Uno dei principi fondamentali del giudizio disciplinare nel diritto pubblico è la necessità della previa contestazione degli addebiti all’incolpato prima dell’applicazione delle sanzioni disciplinari, fatta eccezione per quelle di rilievo minimo, così come testimoniato da molteplici fonti normative e contrattuali, tra cui l’art. 24 CCNL 94-97 comparto Ministeri (tuttora vigente), l’art. 14 D.P.R. 25 ottobre 1981, nr. 737 (Regolamento di disciplina per gli appartenenti all’amministrazione della Pubblica sicurezza), l’art. 101 D.P.R. 10 gennaio 1957, nr. 3 (Testo unico degli impiegati civili dello Stato). E’ da rilevare, a proposito dell’ultima normativa citata, che, in virtù di apposite norme di rinvio, in taluni settori del pubblico impiego continuano ad applicarsi, in via suppletiva, le disposizioni sulla disciplina ivi contenute (cfr. art. 31 D.P.R. 737/1981).
La contestazione deve essere fatta per iscritto, ai sensi del citato art. 24 CCNL 94-97 e norme similari; deve altresì riportare il fatto addebitato, secondo quanto dispone l’art. 15, c. 4 d. l.vo 23 febbraio 2006, nr. 109, in tema di illeciti disciplinari dei magistrati.
Altre fonti normative prevedono un contenuto necessario più ampio dell’atto formale di contestazione, come la trasgressione disciplinare di cui l’incolpato è chiamato a rispondere e il termine per la presentazione delle giustificazioni o di altri elementi difensivi, secondo quanto stabilisce, ad esempio, l’art. 14, c.1 e 3, D.P.R. 737/1981.
E’ riconosciuto, dal prevalente orientamento giurisprudenziale, che la sanzione disciplinare “deve essere correlata alle imputazioni formulate in sede di contestazione degli addebiti e non può fondarsi su fatti e circostanze non puntualmente e formalmente contestati” (
[1]).
Si ritiene che la sanzione disciplinare eventualmente irrogata senza il rispetto di tale regola sia illegittima (
[2]).
La giurisprudenza maggioritaria reputa, pertanto, che il principio di necessaria contestazione dell’addebito è connesso a quello dell’immutabilità della contestazione medesima nel corso del procedimento disciplinare, nel senso che si può procedere a carico dell’incolpato in relazione a fatti nuovi solo effettuando un ulteriore e formale atto di contestazione degli addebiti.
Purtuttavia, è di grande rilievo cogliere l’esatto significato del principio da ultimo citato.
Così come ravvisa la stessa giurisprudenza, l’immutabilità della contestazione non obbliga a indicare puntualmente le relative norme sanzionatorie e le responsabilità che ne discendono, poiché “è necessario e sufficiente individuare ed indicare i fatti medesimi e manifestare formalmente la precisa volontà dell’amministrazione di far derivare da essi un’eventuale responsabilità disciplinare del dipendente” (
[3]); quindi, anche la contestazione che faccia riferimento ai fatti punibili senza indicare il
nomen juris della trasgressione contestata è pienamente legittima e non provoca l’invalidità derivata della successiva sanzione disciplinare.
Se questi sono i risultati finora raggiunti dalla più recente elaborazione pretoria sull’argomento, altri limiti al principio in esame possono tuttavia desumersi, in via interpretativa, dalla stessa scansione delle fasi del procedimento disciplinare.
Infatti, il principio deve essere rispettato senza deroga alcuna nel caso di procedimenti relativi all’applicazione di sanzioni disciplinari di minore entità, nei quali l’istruttoria è estremamente semplice e de-formalizzata e non vi è possibilità, per l’incolpato, di articolare ulteriormente le sue difese successivamente alla presentazione delle giustificazioni; non altrettanto può dirsi nei procedimenti sanzionatori di maggiore complessità, in cui la fase istruttoria si articola in più sotto-fasi, come quella relative all’attività del funzionario istruttore, prevista dall’art. 107 D.P.R. 3/1957 e dall’art. 19 D.P.R. 737/1981, e quella inerente alla Commissione o Consiglio di disciplina, di cui all’art. 112 D.P.R. 3/1957 e all’art. 20 D.P.R. 737/1981.
Ad esempio, non sembrano esservi ostacoli all’acquisizione di nuovi fatti da parte del funzionario istruttore, il cui ruolo è proprio quello di raccogliere elementi, anche e soprattutto di fatto, sulla vicenda rimessagli, in modo imparziale, così come dimostrano le preclusioni soggettive previste dall’art. 107, c. 4, D.P.R. 3/1957 e la possibilità di ricusazione di cui all’art. 108, c. 2, dello stesso testo normativo.
Né si ravvisa la necessità di una contestazione suppletiva dei fatti accertati, perché il pubblico dipendente ha comunque la possibilità di prendere visione degli atti del procedimento e di conoscere eventuali nuovi addebiti a suo carico (art. 111 D.P.R. 3/1957, c. 2) ed è comunque previsto che il relatore della Commissione di disciplina riferisca in presenza dell’impiegato.
Si sottolinea, altresì, che il funzionario istruttore non deve riportare conclusioni nella sua relazione finale (
[4]), a ulteriore dimostrazione dell’imparzialità della sua funzione, consistente esclusivamente nella raccolta di tutti gli elementi informativi riguardanti il fatto oggetto di valutazione disciplinare.
L’orientamento in questione è stato anche condiviso da una decisione del Consiglio di Stato (
[5]), che ha riconosciuto la validità di un provvedimento disciplinare emanato, pur in assenza della lettera di contestazione di addebiti, a seguito di un lungo e articolato procedimento, cui l’incolpato ha personalmente partecipato, conoscendone gli atti e difendendosi con ampiezza di argomentazioni, innanzi sia al funzionario istruttore sia all’organo collegiale disciplinare.
Più complesso pare definire la sorte di nuovi fatti emersi durante la trattazione orale innanzi al Consiglio di disciplina e, cioè, stabilire se sia necessario procedere ad una nuova contestazione ovvero se lo stesso Consiglio possa allargare la sua cognizione anche a tali ulteriori profili.
Prima di tutto è da rilevare che la normativa sulle Commissioni disciplinari prevede la possibilità di rinviare gli atti all’ufficio del personale, quando sono necessarie ulteriori indagini, “indicando quali sono i fatti e le circostanze da chiarire e quali le prove da assumere”, così come dispone l’ art. 113 D.P.R. 3/1957 e, in modo analogo, l’art. 20, c. 6, D.P.R. 737/1981.
Nulla, evidentemente, impedisce di considerare “fatti da chiarire” anche le circostanze nuove emerse durante la trattazione orale.
Per la ricostruzione della fattispecie, non pare inutile osservare che la Commissione di disciplina ha natura istruttoria e non deliberativa, poiché, sulla base delle risultanze della trattazione orale, emette una delibera che, in realtà, è da ritenersi una proposta, in quanto è sottoposta al vaglio dell’organo decisionale, che può dichiarare prosciolto l’impiegato o infliggergli una sanzione non superiore a quella proposta.
Attesa la natura di collegio istruttorio e non decisionale della Commissione disciplinare e considerato che non esiste un vero e proprio titolare dell’azione disciplinare, cui andrebbe necessariamente rimesso l’adempimento formale delle contestazioni, non pare azzardato sostenere la possibilità di allargare la sfera di cognizione di detta Commissione.
Ciò purchè siano rispettate talune condizioni, come le garanzie difensive dell’incolpato, con riferimento soprattutto ai termini a difesa e alla possibilità di apportare giustificazioni; andranno inoltre svolti gli approfondimenti istruttori, previsti dalla normativa vigente.
Questo indirizzo interpretativo, che sviluppa l’orientamento pretorio sopra citato sulla non indispensabilità di una formale contestazione di addebiti, potrebbe essere avvalorato dalle innovazioni apportate dalla l. 15/2005 alla legge fondamentale sul procedimento amministrativo, con particolare riferimento all’art. 14 che, tra l’altro, ha introdotto l’art. 21 octies, cpv., della l. 241/1990; tale disposizione prevede che l’annullabilità del provvedimento non può essere pronunciata in caso di violazioni di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, per gli atti di natura vincolata, ovvero di mancata comunicazione di avvio di procedimento, anche per gli atti di natura discrezionale, laddove concorrano le condizioni specificate nel testo normativo.
L’art. 21 octies l. 241/1990 potrebbe essere ritenuto direttamente applicabile alla fattispecie in esame se si assimilasse la contestazione di addebiti alla comunicazione di avvio di procedimento, di cui, in definitiva, assolve le principali funzioni.
Non mancano pronunce giurisprudenziali che condividono tale opzione ermeneutica, ritenendo che ”la contestazione degli addebiti svolge la medesima funzione partecipativa dell’avviso di avvio di procedimento previsto dall’art. 7 l. 7 agosto 1990 nr. 241” (
[6]).
Se la contestazione di addebiti è un sotto-tipo di comunicazione di avvio di procedimento e se quest’ultima può essere omessa senza inficiare la validità del procedimento ove sussistano le condizioni previste dall’art. 21 octies l. 241/1990, cioè allorquando “l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”, ne deriva che, alle stesse condizioni, può essere tralasciata anche la formale contestazione di addebiti.
Il problema si sposta, allora, sul contenuto della prova che l’amministrazione dovrà dare in giudizio per sostenere la validità del provvedimento che ha adottato.
Si deve ritenere che requisito imprescindibile per la validità del provvedimento disciplinare è, prima di tutto, lo svolgimento di un previo procedimento, anche se con alcune carenze formali, poiché sarebbero sicuramente inaccettabili tesi interpretative che facciano discendere dall’art. 21 octies l. 241/1990 la possibilità per l’amministrazione di adottare le sue determinazioni in assoluta violazione della normativa che prevede le garanzie procedimentali.
Inoltre, poiché la funzione del procedimento disciplinare è quella di far emergere, oltre che l’interesse dell’amministrazione, anche quello secondario del pubblico dipendente, ne deriva che in quella sede dovrà essere rispettato il diritto di difesa di quest’ultimo e dovranno, pertanto, essere acquisite tutte le circostanze di fatto a sua discolpa.
Un procedimento disciplinare, in altre parole, non ha alcun senso di esistere, senza il pieno rispetto delle garanzie difensive, perché verrebbe altrimenti meno la sua stessa funzione.
Quindi la formale omissione della iniziale contestazione di addebiti dovrebbe necessariamente essere bilanciata dalla sostanziale e piena informazione al dipendente delle circostanze di fatto a suo carico e dell’intenzione dell’amministrazione di esaminarle ai fini dell’adozione di un provvedimento disciplinare; l’incolpato, inoltre, dovrebbe essere messo in grado di articolare pienamente le sue argomentazioni difensive.
Tali condizioni, che corrispondono a quelle indicate dall’orientamento giurisprudenziale sostanzialistico sopra citato (
[7]), debbono concorrere per poter dimostrare che “il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Un’implicita conferma alle argomentazioni appena riportate si desume dall’art. 15 d. l.vo 109/2006, che sanziona con la nullità gli atti di indagine, nei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati, non preceduti da comunicazione all’incolpato o avviso al difensore; l’espressa previsione di una sanzione non sarebbe stata, infatti, necessaria in caso di effettiva esistenza di un principio generale di illegittimità degli atti disciplinari non preceduti da una contestazione di addebiti. Peraltro, a dimostrazione di una tendenza legislativa alla prevalenza della sostanza sulla forma, l’art. 15, c. 5, del d. l.vo 109/2006 prevede una sanatoria in termini perentori decorrenti dalla conoscenza degli atti da parte dell’interessato.
Anche la recente decisione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato nr. 6403/2004, sopra citata, non pare porsi in netto contrasto con tale orientamento, in quanto fa riferimento ad una “modificazione della contestazione” non effettuata, nel caso concreto, dal Consiglio di disciplina che “avrebbe dovuto far contestare il nuovo illecito disciplinare emerso in sede procedimentale”.
Non è stata però specificato, in quella sede, se a tale contestazione avrebbe dovuto procedere lo stesso Consiglio di disciplina, con le modalità informali ma garantistiche sopra illustrate, ovvero, applicando letteralmente la normativa di settore (art. 19 D.P.R. 737/1981), il funzionario istruttore e se, in quest’ultimo caso, sarebbe stato necessario il regresso del procedimento ad una fase anteriore, con un ingiustificato aggravio dello stesso procedimento.
Tali dubbi potranno essere chiariti solo da nuove pronunce della giurisprudenza, chiamata, più in generale, al difficile compito di contemperare le esigenze di snellimento ed economicità dell’azione amministrativa, privilegiate dalla recente riforma del procedimento amministrativo e delle quali costituisce espressione l’art. 21 octies, cpv., l. 241/1990, con il principio di legalità e, di conseguenza, a rideterminare l’ambito di operatività del vizio di violazione di legge con riferimento alle garanzie formali.
Si tratta, a ben vedere, di una delle problematiche di fondo, forse ineliminabili, del diritto amministrativo.
Dott. Vito Montaruli
[1] Consiglio di Stato, sez. V, 14 febbraio 2003, nr. 801 ; Consiglio di Stato, sez. IV, 19 luglio 1993, nr. 737; Consiglio di Stato, Sez. V, nr. 46/91; Consiglio di Stato, sez. IV, nr. 97/86.
[2] Consiglio di Stato, sez. IV, I ottobre 2004, nr. 6403.
[3] Consiglio di Stato, sez. IV, I ottobre 2004, nr. 6403; Consiglio di Stato, sez. VI, 30 ottobre 1993, nr. 782;Consiglio di Stato, sez. VI, 5 dicembre 1992, nr. 1002; Consiglio di Stato, sez. V, 11 aprile 1991,nr. 539.
[4] Consiglio di Stato, sez. IV, 3 aprile 2001, nr. 1932; Consiglio di Stato, IV sez., 12 giugno 1983, nr. 608.
[5] Consiglio di Stato, sez, V, 18 agosto 1998, nr. 1271.
[6] Tar Puglia-Lecce, sez. III, 23.9.2005, nr. 4322; conformi Consiglio di Stato, sez. IV, 23 ottobre 1998, nr. 1382; Cassazione Civile, sez. III, 23 gennaio 2002, nr. 743.
[7] Consiglio di Stato, sez. V, 18 agosto 1998, nr. 1271.
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