Il principio di legalità formale, che si ricava dall’esegesi dell’art. 25 comma 2 Cost., costituisce il fondamento dello Stato di Diritto e introduce un modello formale di reato, in cui si considera illecito penale tutto ciò che è previsto dalla legge come tale. Si intuisce fin da subito come questo modello si scontri con inevitabili lacune, che necessitano di essere colmate, con dei principi che siano compatibili con il dettato dell’art. 25 comma 2 Cost, e, più in generale, con le norme costituzionali. La finalità è quella di cercare di adeguare il dato normativo alle fattispecie in concreto verificatesi. La dottrina e la giurisprudenza hanno trovato, dunque, nel principio di materialità, offensività e necessità l’idoneità di perseguire in concreto la suddetta finalità.
Oggetto di particolare interesse, da parte della Corte Costituzionale, è stato il principio di offensività, definitivamente riconosciuto nel nostro ordinamento e cristallizzato nel noto brocardo “nullum crimen sine iniura”.
Il principio si caratterizza per avere un duplice destinatario: da una parte, il legislatore, che dovrà prevedere fattispecie idonee a recepire in astratto il contenuto lesivo della fattispecie o la messa in pericolo di un bene giuridicamente rilevante (offensività in astratto); dall’altro, il giudice, che dovrà accertare che il fatto in concreto verificatosi abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato (offensività in concreto).
Prima di operare una ricostruzione del principio di offensività, partendo dall’analisi delle disposizioni costituzionali, un inquadramento dogmatico si rende necessario.
Quest’ultimo, infatti, permette una preliminare ricostruzione del principio in chiave politico-dogmatico. Particolarmente suggestivo infatti è osservare come il principio di offensività sia cambiato e si sia evoluto in seguito all’entrata in vigore della Costituzione e, soprattutto, come il suo significato sia stato irrimediabilmente collegato al diverso modo di interpretare la Costituzione stessa.
Al fine di restringere l’area dei fatti concepiti come meritevoli di tutela penale, particolarmente ampia, se si seguisse tout court il modello formale del reato, si decide di introdurre, come limite, il requisito dell’offesa. Quest’ultimo, in seguito all’entrata in vigore della Costituzione, doveva muovere dalla corretta ricostruzione del bene giuridico, concretizzandosi in una lesione dello stesso. Asportare la definizione di bene giuridico dal diritto civile e, dunque, dall’art. 810 cc., si rivelava, di fatto, impossibile: non si può confondere infatti la definizione civilistica di bene giuridico come oggetto di diritto, con quella penalistica di oggetto di valore. La staticità del primo e la dinamicità del secondo ne impediscono, dunque, la confusione concettuale. Per questo motivo, i beni giuridici sono stati definiti come “unità teleologiche”, cioè interessi funzionali al raggiungimento di uno scopo utile per l’intera comunità.
La teoria del bene giuridico ha costituito il fondamento di innumerevoli teorie sul principio di offensività, nessuna delle quali è stata però esente da un forte limite di carattere politico derivante dal collegamento del bene giuridico con i beni oggetto di tutela costituzionale. La Costituzione, infatti, essendo soggetta al mutare della realtà, ha con il tempo ignorato l’esistenza di alcuni beni mai entrati nella Costituzione formale, perché caratteristici di quella materiale. La consapevolezza che la Costituzione non fosse un mero catalogo tassativo di beni giuridici rilevanti, portò infatti Bricola a elaborare la teoria dei beni “costituzionalmente impliciti” così da inserire anche quelli non presenti nella Costituzione formale.
La tendenza a ricercare “ad ogni costo” un referente costituzionale era determinata dall’esigenza di garantire la proporzionalità che deve esistere tra il bene colpito e il bene protetto. Per questo motivo, al fine di cercare di svincolare la teoria in questione con il referente costituzionale, è stata elaborata la teoria dei “beni costituzionali non incompatibili”, cioè di quei beni, desumibili dall’attuale realtà socio-culturale, che non hanno trovato riconoscimento nella Costituzione. E’ evidente, dunque, come, in questo caso, la Costituzione operi come mero limite negativo.
Terminato questo inquadramento di carattere politico sul principio di offensività, è ora necessario analizzare, nello specifico, le norme che hanno portato dottrina e giurisprudenza, attraverso un procedimento logico di carattere deduttivo, all’elaborazione del principio oggetto di analisi.
Punto di partenza è costituito dall’art. 25 comma 2 Cost.: l’articolo infatti ha il merito di considerare il fatto come accadimento. La modificazione materiale infatti non sarebbe considerata dal diritto penale qualora non avesse una concreta portata offensiva. In questo caso il principio dovrà essere interpretato con quello adiacente di personalità che implica la riferibilità del fatto offensivo al suo autore. Dunque, l’art. 27 comma 1 Cost., può essere letto nel senso che la responsabilità penale è personale solo se il reato è offensivo.
Altro fondamento costituzionale è da ricercare nell’art. 27 comma 3 Cost., che, laddove non fosse letto alla luce del principio di offensività, finirebbe per violare lo stesso principio logico di non contraddizione: la rieducazione di un soggetto infatti postula inevitabilmente la lesione di un interesse protetto per la conservazione e sviluppo umano. Solo chi offende l’ordinamento pertanto ha bisogno di essere rieducato.
Anche le altre finalità del diritto penale, cioè quella afflittiva e retributiva, possono essere lette e interpretate alla stregua del principio di offensività.
La finalità afflittiva postula infatti che la pena è una conseguenza regolare del reato: l’ordinamento penale viene riparato sul piano ideale applicando una misura che sia reazione adeguata all’offesa subita. Ancor prima del quomodo della sanzione però la finalità retributiva condiziona l’an della sanzione: non è necessario punire un fatto qualora questo non sia offensivo, perché, in assenza di un’offesa, l’afflizione della persona è ingiustificata.
Anche l’altra finalità del diritto penale, cioè quella deterrente, può essere letta alla luce del principio di offensività. Il principio in questione implica infatti che la minaccia della sanzione penale debba dissuadere chiunque dal commettere un fatto reato. In questo caso l’offensività si basa sul fatto che la dissuasione di chi matura un intento criminoso debba essere basata sull’analisi dei costi e dei benefici: i benefici del reato, per l’autore, devono essere inferiori ai costi dell’azione criminosa, cioè la pena. L’offensività in questo contesto ha due fondamentali conseguenze: da una parte, in assenza del principio non vi sarebbe alcuna ragione a fondamento dell’analisi costi/benefici; dall’altra, il costo rappresentato ai consociati deve essere tale da superare il beneficio ricavabile dal reato, e quindi non si può non calcolare l’interesse in gioco.
Se il quadro così definito, dunque, appare lineare per i reati di danno, varie sono le complicazioni che emergono per quelli di pericolo, in cui si incrimina la potenziale lesione di un bene giuridico e che si distinguono in: reati di pericolo concreto, astratto e presunto. Caratteristica comune alle diverse tipologie di reati è derivata dall’anticipazione della tutela, giustificata dalla necessità di prevedere una tutela ex ante ai fini di tutelare beni giuridici di elevato valore oppure per supplire all’inadeguatezza della tutela al momento del danno.
Particolarmente discussa è stata la loro compatibilità con il principio di offensività e, dunque, la loro legittimità costituzionale.
Si può dunque procedere all’analisi delle singole specie di reato di pericolo e il riconoscimento della loro legittimità costituzionale alla stregua del principio di offensività.
I reati di pericolo in concreto sono quelli per la cui sussistenza il pericolo deve effettivamente esistere, costituendo elemento espresso e dovendo, dunque, essere accertato in ciascun caso concreto. La loro legittimità costituzionale è stata pienamente ammessa dalla dottrina.
I reati di pericolo astratto sono quelli nei quali il pericolo è implicito nella stessa condotta, ritenuta, per comune esperienza, pericolosa e tale da indurre il giudice a dover operare un semplice raffronto tra la fattispecie concreta e quella legale. Esempio tipico è costituito dal sorpasso su dosso e curva. Questa tipologia di reato è stata ammessa: la deroga al principio di offensività è richiesta infatti dalla natura del fatto incriminato. L’impossibile controllo ex ante dell’esistenza o meno delle condizioni di verificabilità dell’evento lesivo predicate dalla legge, determinerebbe una rinuncia alla tutela penale preventiva di beni giuridici fondamentali.
Mentre nei reati sopra menzionati, il pericolo è implicito nella pronuncia, nei reati di pericolo astratto, il pericolo è presunto iuris et de iure, per cui non è ammessa neppure prova contraria della sua concreta inesistenza. Esempio tipico era il reato, ora depenalizzato, di passaggio con semaforo rosso. Questa tipologia di reato aveva fatto sorgere dei dubbi relativi alla loro legittimità costituzionale dal momento che le condizioni di verificabilità dell’evento lesivo dovrebbero essere accertate in concreto.
Conclusa quest’ultima precisazione è necessario ora analizzare i problemi applicativi che il principio di offensività implica, contraddistinti da una tendenziale natura bifasica, derivante dalla duplice natura dei destinatari cui il principio in questione è rivolto: legislatore e giudice.
I problemi applicativi sorgono infatti dall’opera di deduzione della fattispecie concreta in quella astratta, che può rivelare un insieme di differenti patologie.
La prima riguarda il legislatore ed essenzialmente i casi di pericolo astratto e presunto, raramente tacciati di illegittimità costituzionale da parte della Corte stessa.
Al fine di analizzare, invece, i problemi applicativi che pone il principio di offensività quando il suo destinatario è il giudice, è interessante prendere in considerazione le ipotesi di peculato su cose di modesto valore, falso innocuo e frode processuale grossolana.
Per comprendere al meglio le caratteristiche delle tre fattispecie, alla stregua del principio di offensività, sarà necessario effettuare una loro analisi dinamica, volta ad evidenziare i comuni problemi applicativi che nello specifico si pongono e gli elementi differenziali che le contraddistinguono.
Il primo elemento in comune è di carattere soggettivo: il destinatario del principio di offensività è, in questi casi, il giudice.
Secondo elemento è di carattere oggettivo: in tutte e tre le ipotesi si verifica infatti una mancata coincidenza tra tipicità e offensività, perché il fatto concreto non esprime l’offesa prevista dalla norma incriminatrice.
Lo scarto però può configurarsi diversamente così che anche le soluzioni individuabili in concreto saranno differenti, come accade per le fattispecie di peculato su cose di modesto valore, falso innocuo e frode processuale grossolano: la vera differenza infatti sta nelle diverse soluzioni prospettate.
In primo luogo si rende necessario operare una diversa classificazione delle fattispecie in questione.
Il peculato su cose di modesto valore è, infatti, un tipo di reato di offesa che si caratterizza perché lo scarto tra tipicità e offensività è esterno alla norma. In questo caso infatti la fattispecie legale è offensiva, quella concreta è inoffensiva.
La soluzione in questo caso non può prescindere da un’analisi interpretativa del dato testuale. Come è noto, ai sensi dell’art 314 c.p., è punito il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che si appropria “del denaro o della cosa mobile altrui”. E’ dunque necessario, come dimostrato dall’ampia casistica sul furto di cose di modico valore (acino d’uva, chiodo arrugginito), analizzare il concetto di cosa mobile, che rimanda alla definizione contenuta nel Codice civile, secondo cui i beni in senso giuridico si devono caratterizzare per l’utilità economico-sociale, come emerge dall’interpretazione dello stesso art. 624 c.p. In questo caso, dunque, non si può qualificare il fatto come reato perché al fatto manca uno dei suoi elementi tipici, cioè l’oggetto materiale e, dunque, non si verificherà un danno per la Pubblica Amministrazione. E’ bene sottolineare però come spesso il solo criterio della valutazione economica del bene non è sufficiente perché occorrerebbe tener conto anche della funzione che il bene oggetto di peculato riveste nell’organizzazione amministrativa, per escludere pertanto con certezza la tutela penale del bene in questione. Questa ulteriore precisazione è il risultato dell’impossibilità di trasferire, automaticamente e tout court, le categorie di diritto civile nel diritto penale, perché differenti sono le funzioni che questi due diversi ordinamenti intendono perseguire.
Si noti dunque nel caso di specie la tecnica seguita da parte dell’interprete: per evitare di applicare il principio di offensività e dunque l’art. 49 comma 2, il giudice ha preferito non menzionare neppure il principio in questione; sarà sufficiente infatti accertare il fatto concreto, per comprendere che la divergenza non si coglie sul piano dell’offesa, bensì su quella della condotta che non costituirà reato perché scevra di uno o più elementi della fattispecie tipica.
La soluzione individuata deriva, dunque, dal fatto che lo scarto tra la fattispecie concreta e astratta è esterno: mentre la prima è inoffensiva, la prima è offensiva, perciò non sarebbe stata possibile l’applicazione del 49 comma 2 Cost.
Ma cosa succede quando l’inoffensività coinvolge anche la fattispecie astratta, così che lo scarto tra tipicità e offensività è già in gran parte riferibile alla norma?
In questo caso si tratta di reati formali, esempio di scuola è costituito dal falso grossolano, cioè colui la cui falsità è così evidente da risultare inidoneo all’inganno di chiunque. In questo caso si ritiene la fattispecie penalmente irrilevante per la inoffensività del bene giuridico che intende tutelare, cioè la pubblica fede. L’inidoneità dello stesso a trarre in inganno la pubblica fede comporta quindi la non punibilità in concreto.
Altro esempio è costituito dal falso innocuo, cioè colui che è inidoneo ad aggredire gli interessi da esso potenzialmente minacciati. In questo caso si impone l’accertamento concreto della inidoneità dello stesso di porre in pericolo il bene giuridico che la norma intende tutelare, così da risultare penalmente irrilevante. Il bene giuridico mancante in questo caso è la lesione della pubblica fede. L’innocuità del falso non risulta solo dalla valutazione della fede pubblica, ma anche di quella di elementi ulteriori ad essa connessi.
Ulteriore esempio è costituito dalla frode processuale grossolana cioè dalla immutazione artificiosa di luoghi, cose e realizzata anteriormente al procedimento penale, perfino se attuate subito dopo la commissione del reato e anteriormente all’attività di polizia giudiziale. In questo caso la non punibilità è determinata dall’evidente difetto di potenzialità ingannatoria emergente, ad esempio, dall’eliminazione di tracce di sangue con il grossolano utilizzo di stracci e detersivi, recanti sostanze ematiche a occhio nudo e così via.
In questi due ultimi casi la soluzione comune sarà l’applicazione dell’art. 49 comma 2 Cost., cioè opera l’istituto del reato impossibile che, essendo previsto dalla legge, può autorizzare la non punibilità di fatti conformi al tipo, sprovvisto però della offensività. In questi casi quindi si nota come si sia proceduto all’accertamento in concreto del pericolo, pur non espressamente richiesto dalla norma incriminatrice: si potrebbe infatti escludere la punibilità anche solo utilizzando l’interpretazione teleologica della disposizione normativa.
Quest’ultima soluzione (consistente nell’applicazione dell’art. 49 comma 2) non è diversa rispetto a quella prospettata nei reati senza offesa, cioè a quei reati di pericolo presunto, che teoricamente dovrebbero sottrarsi all’applicazione del principio di offensività, perché l’anticipazione della tutela è una scelta interpretativa non sindacabile sul profilo interpretativo. L’applicazione dell’art. 49 comma 2 muove dalla premessa che tali reati esprimano un livello sufficiente di attacco al bene giuridico.
Dall’analisi dei casi esaminati abbiamo potuto constatare come l’applicazione di un principio generale, quale quello di offensività, fonte di un medesimo problema applicativo, può determinare il raggiungimento di soluzioni completamente diverse, dipendenti dai differenti strumenti di cui l’interprete si munirà nel caso concreto.
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