appartenenti al Regio esercito e agli altri Corpi armati dello Stato, quando si trovano nel Comune per ragioni di servizio, i sacerdoti che si recano nel Comune per ragione del loro ministero ed i religiosi che dimorano presso collettività ecclesiastiche; 5. Coloro che dimorano in alloggi di loro proprietà o comunque in alloggi per i quali risultino personalmente iscritti nei ruoli della imposta sul valore locativo, nonché i loro coniugi, parenti e affini fino al terzo grado e le persone di servizio quando abitino negli alloggi medesimi, coloro che risultino assoggettati nel Comune all’imposta di famiglia e le persone abitualmente con essi conviventi; 6. I bambini di età non superiore ai tre anni; 7. Coloro che dimorano in collegi o istituti a scopo di educazione o frequentino scuole pubbliche o private od altri istituti di istruzione aventi sede nel Comune, 8. Coloro che sono ricoverati a regime comune in ospedali pubblici, manicomi, od altri istituti pubblici di assistenza, 9. Coloro che si trattengono nel Comune a scopo di lavoro presso aziende industriali, commerciali o agricole od altre imprese, 10. Le persone che pernottano in bivacchi o in rifugi alpini con o senza custode.
[4] Cfr. per l’analisi esaustiva dell’attuale statuto giuridico dell’imposta di soggiorno, L’imposta di soggiorno. Amnesie legislative ed esigenze di riforma, Beretta, Università Cattaneo Working Progress, 3-2017.
L’Autore si sofferma in più occasioni in corso d’opera sulla valenza’ politica’ del vincolo di scopo che contrassegna l’imposta di soggiorno. Nonostante la previsione testuale contenuta nel secondo periodo dell’art. 4 del D. lgs. 23 del 2011: «Il relativo gettito è destinato a finanziare interventi in materia di turismo, ivi compresi quelli a sostegno delle strutture ricettive, nonché interventi di manutenzione, fruizione e recupero dei beni culturali ed ambientali locali, nonché dei relativi servizi pubblici locali»; il soggetto passivo del rapporto tributario (il cliente) non è titolare del diritto soggettivo di esigere il rimborso al Comune della somma versata, qualora l’imposta non sia destinata alle finalità indicate nel secondo periodo della citata disposizione, cfr. sul punto, Beretta, ult. op. cit. pp. 8 – 11.
[5] In realtà, a incidere fortemente sull’abolizione della misura contribuirono due fattori determinanti: lo svolgimento dei Mondiali di calcio del 1990 in Italia e la circostanza che il Ministro del turismo dell’epoca fosse Franco Carraro, già presidente del Coni dal 1978 al 1987. La riduzione dei costi, tuttavia, non condusse all’obiettivo prefissato. Dal 1988 (anno di abrogazione della misura) al 1989 si registrò un calo pari a un milione di turisti. Per un compendio esaustivo sull’evoluzione normativa del tributo nella storia recente, cfr., Federalberghi, L’imposta di soggiorno. Osservatorio sulla fiscalità locale – luglio 2014, Quinta edizione.
[6] D’ora in avanti, con «omesso versamento» alluderemo anche alle altre ipotesi di estrinsecazione dell’illecito amministrativo – tardivo o parziale versamento – atteso che nella fattispecie del mancato versamento può ritenersi assorbito il disvalore delle altre due modalità di violazione del precetto.
[7] Precisava la Corte dei Conti: «In modo palese emerge la sostanziale differenza rispetto alla questione all’odierno esame, ove l’attività demandata ai gestori non è sicuramente “marginale” rispetto ad un ruolo istituzionale (di natura politica) che nella specie non sussiste, né tantomeno si rileva “non necessaria” o eventuale; infatti la necessità per i gestori delle imprese alberghiere di riscuotere e riversare l’imposta, e di adempiere anche alle ulteriori incombenze informative nei confronti dei Comuni, deriva dalla evidente obbligatorietà e necessità dello svolgimento della funzione ad essi demandata, avendo i regolamenti comunali anche previsto sanzioni amministrative, ai sensi dell’art. 7 bis del T.U.E.L n. 267/2000».
[8] Di tal guisa gli argomenti proposti dalla Procura: «(…) Se il gestore non entra in alcun modo nel rapporto tributario, non rivestendo, in luogo o accanto al soggetto passivo dell’imposta, il ruolo di debitore solidale, lo stesso può dirsi in relazione all’ipotizzata veste di agente contabile, in quanto egli è solo affidatario di un compito di carattere assolutamente complementare nel processo impositivo (…) Il concetto di marginalizzazione evidenziato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 107/2015, per annettere ruolo dirimente non al semplice maneggio ma alla diretta e funzionale gestione dello stesso, sicché l’”agente contabile”, nella fattispecie indicata, dovrebbe essere individuato nel funzionario comunale che effettivamente ha in carico la complessiva attività di riscossione tributaria».
[9] La Corte costituzionale, con sentenza 107 del 2015 riteneva non addebitabili ai consiglieri regionali i doveri di rendicontazione in ragione del maneggio di denaro di provenienza pubblica: «La censura è fondata con riferimento all’assenza del presupposto soggettivo, e cioè la qualifica di agente contabile (…)
La figura dei presidenti dei gruppi consiliari, delineata dagli statuti regionali e dai regolamenti consiliari interni, si caratterizza, a sua volta, per il forte rilievo politico e per l’importanza delle funzioni di rappresentanza, direttive e organizzative ad essi attribuite. L’attività di gestione amministrativa e contabile dei contributi pubblici assegnati ai gruppi consiliari è, dunque, meramente funzionale all’esercizio della sfera di autonomia istituzionale che ai gruppi consiliari medesimi e ai consiglieri regionali deve essere garantita, affinché siano messi in grado di concorrere all’espletamento delle molteplici e complesse funzioni attribuite al Consiglio regionale e, in particolare, all’elaborazione dei progetti di legge, alla preparazione degli atti di indirizzo e di controllo, all’acquisizione di informazioni sull’attuazione delle leggi e sui problemi emergenti dalla società, alla stesura di studi, di statistiche e di documentazioni relative alle materie sulle quali si svolgono le attività istituzionali del Consiglio regionale».
[10] Rilevava il ricorrente che: «In modo contraddittorio ed erroneo, la Corte di appello da un lato avrebbe ritenuto che le attività attribuite agli albergatori dal Regolamento comunale della città di Milano in ordine all’imposta di soggiorno sia attività amministrativa disciplinata da nome di diritto pubblico, conferendo agli stessi la qualifica di agenti contabili, e dall’altro, mutuando gli arresti della giurisprudenza amministrativa sul tema (che tuttavia non attribuivano una qualifica pubblicistica agli albergatori), avrebbe definito i medesimi obblighi “adempimenti strumentali, non eccessivamente onerosi o complessi”, tali da non richiedere la riserva di legge». Altresì, la Difesa denunciava l’incompatibilità della disciplina prevista dal Regolamento dell’ente locale parte dalla controversia (nella fattispecie, il Comune di Milano) con la riserva di legge e il principio retributivo in tema di prestazione lavorativa, rispettivamente sanciti dagli art. 23 e 36 della Carta: «L’attività di riscossione in esame non può essere paragonabile a quella di altre categorie, in quanto previste dalla legge (come quella dei tabaccai, che rinvia ad apposita convenzione l’adesione al servizio e il relativo compenso), mentre nella specie si tratterebbe di un’imposizione unilaterale, senza la possibilità di sottrarsi e imponendo la prestazione a titolo gratuito».
[11] In relazione al presupposto del tributo, la giurisprudenza amministrativa non ha ravvisato un rapporto di incompatibilità on il principio di capacità contributiva che informa il gettito fiscale sul reddito delle persone fisiche (art. 53 Cost.): «L’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2011 non contrasta con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione. Infatti la spesa che il cliente sopporta per l’ospitalità alberghiera è una spesa che è indice sintomatico di ricchezza. In tanto si spende, in quanto si dispone delle somme necessarie per pagare. Né può parlarsi di duplicazione dell’imposizione, in quanto il soggetto interessato sarebbe tassato a monte, quando produce il reddito, e a valle, quando ne dispone. Infatti la spesa di ospitalità alberghiera è considerata dal legislatore indice di capacità contributiva distinta dal diverso indice di capacità contributiva dato dalla percezione del reddito. Tale fenomenologia è coerente col sistema tributario italiano che prevede una molteplicità di indici di capacità contributiva con l’obiettivo che sia in tal modo assicurato il prelievo di una capacità contributiva effettiva, che può manifestarsi non solamente nella percezione del reddito, ma anche in ulteriori forme di ricchezza». Così TAR Veneto, Sez. III, 10 maggio 2012, n.653).
[12] La Corte ha rammentato l’approdo ermeneutico raggiunto in materia dalla Cassazione civile: «È consolidato nella giurisprudenza di queste SU il principio in ragione del quale elementi essenziali e sufficienti perché un soggetto rivesta la qualifica di agente contabile (…) sono soltanto il carattere pubblico dell’ente per il quale tale soggetto agisca e del denaro o del bene oggetto della sua gestione, mentre resta irrilevante (…) il titolo in base al quale la gestione è svolta, che può consistere in un rapporto di pubblico impiego o di servizio, in una concessione amministrativa, in un contratto e perfino mancare del tutto, potendo il relativo rapporto modellarsi indifferentemente secondo gli schemi generali, previsti e disciplinati dalla legge, ovvero discostarsene in tutto od in parte …” (ex plurimis, S.U. n. 13330/2010 e S.U. n. 14891/2010) (…) Essenziale è, invece, che in relazione al maneggio di denaro sia costituita una relazione tra ente di pertinenza ed altro soggetto (…) Tale nozione allargata di agente contabile, la quale ricomprende anche i soggetti che abbiano di fatto maneggio di denaro pubblico….. è in perfetta armonia con l’art. 103 Cost., la cui forza espansiva deve considerarsi vero e proprio principio regolatore della materia».
[13] Nel prosieguo della pronuncia, la Corte non ha mancato di precisare che: «Si tratta di un principio generale dell’ordinamento, senza alcuna eccezione di carattere settoriale, che trova conferma anche nel d.lgs. n. 118 del 23 giugno 2011 – entrato in vigore dal 10 agosto 2011, che nel dettare “Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni degli Enti locali e dei loro organismi”, nell’allegato n. 4/2, al punto 4.2, introdotto con il d.lgs. n. 126 del 2014, dispone espressamente che: “Gli incaricati della riscossione assumono la figura di agente contabile e sono soggetti alla giurisdizione della Corte dei conti, a cui devono rendere il conto giudiziale. Agli stessi obblighi sono sottoposti tutti coloro che, anche senza legale autorizzazione, si ingeriscono di fatto, negli incarichi attribuiti agli agenti anzidetti”» (p. 21).
[14] È nota la triplice ratio alla base dell’istituto della sostituzione d’imposta: la razionalizzazione del rapporto tributario tra il fisco e i singoli contribuenti; il rinvigorimento della garanzia patrimoniale dell’Amministrazione finanziaria in merito all’adempimento da parte dei contribuenti alla spesa pubblica; l’interesse alla sicura riscossione del tributo. In altri termini, il sostituto di imposta costituisce necessariamente un soggetto interessato da un rapporto negoziale con il sostituito suscettibile di determinare l’elemento costitutivo del presupposto dell’imposta.
Tipici esempi di sostituti di imposta sono: il datore di lavoro privato, la Pubblica Amministrazione, l’istituto previdenziale che eroga la pensione, il committente di un lavoratore autonomo, il condominio, le società che erogano i dividendi.
In tutte le ipotesi delineate, i sostituti d’imposta sono ‘parti’ di un rapporto obbligatorio con i sostituiti che prevede prestazioni sinallagmatiche costituite nello schema do (la retribuzione, il compenso erogati dal sostituto) ut facias (il ‘tipo’ di prestazione di norma richiesta al sostituito).
Invero, l’assunto trova esplicita conferma nell’art. 7 del D.P.R. 29 settembre 1973 nr. 600 in cui, nella descrizione degli obblighi dichiarativi del sostituto d’imposta si dispone esattamente che: «I soggetti indicati nel titolo III, che corrispondono compensi, sotto qualsiasi forma, soggetti a ritenute alla fonte secondo le disposizioni dello stesso titolo, devono presentare annualmente apposita dichiarazione unica (…) La dichiarazione deve indicare i dati e gli elementi necessari per l’individuazione del sostituto d’imposta, per la determinazione dell’ammontare dei compensi, sotto qualsiasi forma corrisposti, delle ritenute, dei contributi e dei premi (…)». Prescindendo dall’enunciato testuale della norma, ragioni di ordine sistematico e teleologico impongono siffatta soluzione: prevedere indiscriminatamente la possibilità di qualificare come sostituti di imposta qualsiasi soggetto indipendentemente dalla costanza di un rapporto con il sostituito, implicherebbe l’istituzione di una forma di ‘accollo legale’ del debito del sostituito verso l’Amministrazione finanziaria da parte del sostituto o responsabile d’imposta, in violazione dell’art. 23 della Costituzione che impone la previsione legale di qualunque prestazione (personale o patrimoniale) posta a carico di un soggetto e idonea a impoverirne il patrimonio giuridico. Pertanto, in assenza di accordo tra il debitore e il terzo subentrante nel lato passivo del rapporto giuridico con il creditore del primo, solo interessi superiori meritevoli di tutela che presidiano la sfera giuridica del debitore sostituito legittimano il trasferimento della situazione giuridica passiva imputabile a un fatto/atto di quest’ultimo a un soggetto terzo.
In tal senso, a mero scopo didascalico che si ritiene utile per declinare il principio di carattere generale sotteso all’istituto, la sostituzione di imposta si può equiparare a una cessione del credito nei confronti del sostituto-debitore ceduto (ad esempio, il diritto alla retribuzione verso il datore di lavoro) a titolo oneroso in favore dell’Amministrazione finanziaria-parte cessionaria del credito (laddove l’onerosità sussiste nell’estinzione del diritto di credito vantato dalla Amministrazione nei confronti dell’ipotetico prestatore di lavoro-contribuente dell’imposta sul reddito derivante dalla retribuzione percepita).
[15] Risulta evidente come la riformulazione delle nozioni di «pubblico ufficiale» e di «incaricato di pubblico servizio» abbia valorizzato il carattere sostanziale della funzione svolta dal soggetto, a prescindere dal presupposto di un rapporto di dipendenza-impiego sussistente con la pubblica amministrazione. Giova ricordare le lucide osservazioni di autorevole dottrina all’alba della riforma: «Questa riformulazione, nel perseguire l’obiettivo di una maggiore determinatezza in termini definitori, mira a dare inequivoca consacrazione legislativa alla concezione c.d. funzionale-oggettiva di “pubblico ufficiale” e di “incaricato di pubblico servizio”: cioè alla concezione che fa dipendere la titolarità dell’una o dell’altra qualifica non già (o non solo) dal rapporto di dipendenza tra il soggetto e un ente pubblico: ciò che conta è soltanto che il soggetto in questione svolga, anche in via di mero fatto, una pubblica funzione (o un pubblico servizio)», cit. Fiandaca-musco, Diritto penale. Parte speciale, I, V edizione, 2012, p. 171.
[16] È concorde sulla soluzione la giurisprudenza di legittimità: «Il testo, infatti, dell’articolo 358 c.p., comma 2, nella versione oggi vigente, considera sufficiente per l’attribuzione di detta qualità il semplice esercizio, a qualunque titolo e quindi anche di fatto e senza preventiva assegnazione di incarichi, di una attività qualificabile come pubblico servizio perché disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, benché priva dei poteri tipici di quest’ultima; le forme richiamate dalla norma sopra citata fanno evidentemente riferimento alla pubblica funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico (articolo 357 c.p., comma 2), norme sicuramente esistenti nel caso in esame dato che l’imposta di soggiorno è stata istituita con legge dello Stato (Decreto Legislativo n. 23 del 2011) e disciplinata poi con Regolamento Comunale adottato ai sensi del Decreto Legislativo n. 446 del 1997, articolo 52 (Cass. pen. Sez. VI, sent. sentenza 24 novembre 2017, n. 53467);
«Quanto infine al tema della richiesta esclusione della qualità di incaricato di pubblico servizio in capo all’imputato (…) va ricordato che l’attività di riscossione della imposta di soggiorno da parte del privato si accompagna a precedenti condotte di accertamento del presupposto dell’imposta e a successive attività di registrazione dell’importo riscosso che richiedono “un bagaglio di nozioni tecniche, normative e di esperienza che esulano dall’esercizio di mansioni esclusivamente materiali o di ordine” (…)
In definitiva, quindi, può affermarsi che riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio l’amministratore e legale rappresentante di una società privata che, anche in assenza di preventivo, specifico incarico da parte della Pubblica Amministrazione, proceda effettivamente e materialmente alla riscossione della imposta di soggiorno, in considerazione della natura prettamente pubblicistica della sua attività derivante da norme di diritto pubblico istitutive di detta imposta» (Cass. pen. Sez. VI., sent. nr. 32058 del 2018); conf. Cass. pen., Sez. VI, sent. nr. 6130 del 2019.
[17] L. nr. 96 del 2017, art. 5-ter: «Il soggetto che incassa il canone o il corrispettivo, ovvero che interviene nel pagamento dei predetti canoni o corrispettivi, è responsabile del pagamento dell’imposta di soggiorno di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23, e del contributo di soggiorno di cui all’articolo 14, comma 16, lettera e), del decreto-legge 31 maggio 2010, n.78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n.122, nonché degli ulteriori adempimenti previsti dalla legge e dal regolamento comunale».
[18] I quali rinviavano, come illustreremo in seguito, per la disciplina sanzionatoria, alle norme in materia di illeciti tributari (L. nr. 471 del 1997, art. 13 co. 1) e al Testo unico degli enti locali (TUEL) in materia di violazione delle disposizioni dei regolamenti comunali (D. lgs.nr. 267/2000, art. 7-bis co. 1).
[19] Da siffatte premesse nell’ambito della gerarchia delle fonti, muove la giurisprudenza di legittimità nelle ultime pronunce su casi di omesso versamento dell’imposta di soggiorno: Cass. pen. Sez. VI, Sent. nr. 6130/2019), evidenziando, altresì il limite della non derogabilità della fattispecie penale da parte del precetto contenuto in un regolamento regionale (e, pertanto, a fortiori, da un regolamento comunale) disposto dall’art. 9 co. 2 della L. nr. 689 del 1981: Il d.lgs. n. 267 del 2000, sull’ordinamento degli Enti locali, ha previsto in via generale che «per le violazioni delle disposizioni dei regolamenti comunali e provinciali si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 25 euro a 500 euro”, facendo comunque salva una “diversa disposizione di legge” (art. 7-bis). Pertanto, non siamo in presenza di una disposizione “speciale” ai sensi dell’art. 9 L. n. 689 del 1981, quanto piuttosto di una disposizione di portata generale e residuale, recessiva pertanto in presenza di una “diversa disposizione di legge”. (…) Né potrebbe essere consentito ai Regolamenti comunali di depenalizzare fatti di rilevanza penale».
[20] Da ritenersi integrata, come già ricordato, dall’art. 5-ter della L. nr. 96 del 2017 il quale stabilisce che: «Il soggetto che incassa il canone o il corrispettivo, ovvero che interviene nel pagamento dei predetti canoni o corrispettivi, è responsabile del pagamento dell’imposta di soggiorno di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (…)», pertanto ampliando il novero dei soggetti titolari dell’obbligo tributario.
[21] Difatti, i Regolamenti comunali operavano un richiamo, altri un rinvio (in realtà, come si dirà, contra legem), alle conseguenze sanzionatorie, previste in altri testi di legge: i Regolamenti comunali di Roma (Deliberazione n. 32, Anno 2018, art. 8), Siracusa (art. 9 Regolamento comunale), Lecce (Delibera del 21.06.2018, art. 10 co.2), Ancona (Regolamento del 1.1.2016, art. 9 co. 1) ‘rinviavano’ alle sanzioni previste dall’art. 13 del D. lgs. nr. 471 del 1997 in materia di inadempimenti di natura tributaria; mentre i Regolamenti comunali di Napoli (Delibera 22/2012, ult. mod./int. 13/2019, art. 9 co. 5) e Rimini, richiamavano la sanzione prevista dall’art. 7-bis del D.lgs 267/200 (c.d. TUEL, Testo Unico degli Enti Locali).
[22] In realtà, come si sarà già avveduto il lettore a un primo sguardo, se i Regolamenti avessero la ‘competenza’ di ‘rinviare’ in senso formale o materiale ad altre fonti del diritto per determinare le ‘sanzioni’ irrogabili, risulterebbe sostanzialmente eluso il limite della ‘riserva di legge ‘sancito dall’art. 23 della Suprema Carta. I Regolamenti possono solo richiamare l’unica disposizione in re ipsa applicabile, prevista in tema di violazioni delle norme stabilite dai Regolamenti Comunali.
[23] Invero, non sembra che potesse ritenersi legittimo il rinvio da parte di alcuni Regolamenti comunali alle sanzioni previste dalla disciplina in materia di inadempimenti di obblighi di fonte tributaria. Come già precisato dianzi, il gestore, nella qualifica di agente contabile, risultava competente per la riscossione, rendicontazione e del versamento dell’imposta, ma non entrava a ‘far parte’ del rapporto tributario con l’Ente locale. Come precisato dalla menzionata sentenza (cfr. nota 7) della Corte dei Conti, a Sezioni Riunite, in sede giurisdizionale: «É utile precisare che nei confronti del gestore inadempiente è possibile soltanto la previsione di una sanzione amministrativa per le violazioni delle disposizioni dei Regolamenti comunali, ai sensi della norma innanzi richiamata, atteso che in considerazione dell’ accertata estraneità del gestore della struttura ricettiva al rapporto tributario, che si instaura esclusivamente tra soggetto passivo ed Amministrazione comunale, è illegittima la previsione del Regolamento comunale che preveda per l’omesso versamento dell’imposta riscossa dal titolare della struttura ricettiva una sanzione avente natura tributaria» (Sentenza n. 22/2016/QM).
Pertanto, è vero che l’art. 7-bis del TUEL (D. lgs. 267/2000) disponendo che: «Salvo diversa disposizione di legge, per le violazioni delle disposizioni dei Regolamenti comunali e provinciali si applica la sanzione ammnistrativa pecuniaria da 25 a 500 euro», prevede una clausola di sussidiarietà («salvo diversa disposizione di legge»), la quale consente di disapplicare la sua disciplina – comprensiva di tutti i casi di violazione del Regolamento comunale – in favore di quella prevista nei casi in cui la violazione del Regolamento si concreta nell’omesso versamento del tributo dovuto all’Ente locale.
Tuttavia, la ‘condizione sospensiva’ alla quale era subordinata l’ipotesi delineata, si inverava nell’integrazione dell’elemento di specialità previsto dalla disposizione derogante, che si verifica ‘solo’ per l’ospite della struttura (in quanto soggetto passivo del rapporto tributario), ma non per il gestore, estraneo, nella antecedente disciplina, al rapporto con la Pubblica amministrazione locale e, pertanto, non tenuto ad alcun adempimento di matrice tributaria, ma a una mera prestazione di servizio.
Breve: in caso di inadempimento, l’ospite della struttura avrebbe risposto (e risponderebbe tutt’ora) con le sanzioni comminate dall’art. 13 del D. lgs. 471/1997; il gestore avrebbe risposto (ora non più) con le sanzioni previste dall’art. 7-bis del D. lgs. 267/2000.
[24] Sul punto, nella sentenza succitata (Cass. pen. sez. VI nr. 6130 del 2019), la Suprema Corte fondava sulla clausola di sussidiarietà prevista dell’art. 7-bis del d.lgs. nr. 267 del 2000 (cfr. nota precedente) – correttamente ‘richiamato’ dal Regolamento comunale di Milano – per ritenere, invece, ‘assorbito’ l’illecito amministrativo all’interno della fattispecie di peculato. In realtà, come si è già detto e si dirà in prosieguo, la fattispecie incriminatrice e l’illecito amministrativo operano su piani complementari e non sovrapponibili. La clausola di riserva prevista nell’incipit dell’art. 7-bis del D. lgs. 267/2000 risulta funzionale, in definitiva, per il caso di interesse, per distinguere, in termini sanzionatori, la responsabilità del gestore da quella dell’ospite, in aderenza al principio di uguaglianza (nella sua declinazione formale) che impone di comminare una sanzione dall’estremo massimo più elevato (fino al 30% dell’importo non versato) per l’ospite (soggetto passivo del tributo) e la sanzione pecuniaria fino a 500 euro (art. 7-bis del D. lgs. 267/2000) per il gestore della struttura: come risulta evidente, sebbene il massimo edittale previsto per l’omesso versamento concreti, in valore assoluto, una perdita più esosa per il titolare della struttura, tuttavia occorre calibrare il gravame della sanzione sulla diversa posizione dei soggetti: la configurazione di una sanzione nella sua latitudine più estesa (500 euro), è concretamente prospettabile solo in casi di fatti connotati da intensa gravità, id est, dall’inadempimento di imposte per un valore molto elevato di cui la sanzione pecuniaria prevista in 500 euro risulterebbe una frazione verosimilmente trascurabile.
Del resto, conducendo alle necessarie conseguenze il ragionamento della Suprema Corte, si sarebbe dovuto ritenere il Comune impositore del tributo (nella fattispecie, il Comune di Milano), titolare del solo diritto al risarcimento del danno derivante dalla costituzione come parte civile nel processo penale, deprivando in questo modo l’Ente impositore della tutela più incisiva prevista dalle sanzioni applicabili per l’illecito amministrativo.
[25] A maggior ragione, alla luce della recente giurisprudenza europea e convenzionale le quali, in recenti arresti, hanno rimodulato (in senso restrittivo) il carattere di afflittività necessario ad iscrivere le sanzioni previste da provvedimenti amministrativi nell’alveo del ‘sostanzialmente penale’. Una nota pronuncia che depone in tal senso è la sentenza emessa dalla Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, nell’ambito di un procedimento nel quale il petitum era rappresentato dalla lamentata violazione dell’art. 4 Prot. 7 della Corte EDU in ragione di un doppio procedimento per l’illecito di natura amministrativa di evasione fiscale e la speculare fattispecie incriminatrice di frode fiscale (Corte EDU, Grande Camera), sent. 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, 15 novembre 2016, ric. n. 24130/11 e 29758/11).
«Il procedimento penale per evasione fiscale deve costituire una risposta energica ed appropriata a condotte meritevoli di rimprovero. Il suo scopo principale era la punizione delle forme più intense di illecito. Nella sua decisione in Rosenquist v. Sweden,, 14 settembre 2004, la Corte osservò che lo scopo di perseguire il delitto di evasione fiscale esulava da quello di imporre una sanzione di tipo tributario, assolvendo quest’ultima la funzione di assicurare le istituzioni del sistema fiscale nazionale (…) I procedimenti penali per il delitto di evasione fiscale servono anche alla funzione esemplare, specialmente laddove nuovi tipi di frode vengono alla luce, in modo da dissuadere potenziali evasori fiscali di portare in fondo il proprio percorso nell’illiceità. Risparmiare i casi più gravi di evasione fiscale dal processo laddove una pena pecuniaria sia già stata irrogata priverebbe lo Stato di scoraggiare in modo esemplare, assistita, altresì, dalla natura pubblicistica del procedimento, la determinazione a commettere siffatto genere di reati. (…)» (§ 96).
In conclusione, l’adozione integrata del procedimento penale e del procedimento amministrativo era essenziale per trattare i casi più gravi di frode fiscale e sarebbe fallace assumere che, solo perché due tipi di procedimento e due autorità vengono in gioco, i due tipi di sanzione non potrebbero costituire un sistema coerente in risposta a siffatto tipo di illecito» (§ 114)».
[26] Appare appena il caso di ricordare, infatti, che mentre secondo i principi generali in materia di obbligazioni di natura civilistica, vige la regola della responsabilità solidale tra i codebitori (art. 1292 co. 1 c.c.), salvo casi diversamente disciplinati dalla legge (art. 1294 c.c.), in diritto tributario vige la regola opposta. Fuori dai casi regolati da espressa previsione legislativa, i soggetti passivi del rapporto tributario restano responsabili solo per l’adempimento della prestazione debitoria di cui hanno posto in essere il fatto sintomatico della capacità contributiva.
[27] Inoltre, sembra doversi ritenere che il gestore sia sguarnito della garanzia del c.d. beneficium excussionis del debitore principale (l’ospite della struttura). Invero, laddove la legge ha previsto l’obbligo per l’Amministrazione finanziaria della previa escussione del patrimonio del debitore principale, lo ha espressamente sancito come nei casi di responsabilità del cessionario d’azienda (in cui, sussiste l’obbligo del previo esercizio dell’azione della pretesa ‘risarcitoria’ nei confronti del cedente ai sensi dell’art. 14 del D.lgs. 18.12.1997, nr. 472) e nel rapporto con lo spedizioniere doganale (art. 41 D.P.R., 23.1.1973, nr. 43) che gode del beneficio della preventiva escussione del proprietario della merce spedita.
[28] Adesso sì, riconducibile (indipendentemente dall’espresso rinvio operato dall’art. 180 co. 3 e 4 del D. L. 18 maggio 2020) alle disposizioni previste dall’art. 13 del D. lgs. 471 del 1997 in ragione della specificità della condotta del gestore inadempiente l’obbligo tributario, integrante una violazione del Regolamento comunale (art. 7-bis, D. lgs. 267/2000).
[29] A poche ore dalla promulgazione del decreto, la Difesa degli amministratori delegati del Radisson Blues Es Hotel e del presidente della «Jsh Rome hotel» – accusati per non aver versato nelle casse del comune Capitolino, rispettivamente, due milioni e seicentosessanta mila euro e un milione e seicentomila euro – hanno richiesto al GUP presso il Tribunale di Roma, emettersi sentenza di non luogo a procedere «perché il fatto non costituisce più reato (art. 425 co. 1 c.p.p.)». L’udienza è stata rinviata dal Giudicante al 2 luglio per valutare l’eccezione proposta dalla difesa.
[30] Come rileva, ex professo, Trapani, in un lavoro monografico sulla tematica della successione delle leggi penali nel tempo: «Questa conclusione trova esplicita conferma, già a livello di diritto positivo, nell’ultima parte dell’art. 2 comma 2 c.p., secondo cui la qualificazione di liceità del fatto travolgerebbe in caso di condanna irrevocabile solo “gli effetti penali” del giudicato, lasciando conseguentemente sussistere la qualificazione del fatto come reato per tutti gli effetti diversi da quelli penali, in primis per quelli civili come il risarcimento del danno non patrimoniale (…)». Così, l’A. in Abrogatio. Lineamenti della validità temporale della norma giuridica, 2019, p. 147.
[31] Cit. Mucciarelli, Illecito penale, illecito amministrativo e ne bis in idem: la Corte di Cassazione e i criteri di stretta connessione e proporzionalità, in «DPC», 2018. L’Autore, in efficace sintesi di un caso deciso dalla Suprema Corte (Cass., Sez. V, sent. 16 luglio 2018), in un caso di duplice sentenza di condanna pronunciata contro gli imputati in ragione di una medesima condotta illecita: in sede amministrativa per manipolazione del mercato (art.187-ter TUF, formulazione previgente) e, successivamente in sede penale, per violazione dell’art. 185 TUF (delitto di manipolazione del mercato). Il Supremo Collegio giunse alla decisione che la pena – detentiva e pecuniaria – commisurata per il fatto concreto nel minimo edittale, non sarebbe risultata idonea a reprimere il delitto contestato in quanto non ritenuta «efficace, proporzionata e dissuasiva» rispetto al caso di specie.
Da ultimo, precisa la Corte, facendo buon governo dei criteri formulati dalla Corte EDU e recepiti dalla CGUE, che «il trattamento sanzionatorio derivante dall’insieme delle pene in concreto applicate non risulta eccessivamente oneroso per i soggetti interessati».
[32] Nell’«obiettivo» ancora mutuando dalla citata pronuncia della Corte di legittimità, «di trovare un giusto contemperamento di interessi tra le esigenze repressive dello Stato nazionale verso fatti illeciti di notevole disvalore sociale e le garanzie individuali».
[33] Nella direzione ventilata, in efficace sintesi, anche un recente arresto della Corte EDU nella pronuncia A. e B. c. Norvegia del 15 novembre 2016. Nella indicata occasione, la Grande Camera ha ridisegnato i lineamenti complessivi dell’istituto del ne bis in idem, riducendone la sfera di efficacia, con un significativo depotenziamento del suo coefficiente applicativo.
Mutuando le osservazioni di una acuta interprete del deciso mutamento di tendenza nell’interpretazione del principio, si può affermare che «(la Corte) ha mutato profondamente la natura del ne bis in idem convenzionale, tramutandolo in buona sostanza da principio eminentemente processuale – divieto già del doppio processo (prima che della doppia sanzione sostanzialmente penale) per il medesimo fatto – a garanzia di tipo sostanziale», Galluccio, La Grande Sezione della Corte di Giustizia si pronuncia sulle attese questioni pregiudiziali in materia di ne bis in idem, in «DPC», 2018.
Nella decisione annotata la Grande Sezione, temperando decisamente i criteri sanciti nella sentenza Grande Stevens e a. contro Italia – previa conferma dei limiti esterni all’applicazione del divieto costituti dal medesimo fatto storico e della natura punitiva delle sanzioni previste – ha devoluto al Giudice del caso concreto la ricognizione di una «sufficiente connessione sostanziale e temporale» (sufficiently close connection in substance and time) tra i due procedimenti come indice sintomatico della conformità al divieto di bis in idem, tenendo in debita considerazione i seguenti parametri: i differenti profili di antidoverosità della condotta e, correlativamente, i diversi scopi perseguiti dall’ordinamento mediante i due procedimenti, la prevedibilità del doppio giudizio, il differente contenuto, possibile, del thema probandum al fine di evitare l’acquisizione e l’assunzione del medesimo materiale probatorio in entrambi i procedimenti, la proporzione complessiva della pena irrogata, l’appartenenza della fattispecie al nucleo duro del diritto penale e la dipendenza cronologica tra i due procedimenti.
[34] I c.d. criteri Engel tipizzati nella sentenza Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, possono così essere individuati: 1. La qualificazione giuridica della misura; 2. la natura della misura; 3. la natura e il grado di severità della «sanzione», cfr., sulla recezione dei c.d. Engel principia nel diritto interno, in seguito alla sentenza di condanna della Grande Camera nel procedimento Grande Stevens e altri contro Italia, Seconda Sezione, 4 marzo 2014, Viganò, Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio in materia di abusi di mercato: dalla sentenza della Consulta un assist ai giudici comuni, in DPC, 2016.
Declinarono, invero, il contenuto dei principi sanciti nel giudizio Engel contro i Paesi Bassi, gli stessi Giudici di Strasburgo nella sentenza dianzi citata, emessa del giudizio Grande Stevens e a. contro Italia: «Questi criteri sono peraltro alternativi e non cumulativi: affinché si possa parlare di «accusa in materia penale» ai sensi dell’articolo 6 § 1, è sufficiente che il reato in causa sia di natura «penale» rispetto alla Convenzione, o abbia esposto l’interessato a una sanzione che, per natura e livello di gravità, rientri in linea generale nell’ambito della «materia penale» (…) Ciò non impedisce di adottare un approccio cumulativo se l’analisi separata di ogni criterio non permette di arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza di una «accusa in materia penale (…)».
Nel diritto pretorio interno, in tema di infrazioni al testo unico in materia bancaria e creditizia nel prosieguo dei motivi, in una recente arresto della Suprema Corte (Cass. civ. Sez. II., Sent. nr. 3656 del 2016), è stata riconosciuta la natura amministrativa delle sanzioni previste dal previgente, ma applicato ratione temporis, art. 144 TUB in conformità agli esiti raggiunti nella sentenza Grande Stevens e a. contro Italia, anche se in funzione di rigetto delle doglianze mosse dal ricorrente.
La Corte ha definito (per escluderla nel caso in esame) l’impronta di afflittività che contrassegna la sanzione del carattere ‘penale’ nella giurisprudenza convenzionale, precisando che non è la sola natura repressiva della sanzione principale ma sono anche le ‘pene’ accessorie e le conseguenze annesse dalla legge alla condanna a risultare dirimenti per assegnare natura penale ovvero amministrativa alla sanzione: «Orbene, ad avviso di questa Corte, le conclusioni cui è pervenuta la Corte EDU nella citata pronuncia non appaiono estensibili alla materia oggetto del presente giudizio, inerente a sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla Banca d’Italia ai sensi dell’art. 144 TUB per “carenze nell’organizzazione e nei controlli interni da parte dei componenti il Consiglio di Amministrazione” (…). Inoltre, all’irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dall’art. 144 TUB non si accompagnano sanzioni accessorie; laddove l’applicazione delle sanzioni pecuniarie di cui all’art. 187 ter TUF comporta, per i rappresentanti delle società coinvolte, ai sensi dell’art. 187 quater, la sanzione accessoria della perdita temporanea (per una durata tra i due mesi e i tre anni) dei requisiti di onorabilità e, per gli esponenti aziendali di società quotate, l’incapacità temporanea ad assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo nell’ambito di società quotate e di società appartenenti al medesimo gruppo di società quotate. Di conseguenza, alla stregua dei criteri enunciati dalla Corte di Strasburgo, non sembra possibile attribuire carattere penale a tali sanzioni» (pp. 11 – 12).
[35] Ondivaga la giurisprudenza della Corte EDU nei casi sottoposti al suo scrutinio (rinvii pregiudiziali o ricorsi ex art. 34 della Convenzione) nella valutazione del doppio binario sanzionatorio previsto dai singoli ordinamenti per determinate categorie di illeciti (in materia, nella stragrande maggioranza dei casi, di illeciti tributari ovvero in materia di tutela del mercato mobiliare).
Pur restando inalterato tra le pronunce il comune denominatore in chiave garantistica dell’istituto – concentrato sul divieto di sottoporre a doppio giudizio con finalità punitive uno stesso fatto storico (idem factum) in contrasto a logiche di Etikettenschwindel (c.d. truffa delle etichette) camuffate nello schieramento del doppio binario sanzionatorio – come già argomentato, la fisionomia dell’istituto risulta segmentata dal discontinuo itinerario ermeneutico tracciato dai Giudici di Strasburgo.
Si sono susseguite in ordine di tempo numerose pronunce di cui qui si annotano le più significative ai fini del contributo apportato nel contenuto del divieto di ne bis in idem: Zolotoukhine c. Russia del 10 febbraio 2009, Aklagaren c. Hans Akerberg Fransson del 26 febbraio 2013, C-617/10; Grande Stevens e a. c. Italia; Nykanen c. Finlandia del 20 maggio 2014; Lucky c. Svezia del 27 novembre 2014; Causa C-542/15, Menci; Garlsson Real Estate (C-537/16); Di Puma (C-596/16 e C-597/16); A e B c. Norvegia del 15 novembre 2016; C. eur. dir. uomo, 16 aprile 2019, Bjarni Ármannsson c. Islanda; C. eur. dir. uomo, 6 giugno 2019, Nodet c. Francia.
Per accedere all’elenco completo dei casi e per il quadro di sintesi della fisionomia dell’istituto delineata dalla prassi applicativa, si rinvia al prospetto edito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sul sito istituzionale, Guide on Article 4 of Protocol No. 7 to the European Convention on Human Rights. Right not to be tried or punished twice, 30 aprile 2020, pp. 22- 24 e ai vari “Monitoraggi Corte EDU” disponibili in «DPC». Cfr. per una rassegna dell’evoluzione esegetica dell’istituto nel dialogo tra Corte interna e comunitaria, tra cicli di interpretazione estensiva e fasi di applicazione restrittiva, la Relazione di Orientamento dell’Ufficio del Massimario Penale. Ne bis in idem. Percorsi interpretativi e recenti approdi della giurisprudenza italiana ed europea, Rel. 26/2017, pp. 1 – 27. Si rinvia per uno sguardo d’insieme sul panorama giurisprudenziale sovranazionale e interno, De amicis, in Cedu e ordinamento italiano. La giurisprudenza europea dei diritti dell’uomo e l’impatto sull’ordinamento italiano, Di stasi (a cura di), pp. 515 – 558; Madia, Ne bis in idem europeo e giustizia penale. Analisi sui riflessi sostanziali in materia di convergenze normative e cumuli punitivi nel contesto di uno sguardo d’insieme; Ne bis in idem europeo e giustizia penale, 2020, pp. 135 – 210.
[36] Al più, de lege lata, risulterebbero percorribili soluzioni già esperite nel diritto pretorio, per scongiurare un inasprimento eccessivo del trattamento sanzionatorio a carico del gestore assoggettato alle sanzioni pecuniarie di natura amministrativa e alla pena detentiva prevista dalla fattispecie incriminatrice. Nel caso già segnalato (vd. n. 37), il Tribunale di Milano, ha detratto dal minimo edittale previsto dalla fattispecie incriminatrice (delitto di manipolazione del mercato ex art. 185 TUF), previo ragguaglio ex art. 135 c.p. della multa nella corrispondente pena detentiva, la frazione di sanzione pecuniaria irrogata dal giudice in sede amministrativa per il medesimo fatto. Alla valutazione della gravità del fatto ‘penalmente significativo’ il giudice ha sommato la valutazione svolta dal precedente giudicante, interpretando estensivamente la disposizione prevista dal novellato art. 187-terdecies co. 1 l. A) del TUF, convertendo la parte eccessiva della sanzione pecuniaria inflitta dal giudice amministrativo nella corrispondente pena detentiva (60.000 euro per otto mesi di reclusione) e ha così modulato la commisurazione della pena sulla complessiva gravità del ‘fatto illecito’, «al momento dell’irrogazione delle sanzioni di propria competenza, delle misure punitive già irrogate» (art. 187-terdecies co.1 l. A) del TUF come modificato dal D.lgs. 107/2018). Seguendo il percorso argomentativo definito dal Tribunale di Milano, si potrebbe caldeggiare, de lege ferenda, l’introduzione di una ‘clausola di proporzionalità’ con analoga funzione per consentire al giudice del procedimento penale di graduare la pena del caso concreto alla luce anche della precedente sanzione pecuniaria inflitta al soggetto per l’illecito amministrativo. Resta inteso che, in applicazione del principio di specialità (art. 9, L. 689/1981), per fatti particolarmente gravi, solo le sanzioni amministrative sarebbero irrogabili, ostando, come vedremo, la specificità dei destinatari del precetto amministrativo (gli albergatori) all’instaurazione di un nuovo procedimento penale.
[37] Risulterebbe ingiustificato e frutto di un irragionevole trattamento preferenziale (in violazione dell’art. 3 della Suprema Carta) disapplicare la fattispecie delittuosa di cui all’art. 314 c.p. per il caso di omesso versamento del tributo anche di trascurabile entità, laddove, invece, resterebbe passibile di sanzione penale l’omesso versamento da parte del concessionario del servizio di ricevitoria del lotto delle giocate riscosse per Conto dell’Azienda Autonoma Monopoli di Stato (cfr. Cass. pen. Sez. VI. Sent. nr. 31920/2019) e l’omesso versamento degli incassi percepiti dalla vendita di valori bollati (Cass. pen. Sez. VI, Sent. nr. 15853/2018).
[38] In tal senso, la Grande Sezione della CGUE, interpellata con ricorso pregiudiziale in un caso di doppio giudizio posteriore all’irrogazione di sanzioni amministrative di natura punitiva per omesso versamento di IVA, ha statuito, recependo il diritto vivente nelle citate pronunce della Corte EDU che: «(…) In materia di reati relativi all’IVA, appare legittimo che uno Stato membro si proponga, da un lato, di dissuadere e reprimere qualsiasi inadempimento, intenzionale o meno, alle norme afferenti alla dichiarazione e alla riscossione dell’IVA infliggendo sanzioni amministrative fissate, eventualmente, su base forfettaria e, dall’altro, di dissuadere e reprimere inadempimenti gravi alle menzionate norme, i quali sono particolarmente deleteri per la società e giustificano l’adozione di sanzioni penali più rigorose (…)». In seguito, ha ribadito la necessaria prevedibilità da parte del soggetto della possibilità di essere perseguito in due procedimenti giudiziari distinti: «Quanto al suo carattere strettamente necessario, una normativa nazionale come quella in discussione nel procedimento principale deve, innanzitutto, prevedere norme chiare e precise che consentano al soggetto dell’ordinamento di prevedere quali atti e omissioni possano costituire oggetto di un siffatto cumulo di procedimenti e di sanzioni (…)». La Corte ha poi ribadito il criterio di ‘sussidiarietà verticale’ emergente nel diritto pretorio convenzionale, in forza del quale è demandabile al giudice del caso concreto la valutazione in ordine alla integrabilità delle conseguenze sanzionatorie previste per lo stesso fatto da settori diversi dell’ordinamento: «Spetta, in definitiva, al giudice del rinvio valutare la proporzionalità dell’applicazione concreta della summenzionata normativa nell’ambito del procedimento principale, ponderando, da un lato, la gravità del reato tributario in discussione e, dall’altro, l’onere risultante concretamente per l’interessato dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni di cui al procedimento principale» (CGUE – Sezione Grande, sentenza 20/03/2018 n° C‑524/15).
Allineandoci alla presente decisione, appare indispensabile, a fortiori, per i casi di concorso fra peculato e omesso versamento dell’imposta di soggiorno che non conoscono limiti di operatività (come avviene, invece, per l’ipotesi di omesso versamento dell’IVA in cui, il delitto ‘prende vita’ solo in seguito al superamento della soglia di euro 250.000 di ‘evasione’), demandare al giudice del caso concreto il dovere di bilanciare le ‘pene’ irrogabili nel duplice impianto sanzionatorio.
[39] Beninteso, previa verifica in fase applicativa, dell’idoneità della sanzione amministrativa ad esplicare l’efficacia punitiva calibrata sulla complessiva illiceità (anche agli effetti penali) del fatto.
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