Il principio nominalistico
Il principio nominalistico si sostanzia nella regola secondo la quale le obbligazioni pecuniarie si estinguono con moneta avente valore legale nello Stato al momento del suo pagamento e per il suo valore nominale[1]. In ossequio a tale principio, pertanto, al momento della scadenza del termine di adempimento, il debitore si libera pagando l’importo originariamente dovuto al tempo in cui è sorta l’obbligazione, a prescindere dal valore reale della valuta.
Il principio nominalistico è codificato dall’art. 1277 c.c., il quale ultimo contiene, altresì, l’esplicita enunciazione dei due principi di fondo del corso legale della moneta: il principio liberatorio, in forza del quale la moneta avente corso legale non può essere legittimamente rifiutata come mezzo di pagamento, ed il principio del valore nominale della valuta. Quest’ultimo principio attribuisce rilevanza giuridica al valore nominale della moneta. Pertanto, il debitore, al momento della scadenza, si libera dal debito elargendo la somma corrispondente alla medesima quantità di pezzi monetari fissata sin dal principio. Ciò, a prescindere dal tempo trascorso dall’inizio del rapporto obbligatorio e nonostante, nel frattempo, si sia verificato un cambiamento del potere d’acquisto del denaro. Questo principio finisce per giovare – nell’eventuale fase patologica del rapporto obbligatorio – al debitore, nei casi normali di inflazione, e al creditore, nell’ipotesi (più teorica che pratica) della deflazione.
Il principio nominalistico, dunque, riversa sul creditore pecuniario il rischio delle variazioni del potere di acquisto della moneta.
Distinzione tra debiti di valuta e debiti di valore
Proprio al fine di escludere o comunque attenuare il rischio di una forte svalutazione della moneta, l’ordinamento ha predisposto una serie di correttivi, alcuni stabiliti direttamente dalla legge[2], altri riconducibili all’autonomia delle parti[3], altri ancora all’opera creativa della giurisprudenza[4].
A tale principio sono di regola assoggettate soltanto le obbligazioni di valuta[5], ossia le comuni obbligazioni pecuniarie aventi ad oggetto sin dall’origine la prestazione di un importo nominale di denaro che può essere determinato o determinabile mediante il riferimento a parametri fissi.
Al contrario il principio nominalistico non si applica ai debiti di valore. Le obbligazioni di valore possono avere titolo negoziale, ma la tipica ipotesi di obbligazione di valore è quella avente ad oggetto il risarcimento del danno: il suo ammontare è, infatti, equivalente al valore effettivo del danno da reintegrare[6].
In particolare, la categoria dei debiti di valore venne introdotta dalla giurisprudenza al dichiarato fine di sganciare taluni debiti, non ab origine pecuniari, dal rigore del principio nominalistico e dalla sua insensibilità al mutamento nel tempo del valore reale della moneta. Pertanto, la conseguenza fondamentale della qualificazione di un certo debito pecuniario in termini di debito di valore risiede nella sua sottrazione alla fictio iuris del principio nominalistico e alla correlata disciplina di cui all’art. 1224 c.c.: il debito di valore è correlato al potere di acquisto della moneta ed il suo importo in valuta deve essere determinato attualmente in corrispondenza ad un valore economico reale.
Alla stregua della giurisprudenza ormai consolidata e della dottrina prevalente, il discrimen tra debito di valore e debito di valuta è dato dalla natura dell’oggetto originario della prestazione, nel senso che nei debiti di valore la moneta non rappresenta l’oggetto della prestazione originaria programmata, ma segue l’obbligazione primaria, quale rimedio per l’integrale rimpiazzo dell’utilità prevista nella originaria obbligazione.
In tale senso, si ha debito di valuta, e come tale regolato dal principio nominalistico, quando l’oggetto dell’obbligazione consiste, sin dal momento della costituzione del vincolo obbligatorio, in una somma di denaro, sia essa determinata ab initio o suscettibile di esatta quantificazione solo all’esito della liquidazione.
Si ha, invece, debito di valore, e come tale sottratto all’ambito applicativo del principio nominalistico, in tutti i casi in cui oggetto immediato e diretto dell’obbligazione originaria sia un bene diverso dal denaro, e quest’ultimo ne rappresenti solo il surrogato pecuniario[7].
Dalla enunciata distinzione tra debiti di valore e debiti di valuta[8] sembra emergere (ma di questo si vedrà più approfonditamente in seguito) che l’actio finium regundorum tra le due tipologie di obbligazioni risieda nella liquidità, atteso che, evidentemente, i debiti aventi ad oggetto beni diversi dal denaro sono per loro natura illiquidi. Infatti, è solo con la liquidazione, giudiziale o convenzionale, che il debito di valore si converte in debito di valuta. Se questo è vero, resta da verificare se sia vero il contrario, ossia se anche tutti i debiti di valuta siano sempre, e per ciò solo, anche liquidi.
Il presente contributo sul tema del principio nominalistico è tratto da “Il debitore ritardatario. Le tutele per il creditore”, di Cristina Maria Celotto.
Note
[1] La disposizione si spiega in ragione delle possibili fluttuazioni del potere di acquisto della moneta, normalmente soggetto a fenomeni di svalutazione e rivalutazione. Gli ordinamenti moderni sono caratterizzati da un processo continuo di erosione del potere di acquisto della moneta, correttamente definito come svalutazione monetaria, che comporta la progressiva diminuzione del potere reale di acquisto.
[2] Si pensi ad esempio agli interventi legislativi in materia di locazioni o scala mobile.
[3] Con riguardo ai correttivi convenzionali, è consentita alle parti la facoltà di inserire nel contratto una serie di clausole convenzionali che svolgono la funzione di adeguamento del valore del denaro. Si pensi alle clausole c.d. di salvaguardia (del potere di acquisto della moneta) o di “indicizzazione” (adeguamento automatico) dell’importo del debito originariamente pattuito all’andamento di determinati indici-valori (indici Istat dei prezzi al consumo o del costo della vita; clausole oro; clausole monetarie in senso stretto, come il dollaro; clausole merci). Sempre in questa stessa prospettiva si pensi anche alla pattuizione della facoltà di rinegoziazione del corrispettivo o di recesso in presenza di determinate circostanze.
[4] Si pensi alla distinzione tra debiti di valore e debiti di valuta.
[5] In tal senso la giurisprudenza: “le norme di cui agli articoli 1277 e 1278 c.c. sono legittimamente riferibili ai soli debiti di valuta e non possono, pertanto, trovare applicazione con riguardo a debiti di valore” (Cass. civ., sez. III, 25 febbraio 2005, n. 4076).
[6] La distinzione tra debiti di valore e debiti di valuta, nei suoi caratteri generali, è stata per la prima volta elaborata nel 1983 (Cass. civ., ss.uu., 26 febbraio 1983, n. 1464, in Dir. e giur., 1983, 943, in Riv. Giur. Edilizia, 1983, I, 218, in Rass. Avv. Stato, 1983, I, 124, in Foro Amm., 1984, 322) ed è tutt’ora condivisa dalla giurisprudenza della Suprema Corte, ove si afferma che le obbligazioni di valore si qualificano tali allorché l’oggetto diretto ed originario della prestazione consista in una cosa diversa dal denaro, rappresentando la moneta solo un bene sostitutivo di una prestazione con diverso oggetto, mentre sono di valuta le obbligazioni aventi fin dall’origine ad oggetto una somma di denaro (Cass. civ., sez. I, 29 settembre 2007, n. 19390, in Guida al diritto, 2007, 43, 61). In dottrina l’elaborazione teorica della distinzione tra debiti di valuta e debiti di valore si deve principalmente all’Ascarelli, La moneta, cit., 141, 231 e, più di recente, Obbligazioni pecuniarie, cit., 170 (dove ritiene preferibile la dizione debito di denaro piuttosto che debito di valuta).
[7] Cass., 22 giugno 2007, n. 14573, in www.neldiritto.it.
[8] Un’ampia analisi delle varie ipotesi di debiti di valore e di valuta è fatta dall’Ascarelli, in Obbligazioni pecuniarie, cit., 445, il quale rileva come la qualifica di debito di valore debba procedere in base alla considerazione della natura dell’istituto o dello scopo perseguito dalle parti.
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