Il principio di legalità e di riserva di legge penale

Redazione 12/03/19
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Il principio di legalità si articola in alcuni corollari, che evidenziano i profili su cui incide: il contenuto della previsione normativa e sanzionatoria (principio di tassatività e di determinatezza), l’efficacia nel tempo (irretroattività) e la fonte della norma penale (principio di riserva di legge). Con riferimento a quest’ultimo, il comma 2 dell’art. 25 Cost. legittima solo la norma primaria a regolare la materia penale, sancendo il monopolio statale del solo potere legislativo, con conseguente esclusione dal novero delle fonti di quelle non scritte (consuetudine) e di quelle secondarie (leggi regionali, regolamenti, che non sono espressione della sovranità popolare, di cui è titolare il solo Parlamento).
Se, conformemente al principio di tassatività, il legislatore è tenuto ad individuare in maniera sufficientemente chiara e precisa il perimetro della norma incriminatrice, in ossequio al principio di legalità, deve ritenersi vietato il ricorso all’analogia.

L’analogia

L’analogia è un procedimento d’integrazione dell’ordinamento, che, in mancanza di una disciplina espressa, consente di rimediare ad eventuali lacune normative sussumendo nell’ambito di operatività della norma un’ipotesi in essa non espressamente disciplinata: per identità di ratio tra tale caso e la disposizione (analogia legis); o applicando i principi generali dell’ordinamento (analogia iuris).

Il fondamento dell’analogia si rinviene negli articoli 12 e 14 delle disp. prel. c.c., che definiscono il ragionamento per similitudine e ne restringono l’ambito applicativo, enunciando il divieto di analogia in materia penale. L’art.14 delle Preleggi esclude il ricorso all’analogia in materia penale, ritenendo che le leggi penali non possano applicarsi “oltre i casi e i tempi in esse considerati”. Tale divieto è ricavabile in via implicita anche dagli art. 1 e 199 c.p., che richiedono l’espressa tipizzazione legislativa dei fatti integranti fattispecie di reato, al fine di assicurare la certezza del diritto, e dall’art. 25 Cost., che ne fonda il rango costituzionale.
Il divieto di analogia è diretto al legislatore, che in sede di formulazione delle norme incriminatrici deve determinare compiutamente il precetto, in modo da evitare lacune irragionevoli, così come al giudice, il quale non può applicare tali fattispecie oltre i casi espressamente contemplati. Occorre distinguere dall’analogia l’interpretazione estensiva, invece consentita anche in materia penale, nella quale l’interprete si limita ad attribuire alla norma un significato ulteriore, rispetto a quello immediatamente percepibile, ma comunque compatibile con il suo tenore letterale. Secondo l’opinione del tutto prevalente, la formulazione dell’art.25 della Costituzione, nel quale si esclude soltanto la “punibilità” per un fatto che non sia previsto dalla legge, consentirebbe invece l‘analogia “in bonam partem”. Così inteso, il divieto di analogia in materia penale avrebbe carattere relativo, in quanto, astrattamente, potrebbe essere riferito esclusivamente alle norme penali incriminatrici, con esclusione delle norme penali di favore: cause di giustificazione, scusanti, cause di non punibilità in senso stretto o di estinzione del reato. Peraltro, l’indirizzo prevalente in dottrina e giurisprudenza, nel riconoscere la natura di regola generale delle cause di giustificazione, considera invece “eccezionali” e dunque non estensibili analogicamente le altre ipotesi di non punibilità.

Il principio di riserva di legge

Il principio di riserva di legge, corollario del più generale principio di legalità, esprime il divieto di punire un determinato fatto in assenza di una legge preesistente che lo configuri come reato. Il fondamento costituzionale del principio in esame va rinvenuto, unitamente al dettato espresso di cui agli artt.1 e 199 c.p., nell’art. 25, II, Cost., secondo il quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge”.
Ciò significa che la definizione e la descrizione di tutti gli elementi costitutivi di un reato deve essere il frutto di una determinazione legislativa.
A fronte dell’espressa previsione di una riserva di legge tendenzialmente assoluta, che precluderebbe astrattamente l’apporto di fonti secondarie integratrici del precetto, la prassi conosce l’incremento esponenziale di ipotesi caratterizzate dalla tecnica del rinvio a fonti subordinate.

Occorre pertanto interrogarsi sulla definizione delle modalità e dei limiti della integrazione della fattispecie da parte della fonte secondaria. Tra i diversi modelli di eterointegrazione ipotizzabili, risulta centrale la disamina delle c.d. norme penali in bianco. In tali ipotesi, la legge affida alla fonte secondaria la determinazione delle condotte in concreto punibili (ad es. art. 650 c.p.) rendendo così evidente la possibilità che tale meccanismo entri in frizione con il principio di riserva di legge. A precisare le condizioni di legittimità della norma penale in bianco è stata la fondamentale sentenza n. 168 del1971 della Corte costituzionale. La pronuncia citata ha affermato che le norme penali in bianco non violano il principio di legalità quando sia una legge dello Stato – non importa se differente da quella incriminatrice – ad indicare i caratteri, i presupposti e il contenuto dei provvedimenti dell’autorità amministrativa. Diversamente, dovrebbe ritenersi illegittima la definizione del nucleo degli elementi essenziali che definiscono il precetto (senso del divieto) ad opera di una fonte subordinata.

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